La minuscola cittadina di Venice, in Louisiana, è l’ultimo centro abitato sulle sponde del fiume Mississippi. Un luogo di terreni acquitrinosi pronti a scomparire nel Golfo del Messico con lenta ma matematica certezza: dal 1932 la costa della Louisiana ha perso oltre 3700 chilometri quadrati di territorio – come se nell’arco di 90 anni l’equivalente del Friuli-Venezia Giulia scomparisse nell’Adriatico.
Colpita con una frequenza sempre maggiore dagli uragani che si abbattono sugli Stati Uniti da una parte e minacciata dall’erosione delle coste e dall’innalzamento del livello del mare dall’altra, la comunità di Venice ha visto la sua popolazione disperdersi negli anni: nel 2010 i suoi abitanti erano a malapena 202. I più ostinati che hanno deciso di rimanere convivono con la consapevolezza che tutto ciò che li divide dal perdere ogni cosa – la casa, il lavoro, la comunità che li ha visti crescere per una vita intera – sono i capricci del clima.
Lo Stato del Louisiana ha riconosciuto che “le popolazioni hanno già cominciato a trasferirsi, distruggendo la coesione delle comunità e il tessuto sociale della regione. Questi impatti, uniti a delle proiezioni future sfavorevoli, sottopongono gli abitanti a una dura prova emotiva”. Per questo motivo, a partire dall’estate del 2018 Venice è una della manciata di cittadine appartenenti alla contea di Plaquemines a ricevere fondi federali speciali per rimediare ai danni alla salute mentale dovuti al cambiamento climatico.
Nell’arco degli ultimi anni diversi studi si sono concentrato sull’impatto del cambiamento climatico globale sulla psiche – individuale e collettiva. Uno dei più completi è stato pubblicato nel 2011 sulla rivista American Psychologist e divide il fenomeno in tre categorie: effetti diretti, indiretti e psicosociali.
La storia di Venice è un esempio calzante di effetto psicosociale. La perdita di tradizioni, pratiche culturali e identitarie causa infatti disturbi e “un senso di desolazione e perdita simile a quello di chi è costretto a migrare da casa propria” che l’American Psychological Association (Apa) definisce come solastalgia: l’esperienza vissuta di stare a guardare mentre l’ambiente che chiami casa cambia irrimediabilmente in peggio, dall’unione del latino solus (solitudine, abbandono) e nostalgia. “La perdita di un luogo non è un’esperienza banale”, spiega il rapporto di Apa, “Molte persone sviluppano un forte attaccamento al luogo in cui vivono, che fornisce loro un senso di stabilità, sicurezza e identità personale. Persone che sono fortemente legate alla propria comunità possono contare statisticamente su maggiore felicità, soddisfazione e ottimismo – mentre la distruzione dell’attaccamento a un luogo influenza negativamente la performance sul posto di lavoro, le relazioni interpersonali e la salute fisica”.
A questo si uniscono gli effetti diretti, collegati a eventi climatici estremi quali uragani, alluvioni, incendi e siccità prolungate, che hanno conseguenze istantanee sul benessere psicofisico delle persone. Per esempio, degli studi hanno dimostrato che i disastri naturali aumentano in modo esponenziale l’incidenza del disordine post-traumatico da stress e della depressione e sono collegati a un tasso più alto di abuso di sostanze quali alcool e droghe, nonché a più alti tassi di suicidio. Ondate di calore più lunghe e acute – come quelle a cui ci stanno abituando estati come quella del 2019 – sono associate a crescenti tassi di mortalità, omicidi, suicidi e aggressioni fisiche. Per esempio, in seguito all’uragano Katrina, il 49% della popolazione colpita ha sviluppato disturbi dello spettro ansioso.
Se consideriamo che milioni di persone – in larga parte appartenenti alla classe lavoratrice e ai ceti meno abbienti, o abitanti di Paesi dalle risorse economiche limitate – stanno già pagando il prezzo dei cambiamenti climatici, ci possiamo rendere conto che ci troviamo di fronte all’inizio di una grave crisi umanitaria. L’emergenza cresce di pari passo con il numero dei migranti climatici, che si trasformerà in un diffuso malessere sociale ed economico a livello globale. L’Apa non ha dubbi: in seguito a catastrofi naturali come quelle che sono destinate a moltiplicarsi a causa dell’emergenza climatica, i danni a infrastrutture come i servizi medici e l’aggravarsi del malessere sociale porteranno a una crescita esponenziale di disturbi, depressione, tensioni interpersonali, aggressività, sensazioni di paura e impotenza.
Soprattutto sulle sempre più diffuse paura e senso di frustrazione gli psicologi parlano di come la sola consapevolezza del cambiamento climatico – e del degrado ambientale e della sofferenza umana che ne derivano – basti a causare forti risposte emotive. Sono questi gli “effetti indiretti”.
Rientra in questa categoria l’eco-ansia, un disturbo psicofisico che la stessa Apa nel 2017 ha definito come una “paura cronica della rovina ambientale” che “sta erodendo la salute mentale su larga scala”. La stessa Greta Thunberg ha più volte raccontato come assistere all’inazione degli adulti rispetto al problema abbia contribuito a gettarla in uno stato di seria depressione, durante la quale aveva smesso di bere e mangiare.
Secondo i risultati di un sondaggio condotto dal Pew Research Center nella primavera del 2018, il 71% degli italiani ritiene che i cambiamenti climatici mettano a serio rischio il nostro Paese – il 16% pensa che il rischio sia limitato, mentre solo l’8% parla di allarme ingiustificato. L’istituto di ricerca friulano Swg delinea il quadro di questa realtà con un dato ulteriore: oltre la metà degli intervistati mette l’emergenza climatica in cima alla lista di ciò che più li preoccupa, percentuale che sale al 64% nella generazione Z.
Mentre si moltiplicano le immagini di foreste e interi Paesi in fiamme, animali ridotti a scheletri che vagano per paesaggi devastati, ghiacciai ridotti ai minimi termini e città sott’acqua, l’immobilismo del sistema – politico, ma soprattutto economico, energetico e industriale – di fronte alla realtà basta per gettare chiunque nell’ansia. A questo senso di impotenza può accompagnarsi anche il senso di colpa. Le categorie più colpite da questo genere di ripercussione psicologica sono i più giovani, le donne incinte e le neomamme, le persone che già soffrono di malattie mentali pregresse, i soggetti economicamente svantaggiati e i senzatetto.
Un ulteriore spunto di riflessione l’ha aggiunto la psichiatra statunitense Lise van Susteren quando, analizzando la propria risposta psicofisica all’esposizione quotidiana a informazioni stressanti sullo stato del Pianeta, ha coniato il termine disordine pre-traumatico da stress (pre-Tsd). “Puoi leggere il giornale e cercare di non pensare all’estinzione degli insetti, alle calotte glaciali che si sciolgono, agli incendi, ai rifugiati climatici, alle tempeste”, ha detto, “ma si registra tutto nella tua psiche. Che ti piaccia o no, è così”.
Messi insieme, tutti questi tasselli – la depressione degli abitanti del delta del Mississippi e quella di una sedicenne svedese, l’eco-ansia e la solastalgia, il pre-Tsd e quell’angoscia che assale guardando, per l’ennesima volta, la foto dell’orso polare scheletrico che cerca disperatamente qualcosa da mangiare tra i ghiacci – formano un’immagine piuttosto chiara. Ci troviamo di fronte a un problema molto sfaccettato e complesso e l’approccio che come società abbiamo usato fino a ora per fronteggiare la questione della salute mentale è lontano dalla visione di insieme che ci serve per arginare questa criticità.
Come ha scritto di recente il professore universitario in Social Policy and Health della University of Southern California Lawrence A. Palinkas, “Comprendere la portata dell’impatto sulla salute mentale associato ai cambiamenti climatici in generale e alla migrazione climatica in particolare è un primo passo importante per lo sviluppo e l’implementazione di servizi progettati per trattarli o prevenirli”. Queste misure che devono includere l’educazione alla salute pubblica, la prevenzione della possibile violenza, una giusta comunicazione del rischio, la formazione di non professionisti per fornire il primo pronto soccorso psicologico.
Al momento, non esiste una strategia sistematica a livello scientifico per aiutare chi già soffre. C’è chi si rifugia nella religione e chi in gruppi di supporto simili nella forma alle riunioni degli Alcolisti Anonimi. C’è chi, come Thunberg, si dedica all’attivismo e cerca di cambiare le proprie abitudini. Tra i professionisti del settore alcuni cercano di trovare nuovi approcci, come quelli della Climate Psychology Alliance e della Climate Psychiatry Alliance, che lavorano per far sì che la formazione sul clima sia inserita nei curriculum delle facoltà di medicina, psichiatria e psicologia e per sviluppare una formazione di eco-consapevolezza per i terapisti.
Una maggiore conoscenza degli effetti che l’emergenza climatica ha sulla salute mentale non deve però scontrarsi soltanto con l’ignoranza (o, in qualche caso, l’attivo negazionismo) nei confronti dell’emergenza ambientale, ma anche misurarsi con lo stigma che accompagna ancora chi soffre di malattie mentali. Se ad esempio in Italia, nel 2014, l’Associazione europea di Psichiatria stimava 17 milioni di persone con problemi mentali, soltanto tra l’8 e il 16% degli interessati ha deciso di affidarsi a cure professioniste e solo tra il 2 e il 9% ha goduto di trattamenti adeguati. A questo si accompagna quella che il teorico radicale inglese Mark Fischer chiamava “la depoliticizzazione della malattia mentale”, ovvero la convinzione che queste patologie siano sempre causa esclusiva di soltanto di meccanismi chimici interni al cervello dell’individuo e che sia dunque l’individuo l’unico responsabile della propria salute psicologica.
Se però anche uno Stato storicamente repubblicano come la Louisiana riconosce la relazione innegabile tra l’emergenza climatica causata dall’attività umana e il peggioramento della salute mentale dei cittadini, vacilla l’idea che debbano essere gli individui a farsi carico da soli delle conseguenze. I governi dovranno rendersene conto e offrire un’alternativa se vogliono prevenire un’ondata di violenza, disgregazione sociale e malessere generalizzato di cui quello che stiamo vedendo in tutto il mondo è solo una piccola anticipazione.