La scuola italiana è nozionistica e obsoleta, deve cambiare il suo sistema di selezione dei docenti - THE VISION
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L’ultimo concorso docenti ha scatenato un’aspra polemica tra i candidati, che hanno ampiamente manifestato il loro malcontento sui social. In particolare sono state poste sotto accusa le modalità della prima prova, una sorta di quiz a risposta multipla con domande ritenute dai candidati capziose e fuorvianti, oltre che esclusivamente nozionistiche, realizzate all’apparenza non tanto per valutare la preparazione dei futuri docenti ma per scremare in modo netto l’alto numero di candidati. Il risultato sembra però aver rivelato l’insita inefficacia del sistema: più del 90% dei candidati è risultato infatti non idoneo e non potrà accedere alla seconda prova concorsuale. Per essere bravi docenti, però, ovviamente non basta conoscere un’ampia base di nozioni, ma è anche necessario acquisire conoscenze didattico-pedagogiche, nonché sviluppare competenze relazionali che possano servire ad accendere la curiosità negli studenti e a curare la relazione con il gruppo classe, oggi sempre più spesso molto eterogeneo.

La realtà cambia sempre più velocemente, mentre la scuola resta ferma. Alcuni esempi di domande poste durante la prima prova del concorso rivelano l’obsolescenza e l’assurdità di un sistema che va modificato immediatamente. Uno dei candidati, Giuseppe Perdichizzi, racconta: “C’era un testo scritto da Eugenio Montale, la domanda chiedeva a quale opera appartenesse. Le opzioni erano: un articolo sul Corriere della Sera, due discorsi (uno per il Nobel e un altro relativo a un altro premio) e poi un’opera. La risposta esatta era il discorso per il Nobel che tuttavia non è un’opera”. Osservazione logica corretta, che rivela l’inesattezza di una domanda da cui però dipende il futuro dei docenti. A trarre in inganno anche una domanda sulla fondazione dello Stato d’Israele: tutte le risposte contenevano come data il 15 maggio, abbinata ad anni differenti, ma, come fa notare la docente candidata Emanuela Massaro, su tutti i libri di storia la data riportata è il 14 maggio – del 1948. Vero che può capitare che nei quiz, essendo documenti testuali, possanno scapparci dei refusi, ma ci si aspetterebbe che in un testo così importante alla revisione venisse data più importanza.

Il test, come alla fine dell’anno alle superiori, quando un voto può fare la differenza in pagella, ha mosso gli animi, anche perché chi non l’ha superato, rischia di sprofondare nel baratro di altri anni – non si sa quanti – di precariato in giro per le scuole italiane, e poi perché è assurdo valutare insegnanti di materie così diverse tra loro su una base tanto ampia e specialistica di nozioni, che quindi può vedere un insegnante di educazione fisica valutato rispetto alla sua capacità di associare i personaggi della Divina Commedia al canto corrispondente. Anche se è pur vero che la scuola italiana è tanto ricca e eccellente anche grazie al concetto di trasversalità delle nozioni su cui si basa, che a volte risulta un grande pro e a volte un ostacolo.

A mettere in discussione il sistema scolastico italiano e i suoi metodi didattici antiquati è stato recentemente Roberto Maragliano, pedagogista e docente universitario. A suo dire, la colpa della scuola è quella di non essere capace di trasformarsi, reinventarsi, adeguandosi alle trasformazioni della realtà e ai nuovi e sempre maggiori bisogni degli adolescenti. Il Ministero dell’Istruzione sembra essere ripiegato su se stesso, arroccato sulle proprie, labili, certezze, che però impediscono il rinnovamento di metodi didattici e qualsiasi tipo di innovazione, anche nella relazione tra docente e studenti in cui, sempre secondo Maragliano, sono sempre i secondi i protagonisti. “Bisogna guardare la realtà, che non è più il mondo di prima”, dice, “è un mondo diverso. Ci piaccia o non ci piaccia, è un mondo in cui non ci possono più essere gli schemi, le categorie, le discipline, le sicurezze, i principi, i dogmi di prima […]. L’insegnamento è qualcosa che deve essere messo al servizio dell’apprendimento”. C’è bisogno di docenti disposti a non ergersi sopra la cattedrale dell’insegnamento, ma che riescano a creare all’interno della classe un clima di “anarchia pedagogica”, che stimoli il desiderio di conoscenza e che aiuti gli studenti a sfruttare nel migliore dei modi le forme e gli strumenti di apprendimento che oggi sarebbero a disposizione.

Secondo Umberto Eco, “l’uomo colto non è colui che sa quando è nato Napoleone, ma colui che sa dove andare a cercare l’informazione nell’unico momento della sua vita in cui gli serve”. Questa affermazione basterebbe a ridefinire il ruolo dell’insegnante, che mai come oggi non dovrebbe essere soltanto in grado di immagazzinare il maggior numero di informazioni possibili, ma dovrebbe anche saper guidare gli studenti nel mare magnum di stimoli, notizie e informazioni che il web mette loro a disposizione, iniziandoli a un approccio critico alle fonti e spronandoli a un apprendimento consapevole, dialettico e non solo passivo o mnemonico. Questa posizione sembra essere condivisa anche dal Ministro della Pubblica Istruzione Patrizio Bianchi, che qualche mese fa dichiarava che “la scuola non è un luogo per accumulare conoscenze. Il mondo oggi è pieno di informazioni, la scuola serve per tenere insieme la complessità del mondo digitale che permette di conquistare un orizzonte più ampio”. Chiaro però, che se insegni, le conoscenze devono essere il punto di partenza, se no puoi essere anche un bravo divulgatore, ma se condividi informazioni errate il meccanismo dell’apprendimento si inceppa.

Patrizio Bianchi

I docenti si ritrovano tutti i giorni a contatto con adolescenti che non solo affrontano la delicata fase di strutturazione della personalità adulta, ma che appaiono fortemente provati da due anni di isolamento sociale e dalla rivoluzione repentina delle loro abitudini relazionali e della loro quotidianità, oltre che dalla solitudine, dall’ansia e dalla tristezza che spesso ne sono derivate. In alcune scuole la condizione socio-economica e familiare critica della maggior parte degli studenti mette il docente nelle condizioni di destreggiarsi, ogni giorno, tra i disagi di studenti abbandonati a loro stessi, privi di figure genitoriali solide, che conoscono il sentimento dell’abbandono molto presto e che vivono immersi in ambienti in cui la violenza e la prevaricazione sono gli unici linguaggi utilizzati.  Ragazze e ragazzi arrivano a scuola con un bagaglio di difficoltà emotive sulle spalle, che possono degenerare in dipendenze di vario genere, disturbi alimentari, disagi psichici – come attacchi di panico o vere e proprie crisi depressive. L’insegnante dovrebbe quindi essere in grado di creare un ambiente di benessere che sia favorevole all’apprendimento, capace di favorire la nascita di relazioni sane e la collaborazione tra compagni, ma le istituzioni non offrono ai dipendenti statali la formazione e i corsi di aggiornamento necessari per far fronte a tutto questo, che quindi ricade completamente sulle spalle del singolo.

Il filosofo e psicoanalista Umberto Galimberti da anni chiede che i docenti siano sottoposti a un colloquio psicoattitudinale tra le prove concorsuali, così da verificare la capacità del docente di comunicare, affascinare, di percepire cosa passa nella dimensione emotiva degli studenti e di intercettarne paure e desideri. Oltre a questo, è necessario che i futuri docenti non siano valutati esclusivamente su ciò che sanno, ma anche sulla loro capacità di trasmetterlo. Per questo ai quiz a risposta multipla andrebbero affiancate altre prove a risposta aperta e magari simulazioni di vere e proprie lezioni, in modo da poter arrivare a una valutazione complessiva delle capacità dei candidati, e far passare il messaggio che le nozioni, se non sono accompagnate dall’abilità di stimolare curiosità e pensiero critico, restano fini a se stesse, e quindi, in uno scenario più ampio, inutili.

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