Il caso Sarah Everard, la 33enne rapita, violentata e uccisa lo scorso 3 marzo mentre stava tornando a casa alle nove di sera nel quartiere londinese di Clapham, ha scatenato un’ondata di proteste e indignazione. Dopo che il corpo della vittima è stato trovato in un bosco nel Kent e l’agente di Scotland Yard Wayne Couzens è stato accusato del femminicidio, la vicenda ha rapidamente superato i confini nazionali, è stata ripresa dai giornali stranieri e ha aperto un acceso dibattito sul web. Si discute della sicurezza negli spazi pubblici, della paura femminile e delle “precauzioni” che le donne in ogni parte del mondo sono abituate a prendere in automatico quando si trovano in contesti che l’esperienza e la narrazione comune caratterizza come “pericolosi” per loro: strade buie e strette, parchi, zone disabitate, stazioni e simili. Non sono argomenti nuovi, dopo decenni di critica femminista che analizza il rapporto tra donne, paura, violenza e spazi pubblici, eppure casi come quello di Everard continuano a proporre schemi e problematiche ricorrenti.
Se il fatto che la città possa effettivamente costituire una minaccia per le donne è supportata dai dati – in un recente sondaggio di UN Women UK l’80% delle donne britanniche intervistate ha dichiarato di aver subito molestie sessuali in luogo pubblico –, le reazioni delle istituzioni e della polizia sembrano in molti casi attribuire la responsabilità dell’accaduto alle vittime. Questo approccio colpevolizzante (Perché era fuori da sola? Perché non ha preso un taxi? Perché non si è fatta accompagnare?) ricalca una dialettica pubblico-privato che presuppone che le donne siano più sicure in casa mentre, come sappiamo, la violenza di genere avviene soprattutto in contesti domestici – secondo l’Oms, al mondo 1 donna su 4 subisce abusi da parte del partner prima di raggiungere i 25 anni. Da qui nasce la necessità, sostenuta dai movimenti femministi, di riappropriarsi degli spazi pubblici tramite la presenza fisica dei corpi marginalizzati e il ripensare il concetto stesso di “sicurezza”.
La vicenda Everard racchiude tutti questi elementi. Dopo il rapimento, la polizia ha consigliato alle donne del quartiere di “non uscire da sole”, con un implicito victim blaming che ha alimentato la rabbia di molte associazioni; il 13 marzo il movimento collettivo Sisters Uncut ha organizzato, insieme ad altri gruppi femministi, una veglia commemorativa – non autorizzata a causa delle restrizioni sanitarie –, diffusa con l’hashtag #ReclaimTheseStreets (“rivendichiamo queste strade”), che si è conclusa con una violenta reazione della polizia. Escalation di questo tipo si sono susseguite negli anni in diverse parti del mondo. Per fare qualche esempio, nel 2011 a Toronto, dopo che un agente di polizia aveva suggerito a delle studentesse universitarie “di non vestirsi come prostitute” per evitare aggressioni sessuali, sono nate le cosiddette “Slutwalk” contro la colpevolizzazione delle vittime; in India, nel 2015, 60 studentesse di Nuova Delhi hanno lanciato la campagna “Pinjra Tod“ (“rompiamo la gabbia”) contro il coprifuoco imposto alle ragazze nei campus universitari per “proteggerle”; in Italia nel 2014 si sono diffuse le cosiddette “Passeggiate indecorose” per mettere in dubbio il binomio sicurezza-decoro promosso da diverse amministrazioni pubbliche.
Non si tratta solo di un fenomeno recente: come racconta Finn Mackay in Radical feminism: feminist activism in movement, proteste del genere, conosciute principalmente come “Reclaim The Night” e “Take Back the Night”, si sono diffuse a partire dagli anni Settanta. Negli Stati Uniti le prime si sono svolte nel 1972, quando le studentesse della University of Southern Florida marciarono per il campus per chiedere maggior sicurezza, e nel 1975 a Philadelphia in seguito dell’omicidio della microbiologa Susan Alexander Speeth. La prima marcia ufficiale per “riprendersi la città”, però, sembra si sia svolta nel 1976 a Bruxelles. In occasione della prima seduta del Tribunale internazionale sui crimini contro le donne, evento in cui si riunirono più di 2mila donne provenienti da 40 Paesi per denunciare i reati violenti e discriminatori commessi contro le donne e le bambine in ogni cultura. Dopo tre giorni passati a condividere testimonianze della portata, dell’impatto, della natura e della forma della violenza patriarcale sulle donne, l’ultima sera le delegate scesero in strada in una processione a lume di candela per esprimere la rabbia e il dolore condiviso.
Da quel momento marce simili si sono diffuse in molte città: a Roma sempre nel 1976 si tenne una manifestazione notturna – la prima a prendere il nome di “Reclaim the Night” – a seguito dei moltissimi stupri avvenuti in città, e in Germania nel 1977 si organizzò la fiaccolata “Take Back the Night” in segno di protesta contro lo stupro e l’omicidio di una donna di 26 anni di nome Susan Schmidtke. Il nome della marcia tedesca, però, sembra derivare dal titolo del memoriale letto nello stesso anno da Anne Pride durante una manifestazione simile a Pittsburgh. A seguire fu poi il Regno Unito: la città di Leeds organizzò nel novembre 1977 una grande manifestazione “Reclaim The Night” in risposta agli omicidi compiuti in quel periodo dal serial killer Peter Sutcliffe, conosciuto come “lo Squartatore dello Yorkshire”.
Le marce per rivendicare le città hanno gradualmente assunto carattere globale e continuano tuttora con lo scopo di portare le donne nello spazio pubblico come gesto sovversivo. Alla base di queste proteste c’è l’idea che i corpi femminili siano percepiti come “estranei” allo spazio pubblico. Ciò è alimentato dai fatti di cronaca, dalle molestie, dal catcalling e dalla sessualizzazione che le donne sperimentano ogni giorno, ma anche da quelle stesse forme di difesa che le donne si tramandano. Gli stratagemmi per sentirsi più sicure, le telefonate, le app che mappano le strade più “sicure” (come l’indiana SafetiPin o l’italiana Wher), pur essendo utili nel breve periodo, rafforzano l’immagine di spazi off limits per i corpi femminili e l’idea che le donne debbano auto-disciplinarsi regolando il proprio comportamento. La paura femminile, infatti, non è solo una naturale conseguenza della violenza di genere in luoghi pubblici, ma assume carattere normativo. “La funzione sociale della paura delle donne è il controllo delle donne”, scrive la professoressa di geografia a attivista femminista Leslie Kern nel libro Feminist City. “La paura limita la vita delle donne […] e ci mantiene, in quello che forse è il vero paradosso, dipendenti dagli uomini come protettori. Tutto questo funziona per sostenere un sistema capitalista eteropatriarcale in cui le donne sono legate allo spazio privato della casa e responsabili del lavoro domestico all’interno dell’istituzione della famiglia nucleare”.
L’urbanistica femminista parte dall’assunto che le città siano state da sempre progettate e costruite principalmente da uomini e secondo i loro parametri e esperienze, proprio perché lo spazio pubblico era tradizionalmente area di competenza “maschile”. La città, quindi, non è un luogo neutro, ma attivo nel mantenere e riprodurre ruoli e stereotipi di genere (pensiamo ai trasporti progettati senza pensare alle mamme, alla separazione tra zone residenziali e lavorative o alla mancanza di bagni pubblici, specie se “gender free”). Da qui la necessità di ripensare gli spazi pubblici dando valore alle esperienze e necessità delle donne per renderli più sicuri e vivibili.
Eppure, se da un lato ricorrere a interventi urbanistici e architettonici (migliore illuminazione, marciapiedi più larghi, sistemi di allarme) è un punto di partenza essenziale, la riflessione femminista contemporanea sul concetto di sicurezza è molto più ampia e radicale. Come si legge in Feminist City, infatti, il femminismo intersezionale parte dall’idea che la sicurezza passi attraverso politiche in grado di costruire spazi comunitari di cura, convivenza e opportunità, trae ispirazione dalle pratiche di mutuo aiuto create negli anni dalle donne, dai Disability Studies, dai movimenti queer e Black e arriva in certi casi a sostenere un approccio abolizionista nei confronti delle forze dell’ordine. Come spiega Kern, le misure tradizionalmente adottate dalle amministrazioni pubbliche per rendere le città più sicure per le donne tendono a basarsi su parametri di decoro e ordine pubblico con l’impiego di forze di polizia e l’allontanamento di gruppi di persone contrassegnati come simbolo di disordine, oscenità, pericolo e criminalità. In nome della sicurezza di gruppi vulnerabili, come donne e bambini, altri corpi – di persone nere, transgender, sex worker – vengono bollati come “estranei” e “indecorosi” e esposti a atti di forza e violenza.
Questo poteva non essere tenuto in considerazione negli anni Settanta (le marce “Take Back The Night” all’epoca erano in prevalenza bianche, poco inclusive verso la comunità trans e intolleranti verso il lavoro sessuale), ma oggi molti gruppi femministi adottano un approccio intersezionale al ripensamento della sicurezza urbana. In questi giorni, per esempio, il collettivo Sister Uncut sta premendo perché il governo britannico elimini la proposta del “Police Crime, Sentencing and Courts Bill” che, se approvato, aumenterebbe il potere della polizia e limiterebbe il diritto a manifestare. Il gruppo richiede misure trasformative che escano dalla logica securitaria e giustizialista: finanziamenti a sostegno delle survivor alle molestie o violenze sessuali, un reddito di sussistenza, migliore accesso alla contraccezione, alla sanità e all’assistenza sociale. Si chiedono anche maggiori fondi per progetti di educazione su “genere, sesso e relazioni e dinamiche di potere” oltre a una riforma della giustizia penale che tenga conto delle voci delle donne e dei gruppi marginalizzati. Solo partendo da un ripensamento simbolico, strutturale, transfemminista e intersezionale dello spazio pubblico, infatti, sarà possibile rivendicare davvero le città come luoghi di libertà e incontro davvero per tutte le persone, liberandole dall’essere la rappresentazione plastica di una disuguaglianza secolare di genere e sociale.