Israele ha il primato mondiale di vaccinati, ma lascia i palestinesi morire di Covid - THE VISION

Nelle settimane precedenti alle elezioni del 23 marzo Israele ha riaperto gradualmente la gran parte delle scuole, bar, ristoranti, teatri, palestre, luoghi turistici e per il divertimento. Da metà marzo si può tornare anche ai concerti e negli stadi, se muniti di un patentino temporaneo da vaccinati o da persone che hanno contratto il Covid-19 in passato, e rispettando i protocolli sanitari contro il contagio. Tutt’altro che un ritorno alla normalità per gli oltre 9 milioni di israeliani, che sono costretti a subire controlli e discriminazioni quotidiane in base all’essere stati malati o meno e all’età –  bambini e adolescenti sotto i 16 anni non sono stati vaccinati, e se non hanno avuto il Covid-19 non hanno il green pass. Inoltre l’intelligence interna ha ricevuto un mandato temporaneo per monitorare i dati personali, perché incaricata del tracciamento dei contagi. Senza dubbio, la vaccinazione di massa già a febbraio, dopo il ciclo di prime dosi, ha fatto crollare del 31% i casi gravi di Covid-19, come riporta anche Nature; il miglior risultato che il premier Benjamin Netanyahu possa esibire alla vigilia delle quarte elezioni legislative in meno di due anni.

Benjamin Netanyahu si vaccina live in TV

L’esercito israeliano si è proclamato come il primo al mondo Covid-free. Dopo alti e bassi nella gestione della pandemia che hanno costretto a rigidi lockdown nazionali, la rapida ed efficiente campagna vaccinale nello Stato ebraico (mirata a coprire innanzitutto gli over 60 e le persone con fragilità, e gradualmente le altre fasce di popolazione adulta) costituisce un modello per i governi stranieri che la studiano e valutano sperimentazioni, anche nell’Unione europea. Piccoli Stati come Austria e Danimarca si organizzano per “produrre nuovi vaccini e lavorare alla ricerca di terapie contro il Covid-19 con Israele”; un “dialogo proficuo” è in corso anche con l’Italia per rafforzare le collaborazioni mediche, secondo quanto affermato dall’ambasciata israeliana a Roma. La vaccinazione in stadio avanzato in Israele ha anche il merito di dare alla scienza importanti informazioni ed evidenze sull’efficacia dei vaccini testati contro il Covid-19, come nel caso del report sulla copertura di Pfizer/BioNTech diffuso su Lancet a febbraio, o degli ultimi dati del ministero della Salute israeliano sull’efficacia del 97% del vaccino Pfizer/BioNTech nel prevenire le infezioni sintomatiche e del 94% quelle asintomatiche. Eppure, questa campagna sanitaria è macchiata dall’uso selettivo e discriminatorio che lo Stato ebraico fa da dicembre delle circa 15 milioni di dosi ricevute dalla multinazionale statunitense. 

A eccezione delle 2mila dosi di vaccino Moderna inviate a febbraio all’Autorità nazionale palestinese (Anp) per il personale sanitario di Ramallah, i vaccini di Israele non hanno mai raggiunto gli oltre 4 milioni e mezzo di palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, nonostante per le leggi internazionali, Israele sia responsabile anche di questi territori in quanto forza occupante. Senza alcuna motivazione, mentre Israele già spiccava per record mondiale di abitanti vaccinati, il governo Netanyahu a febbraio è arrivato a bloccare per due giorni la consegna di 2mila dosi del vaccino russo Sputnik a Gaza, ordinate indipendentemente dall’Anp e che il ministero della Salute palestinese intendeva destinare “al personale medico delle terapie intensive dei pazienti Covid e dei reparti di emergenza” dell’enclave. La Striscia soffre della cronica carenza di forniture mediche a causa del blocco israeliano terrestre, aereo e marittimo – tanto più durante la pandemia. Per Gaza si trattava del primo lotto di vaccini contro il Covid-19, di passaggio obbligato dal territorio israeliano e lì trattenuto in attesa di un via libero politico. In commissione Difesa della Knesset, il Parlamento israeliano, si tentava infatti di vincolare l’arrivo dei “vaccini in mano a Hamas” alla “liberazione di due prigionieri israeliani” o alla “riconsegna delle salme di due soldati dell’Idf” (l’esercito israeliano) rimasti uccisi nella Striscia durante la campagna militare nel 2014, un do ut des definito “vergognoso” dai deputati arabo-israeliani. 

Hebron, giugno 2020

Il 17 febbraio le dosi sono state autorizzate a entrare nella Striscia. Da allora, nonostante il richiamo già a gennaio delle Nazioni Unite a Israele “ad assicurare i servizi sanitari nei territori occupati come imposto dalla Quarta convenzione di Ginevra, dispiegando tutti i mezzi a sua disposizione”, la situazione in Palestina è rimasta invariata. Per gli esperti dell’Onu si tratta di “una negazione discriminatoria e illegale, sulla base di ragioni etniche o di razza, del diritto all’eguale accesso alle cure sanitarie”. Al 17 marzo Israele ha consegnato all’Anp “quantità simboliche di preparati”, come le definisce Netanyahu, ovvero le 2mila dosi per il personale sanitario che fanno parte di un pacchetto di aiuti che Israele invia anche ad altri Paesi del mondo, attingendo dalle scorte di Moderna “accumulate e non utilizzate”. Per il resto Ramallah ha dovuto affidarsi alle 30mila dosi russe di Sputnik, alle donazioni di altre migliaia di dosi dello stesso vaccino da parte degli Emirati arabi uniti anche verso Gaza e, da metà marzo, a un primo lotto di 60mila dosi (AstraZeneca e Pfizer/BioNTech) dalla rete Covax dell’Onu per i Paesi in via di sviluppo, 20mila delle destinate a Gaza. Poiché solo poche migliaia di palestinesi sono protetti da un vaccino, il risultato è che tra loro le infezioni sono in deciso aumento. Intanto più di 4 degli oltre 5 milioni e 100mila israeliani che avevano ricevuto la prima dose, secondo i dati aggiornati del ministero della Salute israeliano, hanno ricevuto anche la seconda. Sotto pressione per le critiche, Israele ha ora accettato di vaccinare i circa 130mila palestinesi con un permesso di lavoro in Israele o nelle colonie e i circa 300mila palestinesi di Gerusalemme Est, titolari di uno status di residenza

Inaugurazione della campagna vaccinale a Gaza, 22 febbraio 2021

Per gli altri territori dichiarati sotto occupazione dalle risoluzioni dell’Onu, il governo israeliano continua a scaricare la responsabilità sull’Anp, appellandosi agli accordi falliti di Oslo del 1993 tra Yasser Arafat e l’allora premier israeliano Yitzhak  Rabin, che se avessero davvero trovato applicazione avrebbero tra l’altro segnato il ritiro promesso da Israele, entro cinque anni, dalla Striscia di Gaza e dai territori della Cisgiordania occupati militarmente. Al contrario, da allora lo Stato ebraico ha stretto la morsa su Gaza e moltiplicato gli insediamenti a Gerusalemme Est e in Cisgiordania. Un apartheid che durante la pandemia, per la giornalista israeliana Amira Hass, è anche un “apartheid dei vaccini”, perché per averli per i palestinesi non basta “essere registrati all’Anagrafe palestinese controllata da Israele”. “Se Israele non convalida il certificato di nascita di una bambina palestinese, quella bambina non è iscritta. E per una 16enne di Gaza, Hebron o Barta’a non è sufficiente la registrazione del ministero dell’Interno palestinese per avere una carta d’identità, se il ministero dell’Interno israeliano non conferma i dettagli”; ciò nonostante, denuncia Hass su Haaretz, “Israele ha escluso dai vaccini questi 4 milioni e mezzo di palestinesi sottoposti alle sue leggi, il governo continua a dichiararsi non responsabile della loro salute”.  

Somministrazione del vaccino Sputnik V a Gaza

Una linea che, nell’esecutivo di unità nazionale formato in extremis per la pandemia, è promossa anche dai centristi liberali di Blu e Bianco, solo un anno fa disponibile anche a sondare un’alleanza con i laburisti e con le liste arabo-israeliane pur di estromettere dal governo la destra di Netanyahu. Adesso invece il loro leader, l’ex generale delle guerre di Gaza e co-premier Benny Gantz, si oppone anche alle poche migliaia di dosi trasferite all’Anp, accusando Netanyahu di “trafficare sui vaccini che i contribuenti israeliani pagano con le loro tasse”. L’accaparramento delle dosi è il tema più cavalcato e strumentalizzato nella corsa elettorale. Non a caso il patron della multinazionale Pfizer Albert Bourla, che non fa mistero dei rapporti stretti con Netanyahu, sarebbe dovuto atterrare l’8 marzo a Tel Aviv, ma è stato costretto a posticipare la visita per le accuse di portare voti all’amico. Dopo diverse indiscrezioni riferite dai media, poi confermate dal ministero delle Finanze israeliano per trasparenza in vista delle elezioni, il Paese ha pagato in vaccini 788 milioni di dollari: tradotto, il governo Netanyahu ha pagato le sue dosi il triplo degli alleati occidentali (in media 52 dollari a dose, rispetto ai 15 dollari degli Stati Uniti e ai 18 dell’Unione europea) per portare avanti un immunizzazione che ha discriminato milioni di persone. 

Il CEO della Pfizer Albert Bourla

Il popolo palestinese soffre negli ultimi mesi dell’ennesima discriminazione fondata sul pregiudizio ideologico e su un’oppressione storica. Non per niente Israele ha deciso di frazionare i vaccini non impiegati in piccoli lotti per i Paesi dell’Africa, dell’America latina e anche verso dei Paesi europei come la Repubblica Ceca, anziché riservarli ai territori palestinesi di sua responsabilità. Per le Nazioni Unite “l’accesso differenziato dei palestinesi alle cure indispensabili sanitarie è moralmente e legalmente inaccettabile”, a maggior ragione perché “nel mezzo della peggiore crisi sanitaria del secolo”. Ma né l’Unione europea né gli alleati statunitensi, che ormai guardano a Israele come un caso di studio per l’efficacia nelle vaccinazioni, hanno fatto propria la condanna del Palazzo di Vetro e gli appelli umanitari di Human Right Watch e di altre ong. La pandemia è solo l’ultima occasione in cui la comunità internazionale ha tradito le richieste di dignità e giustizia del popolo palestinese. Negando tacitamente l’accesso ai vaccini, ora nega anche il suo diritto alla vita.

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