Tra la primavera e l’estate avrebbero dovuto tenersi in Palestina le prime elezioni dal 2006: il 22 maggio le Legislative, il 31 luglio le Presidenziali, in Cisgiordania e a Gaza, come non avveniva dalla guerra tra Hamas e Fatah scatenata proprio dall’ultimo voto di 15 anni fa. Il passo di riunificazione tentato con il voto era realisticamente improbabile date le forze politiche in campo, ma se compiuto avrebbe potuto dare il via a un cambiamento storico per la Palestina, unificando il suo governo. Ancora fino a qualche giorno fa, prima che riesplodesse l’escalation militare tra Israele e Hamas, a Ramallah, nella Striscia e tra i membri della diaspora palestinese si dibatteva del rinvio “sine die” del voto, deciso il 29 aprile dal presidente Abu Mazen, ufficialmente per la mancata autorizzazione di Israele alle procedure per organizzare i seggi anche tra gli oltre 370mila palestinesi dei territori occupati di Gerusalemme est. In realtà, anche al leader dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) e di Fatah faceva ormai comodo sospendere la chiamata alle urne, preso atto che il gioco politico gli era sfuggito di mano a causa della grande sete di rinnovamento della popolazione palestinese e considerato che da settimane Israele cercava, su più fronti, di incrinare l’accordo raggiunto sul voto tra palestinesi.
Con la candidatura a sorpresa in una lista di indipendenti di Marwan Barghouti, il “Mandela palestinese” detenuto nelle carceri israeliane, era chiaro che Abu Mazen e il suo entourage avrebbero perso il controllo dell’Anp. L’effetto domino scaturito dall’accordo tra Hamas e Fatah per le elezioni nel 2021 avrebbe estromesso dal potere, loro malgrado, tanto la nomenclatura corrotta di Fatah quanto la dirigenza Hamas, data in vantaggio prima della scesa in campo di Barghouti. Con la prospettiva della nuova coalizione, i palestinesi cominciavano davvero a vincere la disillusione, credendo nel voto e sperando in un governo alternativo allo status quo in corso da anni. Il voto era una variabile inattesa anche per Israele, impegnato innanzitutto a stringere la morsa sugli islamisti al governo della Striscia, arrestando diversi candidati per le Legislative di Hamas e di sue liste affiliate, a Gerusalemme est e in Cisgiordania. Come nel 2006, in primavera l’esercito israeliano (Idf) ha intensificato i raid in Cisgiordania con centinaia di fermi, alcuni anche tra gli esponenti di Fatah. A marzo, lo stesso quotidiano israeliano progressista Haaretz aveva rivelato le “minacce dei servizi di sicurezza dello Shin Bet” mosse verso “decine di attivisti politici della West Bank che supportano Hamas”, con “loro detenzioni di diversi anni se avessero corso nelle elezioni”. In qualche caso gli agenti dell’intelligence israeliana interna avrebbero “chiamato a telefono” o “visitato a casa di notte, scortati da militari” i sostenitori degli islamisti, armati e finanziati dall’Iran. Alcuni coordinatori dello Shin Bet avrebbero anche “convocato e interrogato degli attivisti nei loro centri”.
Hamas, che ha tenuto il punto fino all’ultimo per andare con il voto, aveva denunciato a più riprese la “palese interferenza negli affari interni palestinesi”, un “tentativo di ostruire il processo elettorale, influenzandolo e impedendone il corso”. Se a Gerusalemme est le autorità israeliane non hanno mai vietato espressamente le elezioni palestinesi, hanno evitato però anche di autorizzarle, alimentando la propaganda strumentale di Fatah e dell’Anp sul “voto vietato a Gerusalemme est”. Una strategia della tensione proseguita, a livello popolare, con il riaccendersi del contenzioso degli sfratti delle famiglie palestinesi del sobborgo di Sheikh Jarrah, sulle colline di Gerusalemme est, dove queste avevano trovato rifugio come sfollate da Tel Aviv e da altri centri conquistati dagli israeliani alla nascita dello Stato ebraico.
Questi palestinesi e i loro eredi, già privati delle proprietà originarie durante la Nakba, la “catastrofe” dell’invasione e dell’esodo del 1948, per i tribunali israeliani dovrebbero adesso cedere anche le loro case da profughi ai coloni ebrei che nel 1967 hanno conquistato anche i territori di Gerusalemme. La questione annosa di Sheikh Jarrah è riesplosa proprio questa primavera, con le intimazioni all’evacuazione di alcuni tribunali israeliani rivolte ad alcune famiglie del sobborgo. Secondo un report dell’organizzazione israeliana Ir Amim per la tutela dei diritti umani nella città di Gerusalemme, sono circa 600 i nuclei familiari sotto la minaccia pendente di sfratto, 75 dei quali nell’area di Sheikh Jarrah. In loro difesa, da aprile si susseguono le proteste di strada sempre più accese nella parte Est, in Cisgiordania, in un crescendo di scontri con la polizia culminati nei nuovi tumulti sulla Spianata delle Moschee per il Jerusalem Day, le celebrazioni nazionali di Israele tra il 9 e il 10 maggio della presa del controllo della città vecchia nella Guerra dei sei giorni del 1967. Quest’anno circa 8mila palestinesi si sono barricati nella moschea di al-Aqsa della spianata, in risposta a una marcia della destra nazionalista israeliana organizzata nei quartieri musulmani del centro per le commemorazioni: l’ennesima provocazione che ha fatto da miccia.
Negli scontri e nelle sassaiole con la polizia, la Croce rossa ha denunciato almeno 300 feriti palestinesi. Hamas, irritata anche con l’Anp per lo stop alle elezioni, ha risposto con una pioggia di razzi verso Tel Aviv e Gerusalemme all’ultimatum ignorato da Israele sul ritiro delle forze di sicurezza da Al Aqsa e Sheikh Jarrah: oltre 1000 lanci in due giorni, secondo rapporti dell’Israel defence forces (Idf), l’85% dei quali intercettato dal sistema di difesa Iron Dome, ma che hanno distrutto abitazioni e oleodotti nel sud di Israele, uccidendo e ferendo anche degli ebrei. I raid di rappresaglia di Israele, secondo il bilancio palestinese, hanno provocato almeno 35 morti – 10 dei quali bambini – e centinaia di feriti.
Si giustifica il nuovo confronto tra Israele e Gaza come una reazione obbligata all’aggressione criminale delle milizie islamiste della Striscia, ma farlo è fin troppo comodo oltre che riduttivo. Intanto perché queste frizioni sono state cercate anche da Israele, una volta messa in sicurezza a marzo la popolazione con la vaccinazione di massa contro il Covid-19 – al contrario di quanto avvenuto in Palestina, privata delle dosi accumulate da Israele. L’Anp di Abu Mazen si trova poi in un frangente di inedita debolezza nello scacchiere arabo e mediorientale: diversi tra governi e regni tradizionalmente amici della regione (dal Marocco, al Bahrein, al Kuwait e, più sottotraccia, all’Egitto e in primo luogo all’Arabia Saudita) stanno normalizzando le loro relazioni con lo Stato ebraico, aderendo di fatto agli accordi di Abramo tra Israele e gli Emirati arabi promossi dall’amministrazione dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, scaricando la causa palestinese. Anche il governo del successore Joe Biden, nonostante le forti azioni di discontinuità rispetto all’operato di Trump, per esempio con la condanna dell’espansione dei coloni ebrei in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, non è intenzionata a mettere in discussione gli accordi di Abramo.
In questo scenario interno e internazionale, la nuova crisi tra Hamas e Israele appare piuttosto come un’ennesima escalation a orologeria nella lunga storia del conflitto israeliano-palestinese. Ormai una guerra a tutti gli effetti, dalla lunga tregua dall’operazione Margine Protettivo del 2014: “Attacchi che proseguiranno e si intensificheranno”, ha ammesso anche il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Tra l’altro, dopo le nuove elezioni anticipate di marzo, un altro conflitto armato con Hamas offre al primo ministro israeliano ad interim anche l’occasione, almeno nelle intenzioni, per sviare l’attenzione dell’opinione pubblica dalla grave crisi di governo che si trascina da quasi due anni in Israele. Si tratta però di una mossa molto pericolosa che può sfuggire di mano a Netanyahu, come quella del presidente palestinese Abu Mazen di indire le elezioni.
Anche la Casa Bianca, pur condannando gli attacchi armati palestinesi, ha invitato entrambe le parti a evitare “provocazioni” sulla spianata delle moschee e a Sheikh Jarrah. Israele, ancora una volta, ha scelto di adottare la tattica del divide et impera, nel tentativo di bloccare qualsiasi progresso verso l’unità palestinese, quale poteva essere il voto annullato del 2021. Le condizioni della popolazione palestinese logorata da più di 70 anni di oppressione sono state ulteriormente esasperate, in un momento di crisi sanitaria e di aggravamento dello stato economico (per il 2020 il Palestine Economic Policy Research Institute stima un tasso di disoccupazione nella West bank raddoppiato al 36%) nell’anno della pandemia. Gruppi criminali al potere come Hamas sono stati messi nella condizione di non avere nulla da perdere.
La rabbia e la disperazione di incubatori dell’odio come la Striscia di Gaza e anche Gerusalemme est sono state nella sostanza ancora sottovalutate da Israele, per meri calcoli di propaganda politica e di accaparramenti territoriali. Un gioco al massacro che, come è già evidente dalle immagini di sangue e di distruzione di questi giorni, apre la strada a una nuova Intifada anche nello Stato ebraico, e che si ritorcerà anche contro la popolazione ebrea, minando la convivenza delle generazioni presenti e future. Anziché essere cercata, questa ennesima guerra scoppiata tra Israele e Hamas poteva e doveva essere evitata, nel tentativo di perseguire il difficile obiettivo della pace. Invece, a causa dell’instabilità politica anche di Israele, stavolta potrebbe durare ancora più a lungo delle operazioni mirate contro Gaza del passato, costituendo – è l’unica certezza – nuovo carburante per l’odio tra israeliani e palestinesi.