Il basso valore che l’Italia dà alla scuola si vede già dalla vita poco dignitosa dei docenti - THE VISION
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In base a quanto dichiarato dal ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara a intervalli regolari, tutti i docenti italiani dovrebbero gioire per i cospicui aumenti di stipendio e per le risorse messe a disposizione per formazione e aggiornamento continui. “Tra l’anno scorso e il 2024 parliamo di quasi 300 euro al mese di aumenti”, avrebbe dichiarato il ministro, ripreso dall’Ansa, in un collegamento al Festival dell’Economia di Trento. Questa affermazione, però, andrebbe attentamente analizzata e contestualizzata: proprio di questi tempi, infatti, i docenti – specialmente i moltissimi precari – sono costretti ad affrontare spese esorbitanti per abilitarsi – così da avere accesso ai concorsi pubblici per ottenere la cattedra a tempo indeterminato – nonché a quotidiane fatiche e umiliazioni. Il rischio di lasciarsi trascinare da affermazioni entusiastiche, e in molti casi fuorvianti, è quindi alto, e c’è bisogno di mettere in evidenza le cose per come stanno.

Giuseppe Valditara

Con un’inflazione del 5, 4% su base annua (e dello 0,8% su base mensile), nel 2024 un docente riceve circa 1700 euro netti al mese – contro i 1550 netti guadagnati fino a qualche anno fa. Questa somma media mensile – che non tiene conto di piccole variabili legate, per esempio, all’anzianità di servizio – risulta ben al di sotto della spesa media mensile, per esempio, di una persona single, che già nel 2022 in Italia si attestava sui 1937 euro. Se consideriamo che, da sempre, lo stipendio dei docenti è di gran lunga inferiore rispetto alla media europea, con l’inflazione l’aumento concesso negli ultimi tempi risulta esiguo, per nulla commisurato al carovita. Questo discorso vale naturalmente non solo per i docenti: in Italia gli stipendi medi sono, attualmente, del tutto inadeguati al carovita, soprattutto per i giovani e per chi è all’inizio della carriera. Gli effetti dell’inflazione gravano sulla stragrande maggioranza della società, sia che si lavori nel pubblico che nel privato. Ma parlare di restituzione di dignità ai docenti, a oggi e considerando l’aumento del costo della vita, che impedisce di averne una dignitosa nonostante il piccolo aumento di stipendio, risulta del tutto fuori luogo.

I 100/150 euro netti in più al mese, infatti, non bastano a coprire gli aumenti dovuti all’inflazione. Non si può negare: i docenti col loro stipendio faticano ad arrivare a fine mese. Inoltre, gli scatti di anzianità per un docente sono irrisori: dopo quindici o vent’anni di docenza a tempo indeterminato, infatti, lo stipendio medio raggiungerà a stento i 2000 euro netti mensili; e se si considera ancora una volta la spesa media mensile, in Italia, un docente non riesce a mettere soldi da parte neppure a fine carriera. Al tempo stesso bisogna parlare delle spese che dovranno affrontare in questi mesi, per i nuovi corsi abilitanti, tutti quei precari che ogni anno non sanno se lavoreranno, che quindi potrebbero ritrovarsi a non avere i soldi per pagarsi l’abilitazione e dovranno magari chiedere un prestito ai genitori. Gli stessi precari – me compresa – che anni fa hanno dovuto pagare 500 euro e oltre per 24 cfu, crediti formativi che costituivano requisito essenziale per accedere ai concorsi e iscriversi nelle graduatorie per le supplenze. 24 cfu che, già dal prossimo anno, non serviranno praticamente più a nulla. 

A proposito dei nuovi corsi abilitanti all’insegnamento – introdotti dal precedente governo, quando ministro dell’istruzione era Patrizio Bianchi, ma attivati solo recentemente – bisogna dire che ciascun docente precario dovrà acquistarli a una “modica somma” che va da un minimo di 1600 per arrivare anche a 2000 euro cadauno e oltre. Per chi vorrà avere l’opportunità di accedere ai concorsi sia della scuola secondaria di primo grado, sia di secondo, il prezzo sarà raddoppiato. Una somma del genere, va da sé, grava enormemente su una classe di lavoratori precari che fatica ad arrivare a fine mese, e che in alcuni periodi dell’anno si ritrova senza lavoro, o con contratti di 6/8 ore settimanali e uno stipendio dai 500 ai 700 euro mensili. E va aggiunta una cosa importante: per un docente precario, ritrovarsi con un contratto di 6 ore settimanali non è un’eccezione, ma spesso è la prassi, anche dopo anni di lavoro. Se vivi e lavori al Sud, anche dopo dieci anni di lavoro precario, un contratto da 500 euro mensili può sembrare una manna dal cielo, perché la prassi nel meridione è ancora più desolante e spesso si resta disoccupati continuativamente, per anni e anni.

Patrizio Bianchi

Insomma: chi non può permettersi questi corsi abilitanti in tempi brevi, non avrà più accesso ai concorsi pubblici in Italia e, anche nelle graduatorie per le supplenze, si ritroverà scavalcato da chi invece i corsi può permetterseli. Ho infatti alcuni colleghi, con figli a carico, terrorizzati all’idea di non poter far fronte a queste spese aggiuntive, che temono quindi di non poter più partecipare ai concorsi e restare, all’improvviso, senza neppure un contratto a tempo determinato. Altri che, pur senza figli, faticavano già prima a sobbarcarsi spese di affitto, utenze e spese varie vivendo in città del centro e nord Italia, e che ora dovranno chiedere un prestito a papà e mamma, perché non sanno da dove prendere queste migliaia di euro per i corsi abilitanti. 

Nella maggior parte dei casi, quindi, il piccolo aumento di stipendio concesso recentemente, servirà tutto a coprire le spese di abilitazione, gravando ulteriormente su quei precari che hanno già molti anni di esperienza sull’insegnamento. Si potrebbe dire che è normale, comune a molte categorie di lavoratori, affrontare spese per la propria formazione professionale. Quando però sai che, dopo anni e anni di studio alle spalle, e ulteriori anni di lavoro precario, devi affrontare nuove e ingenti spese per sperare, un giorno, di avere un stipendio a tempo indeterminato con cui, comunque, faticherai ad arrivare a fine mese, la prospettiva può essere parecchio scoraggiante. E leggere le dichiarazioni di un Ministro che promette di restituire dignità e rispetto alla categoria di docenti, a partire da subito, rende necessario precisare che le cose stanno diversamente. Anche perché, diciamocelo, quella di restituire dignità alla categoria di docenti, in Italia, è una manfrina trita e ritrita, che puntualmente non trova effettivo riscontro nella realtà. Soprattutto da un punto di vista economico.

Da docente precaria, emigrata anni fa dal sud Italia per poter lavorare, da due anni insegno a Pisa. Ho superato sia lo scritto che l’orale dell’ultimo concorso – per me il primo – ma in Toscana, la regione per la quale ho deciso di concorrere, sono disponibili soltanto una decina di posti per la mia classe di concorso. Sebbene io lavori a Pisa e concorra per la Toscana, a poche settimane dalla prova orale mi è stato comunicato che avrei dovuto affrontarla a Perugia, e non nella regione per cui concorrevo. Il giorno in cui ho svolto la prova, c’erano addirittura docenti che concorrevano per una cattedra in Molise, ma che erano stati spediti in Umbria per svolgere l’esame orale. E questa trafila di lunghi spostamenti, molti di noi saranno costretti a rifarla più volte anche durante il prossimo anno: infatti, piuttosto che bandire un unico concorso e rendere disponibile la totalità delle moltissime cattedre vacanti fin da subito, il Ministero ha preferito prevedere tre diversi  concorsi – non abilitanti, a differenza di molti altri banditi in passato – ogni tot di mesi. E noi precari, ogni tot di mesi, dovremo affrontare nuovi spostamenti e nuove spese nell’eventualità in cui non sia stato superato il precedente.

Per arrivare a Perugia ho dovuto far fronte a spese consistenti per gli spostamenti in treno, l’hotel e il taxi che ho dovuto prendere per raggiungere la scuola in cui ho svolto l’esame, perché lontana dal centro e irraggiungibile sia a piedi – se non a costo di rischiare la vita – che con i mezzi pubblici. Insomma, ancora un’ulteriore spesa che, nonostante abbia superato la prova con un ottimo risultato, potrebbe rivelarsi inutile: la graduatoria non è ancora stata pubblicata, ma considerando l’esiguo numero di posti e i numerosi precari storici, di gran lunga più “storici” di me, non sarà facile rientrare in quella decina di cattedre. 

Noi precari ci ritroviamo beffati da un sistema che ci illude di avere una vita lavorativa “normale”, con regolare contratto – quando fortunati – e impegni da lavoratore full time da settembre a giugno; al contempo, però, tornati a casa dobbiamo studiare ore e ore per concorsi per pochi posti disponibili, stipati di solito in camerette risicate, con coinquilini molto più giovani di noi che giustamente schiamazzano nell’altra stanza. Tutto ciò lo affrontiamo con la consapevolezza che a luglio saremo di nuovo disoccupati, e impossibilitati a pagare anche l’affitto di una stanza striminzita perché non riusciamo a mettere nulla da parte. Moltissimi docenti italiani devono passare ogni anno attraverso le forche caudine per ottenere, forse, un posto di lavoro che consentirà loro di vivere in una stanza in un appartamento condiviso, soprattutto al nord, dove ci sono le maggiori possibilità di lavoro per chi insegna a scuola, ma dove il costo della vita è più alto che al sud. Se queste sono le prospettive di vita e carriera dei docenti nel nostro Paese, sarebbe il caso che il ministro dell’Istruzione e del Merito non alludesse a strabilianti rivoluzioni della condizione degli insegnanti italiani, perché questo è un abbaglio intollerabile, oltre che agilmente sfatabile.

Basta guardare le condizioni dei docenti di altri Paesi europei, per capire quanto quelli italiani siano schiacciati da stipendi bassi e fatiche varie, come quelle dei precari che si ritrovano a dover insegnare tra due scuole diverse, talvolta addirittura in comuni diversi e distanti tra loro, e sono costretti a macinare chilometri ogni giorno, in macchina o con i mezzi pubblici, con lo stress e le ulteriori spese che gli spostamenti comportano. E questo, va detto, non è una novità di questo governo: i docenti, in Italia, sono da sempre trattati come l’ultima ruota del carro, costretti a un trattamento economico umiliante. Finché noi docenti saremmo costretti a vivere in dieci metri quadri e a condividere un appartamento anche quando vorremmo vivere da soli; finché vivremo col terrore di non arrivare alla fine del mese; finché saremo costretti ad anni e anni di precariato, con contratti di lavoro “spezzati” in scuole o comuni diversi, e al termine dei quali avremo comunque uno stipendio inferiore alla spesa media mensile, non si può sostenere di restituire stabilizzazione e rispetto alla nostra categoria. Tanto più che – a quanto pare – se da un lato c’è stato un piccolo aumento degli stipendi, dall’altro verrà ridotta gradualmente, dal 2024 al 2028, la somma destinata alla “Carta docente”, nonostante le concrete esigenze vorrebbero che questa aumentasse, ancora una volta in linea col carovita, per costi di formazione e aggiornamento sempre più alti. Per non parlare del fatto che, per i precari con contratto al 30 giugno o al 31 agosto, il ministero continua a non prevederla, e spesso siamo costretti a fare ricorso per recuperare una somma che dovrebbe spettarci di diritto.

Se si è deciso che nel nostro Paese – come succede da tempo immemore – ci sono altre priorità che non sono la scuola, l’istruzione e la formazione delle nuove generazioni, sarebbe intellettualmente più onesto ammetterlo, evitando narrazioni che sono completamente in contrasto con quanto accade, a noi insegnanti, nella realtà. Non servono proclami irrealistici: noi docenti – men che meno l’enorme quantità di precari storici – a oggi non possiamo condurre una vita decorosa, né lontanamente adeguata a quel prestigio che il ministro Valditara sostiene di volerci restituire. E, molto probabilmente, la nostra sorte è destinata a non cambiare da qui a molti anni, nonostante ciò che a intervalli regolari viene promesso, senza mai tradursi in realtà.

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