Qualche giorno fa chiacchieravo con un’amica dottoranda in archeologia, che si diceva nauseata dalla competitività dell’ambiente accademico. Estenuata dalla rincorsa tra colleghi a chi pesta prima i piedi all’altro mi dice: “Alla fine del dottorato voglio insegnare a scuola. Dal mondo tossico dell’università devo fuggire, ne va della mia salute”. Riflettevamo sul fatto che in moltissimi ambienti di lavoro, oggi più di ieri, instaurare rapporti di collaborazione è praticamente impossibile: i posti, ambitissimi, che danno accesso a prestigiose carriere – come ad esempio alcune cariche accademiche, ma non solo – sono così pochi che aiutare gli altri significa, va da sé, sacrificare sé stessi. Ma è anche vera un’altra cosa: inserirsi in un contesto lavorativo meno competitivo – come quello dell’insegnamento scolastico – garantisce rapporti un po’ più distesi, ma l’individualismo penetra comunque in qualsiasi ambiente professionale, o di studio, per motivi che esulano dalla nostra innata tendenza all’agonismo.
Per ragioni rintracciabili nell’infanzia e nel modo in cui siamo stati cresciuti – magari da genitori che riponevano grosse aspettative nella nostra realizzazione – ciascuno di noi può avere un più o meno marcato bisogno di primeggiare in ciò che fa, per dimostrare il proprio “valore”. Ma è innegabile che il modo in cui sono strutturati attualmente la nostra società e il mondo del lavoro attivino l’agonismo e alimentino un modus vivendi individualista. Basti pensare a un qualunque concorso pubblico bandito in Italia, per le professioni più disparate: vengono valutati i requisiti per poi stilare una graduatoria sulla base dei titoli di ciascun candidato e dei punteggi conseguiti nelle varie prove. Chi arriva ai primi posti vince, gli altri perdono, in una prassi che nulla ha di diverso da una competizione sportiva, ma che ci illudiamo possa garantirci un criterio di selezione meritocratico. Questo criterio non si applica solamente ai concorsi pubblici: addirittura per accedere a un corso di studi universitario a numero chiuso bisogna passare dallo sbarramento dei test a crocette e dall’assegnazione di un punteggio che faccia scalare la graduatoria. Con il risultato che ragazze e ragazzi di diciotto anni devono competere per ottenere, sempre in modo “meritocratico”, il diritto allo studio.
Oggi è rarissimo, se non impossibile, trovare in un qualsiasi bando per un posto di lavoro statale una prova o un colloquio che testino il bagaglio di soft skills del candidato che – magari con le dovute proporzioni e differenze – sono però essenziali in qualunque professione, e che il più delle volte vengono ignorate e sacrificate sull’altare della prestazione a tutti i costi. Nessuno sembra ragionare sul fatto che qualunque lavoratore dovrebbe possedere non solo titoli di studio, competenze e requisiti tecnico-pratici, ma anche le caratteristiche umane e il temperamento atti non solo a svolgere la professione in modo più efficace – pensiamo a tutti i mestieri alla cui base sta la relazione con gli altri, come il medico, il docente, l’educatore, lo psicologo – ma anche a favorire un clima di sana cooperazione tra colleghi, e questo può valere per un qualsiasi impiegato o funzionario pubblico. Chi si mostra ipercompetitivo, talvolta persino scorretto, può riuscire a primeggiare magari nel breve termine, ma nel lungo alimenta un clima di malessere tra i colleghi che può rivelarsi controproducente per qualsiasi luogo di lavoro, sia esso un ufficio, una scuola o un’azienda.
Va detto anche che quando rintracciamo nell’individualismo una delle piaghe della nostra società, connotando negativamente questa parola in modo aprioristico, stiamo dando per assodato che chiunque pensi al proprio interesse lo faccia anche a costo di calpestare quello altrui; ma questo comportamento, lo dicevamo, è un prodotto sociale. È la società a dettarci le regole per ottenere il tanto agognato successo che, va da sé, ci garantirà l’ammirazione e la stima di chi ci circonda. Se non abitassimo una società che ci dimostra, quotidianamente, che per realizzarci appieno – o in alcuni casi anche solo per riuscire ad arrivare a fine mese – ciò che conta più di tutto è scalare graduatorie di merito, usare qualunque mezzo per fare carriera, mostrarci veloci e performanti a qualsiasi costo, forse molti di noi non sarebbero oggi delle macchine da prestazione ultra competitive.
Se non crescessimo con la costante che per avere un lavoro, una prospettiva di vita, delle basi su cui provare a costruire un futuro con una direzione precisa, non è sufficiente un titolo di studio, e poi un altro, e poi un altro ancora, sempre col massimo dei voti; ma che bisogna poi, a volte letteralmente, comprare una dopo l’altra delle certificazioni aggiuntive che concretamente magari non ti serviranno a nulla, solo a scalare le graduatorie ai concorsi; e poi ancora, una volta assunti, magari essere disposti a mettere in cattiva luce il collega davanti al capo, approfittare di un suo momento di debolezza per portare in luce le tue capacità. Forse, se il contesto in cui viviamo non ci spronasse a essere così, saremmo tutti meno individualisti, egoisti, “cattivi”.
Il meccanismo competitivo invade anche la scuola – la nuova dicitura “ministero dell’Istruzione e del Merito” lo conferma – e persino quella sfera privata che costituisce una risorsa per produrre denaro attraverso social o, se non proprio denaro, almeno l’aumento del numero dei followers. Weekend, vacanze, momenti di pausa e relax tra un impegno e l’altro, conversazioni e riflessioni quotidiane, per non parlare delle commemorazioni e ricorrenze varie: tutto diventa un pretesto per accumulare like, consensi, seguaci, per dimostrare di essere “i più” in qualunque cosa. Quando siamo così impegnati a farci largo per avere il nostro spazio, per allargarlo sempre di più perché solo così otterremo un posto nel mondo e la stima degli altri – e la retorica del “Yes we can” in questo non ci aiuta, perché ci persuade della nostra onnipotenza e ci fa volere sempre di più – non restano tempo ed energie per curarci degli altri. Se scegliere di praticare l’altruismo, la solidarietà, la collaborazione, rischia di farci scivolare in ultima posizione diventando degli “anonimi falliti”, magari a posto con la propria coscienza, ma comunque falliti per il resto del mondo, è chiaro che non risulti immediato farlo.
Quando mi capita di dire che disapprovo la modalità di selezione di molti concorsi pubblici – soprattutto quelli che danno l’accesso a professioni che necessitano di qualità umane oltre che tecnico-pratiche – che scremano i candidati con quesiti a risposta multipla, mi sento spesso rispondere che questo è lo strumento più oggettivo e che può ovviare a tentativi di corruzione o favoritismi. E questo è sicuramente vero, anche una prova di apnea però può essere un metodo di valutazione oggettivo, ma non per questo sarebbe sensato utilizzarla in un concorso per bibliotecari o per funzionari all’agenzia delle entrate. Dovremmo arrivare al traguardo di avere dei concorsi pubblici e delle selezioni articolati in prove che non siano soltanto quanto più oggettive possibile, ma che siano in grado testare la sensibilità, le attitudini e altre qualità della persona, oggi costantemente ignorate.
Certo, forse aumenterebbe il rischio di corruzione o di selezioni finalizzate a favorire alcuni candidati, il criterio di valutazione sarebbe meno oggettivo, ma per non incorrere in questo pericolo continuiamo a ignorare l’importanza dell’aspetto umano nel lavoro. Se facessimo dipendere il merito individuale anche dalla capacità di creare un ambiente di lavoro accogliente, coeso, onesto e collaborativo, senza fomentare la competitività, credo che di individualisti compulsivi ne incontreremmo molti di meno. Per farlo, bisognerebbe riconoscere una volta per tutte che i metodi di valutazione attuali, pur oggettivamente misurabili, sono deleteri. Oggi in Italia sembra che siamo troppi per vivere delle nostre passioni e, se vogliamo sperare di ottenere questo privilegio, dobbiamo adoperarci per toglierlo a qualcun altro. E per farlo dobbiamo avere voti più alti, punteggi più alti, titoli più prestigiosi; dimostrarci più capaci, più performanti, innescando il solito circolo vizioso che fa degli altri dei semplici termini di paragone o degli avversari, mai dei compagni con cui fare squadra. In questo quadro, non solo non abbiamo tempo per coltivare la nostre vere passioni o nuovi interessi, ma nemmeno per alimentare quello spirito altruistico e solidale che, mettiamocelo in testa, non è dato aprioristicamente, ma dobbiamo tutti impegnarci a sviluppare e coltivare.
Forse non c’è una soluzione a questo sistema. O forse sì, a patto che rinunciamo a qualcos’altro e cioè all’idea che esista sempre un criterio oggettivo e insindacabile che premia i meritevoli e scontenta gli altri, in tutti gli ambiti dell’esistenza, ma soprattutto in quello professionale. La frenesia meritocratica che ci pervade contribuisce a strutturare, mattone dopo mattone, quella società della prestazione e dell’individualismo che, a parole, siamo tanto bravi a disprezzare, che ci sprona a coltivare solo quella parte di noi che è quantitativamente misurabile e a trascurare il resto. Se per realizzarci, anche solo per avere una vita indipendente e dignitosa, dobbiamo dimostrare di essere più degli altri in termini numerici, la realtà concreta è che gareggeremo costantemente per poter sopravvivere, mettendo per forza di cose da parte buoni sentimenti e attenzioni per i bisogni degli altri. O magari per riuscire a vivere delle nostre passioni, che sì sono il motore della vita, ma che oggi hanno anche un costo salatissimo, tanto da potercele permettere solo giurando fede all’individualismo compulsivo e alla competizione sfrenata. Nostro malgrado.
Ovviare al problema non è facile, ma di sicuro limitarsi a promuovere soltanto a livello retorico valori come la solidarietà, l’altruismo e la collaborazione non serve a nulla. Certi sentimenti e qualità possono diventare imprescindibili solo in una società che li prenda concretamente in considerazione, per esempio inserendoli tra i requisiti essenziali, e verificabili, per intraprendere una determinata carriera lavorativa. Finché continuerà a far carriera chi non si fa scrupolo di pestare i piedi agli altri pur di “arrivare primo”, e finché le soft skills e le qualità umane verranno considerate un sovrappiù – e anche se non le possiedi, chi se ne importa, fai carriera comunque – tutti i bei discorsi sulla solidarietà e l’altruismo e le critiche sulla società dell’individualismo e della performace rimarranno, appunto, bei discorsi e lamentele ipocrite e sterili.