La Cina sta annullando la democrazia a Hong Kong. E il mondo sta a guardare.

Giovedì 29 agosto una colonna di camionette blindate ha attraversato le strade di Hong Kong per portare nella metropoli più di 8mila soldati cinesi, mentre una nave da guerra ha ormeggiato nel suo porto. “La rotazione [di truppe] è una normale azione di routine annuale approvata dalla Commissione Militare Centrale”, ha dichiarato il tenente colonnello Han You, portavoce del presidio hongkonghese dell’Esercito Popolare di Liberazione. È vero che ad agosto le truppe sull’isola vengono regolarmente rinnovate, ma, a differenza degli anni passati, il loro numero è stato aumentato.

La manovra sembra voler essere un avvertimento diretto ai cittadini di Hong Kong, pronti a contestare il governo per la 13esima settimana consecutiva. La grande manifestazione di sabato 31 è stata vietata dall’amministrazione con la scusa della sicurezza pubblica. “L’escalation di illegalità e di atti violenti dei dimostranti radicali non solo è oltraggiosa, ma sta anche spingendo Hong Kong sul ciglio di una situazione veramente pericolosa”, ha dichiarato il governo dell’isola, dopo aver arrestato 86 persone di età compresa tra i 12 e i 52 anni.

Ex protettorato britannico, Hong Kong ha sviluppato nei secoli una duplice natura, a cavallo tra valori occidentali e tradizioni cinesi. Divenuta nel 1997 una regione amministrativa speciale della Repubblica Popolare Cinese, l’isola segue la formula politica “un Paese, due sistemi” che le ha permesso di mantenere un sistema economico e un ordinamento istituzionale autonomi. Si tratta di un compromesso che ha agevolato tanto gli interessi economici del Paese quanto quelli delle aziende straniere, ma con il passare del tempo la Cina sembra sempre più intenzionata a riassorbire e omologare una popolazione abituata a una forte libertà di espressione. L’esistenza stessa di Hong Kong è elemento di disturbo, perché mina le fondamenta ideologiche e amministrative della Repubblica Popolare Cinese.

L’attuale crisi ha preso il via nel marzo di quest’anno, in risposta a una proposta di legge che avrebbe consentito alle autorità di arrestare ed estradare persone ricercate in Cina, scavalcando il sistema giudiziario locale e minando l’autonomia della città. Lo scontento si è tradotto in una manifestazione che ha coinvolto due milioni di persone, in grado di portare a una sospensione della discussione del testo, senza però cancellarlo. La soluzione temporanea ha spinto i manifestanti a proseguire le proteste per ottenere cinque obiettivi: il ritiro della proposta di legge, libere elezioni a Hong Kong, la creazione di un corpo indipendente per monitorare le attività delle forze dell’ordine, l’amnistia per gli arrestati e che i contestatori non siano più etichettati come “rivoltosi”. Nel tentativo di disinnescare la situazione, Carrie Lam – capo esecutivo di Hong Kong – si è detta pronta al dialogo, assicurando che il progetto di legge è definitivamente “morto”, anche se non è ancora stato formalmente ritirato.

Carrie Lam

Nel frattempo, la situazione nelle strade è sempre più tesa. “Tutte le conseguenze sono a vostro rischio e pericolo”, è lo slogan che accompagna il video caricato il 31 luglio dall’Esercito Popolare di Liberazione di stanza a Hong Kong. Ad agosto è stata invece la Polizia armata del popolo (Pap) a dispiegare un grande numero di agenti per un’esercitazione di tattiche anti-sommossa. Lo ha fatto nello stadio di Shenzhen, a un passo da Hong Kong, facendo indossare ai sedicenti manifestanti magliette nere molto simili a quelle usate dai dissidenti.

La richiesta dei manifestanti di aprire un’inchiesta sulle violenze della polizia è più che giustificata. La Pap si è sviluppato negli ultimi anni fino a diventare un corpo paramilitare, utilizzato anche in territori contesi come il Tibet e lo Xinjiang. Anche tra l’amministrazione e la polizia di Hong Kong sono sempre più numerosi i fedelissimi al governo centrale di Pechino. Una tale influenza ha permesso che nel settembre del 2018 l’Hong Kong National Party, partito politico indipendentista, venisse messo al bando per tutelare gli “interessi della sicurezza nazionale”.

La repressione cinese non si limita a sciogliere partiti, ma è molto più capillare. È comune che oppositori come il giornalista Jia Jia o lo scrittore Gui Minhai siano sequestrati a Hong Kong per poi scomparire nelle black jail cinesi. Ogni anno scompaiono quasi 5mila persone da Hong Kong, ma la polizia non ha un registro ufficiale, non rilascia report e ostacola sistematicamente le indagini delle Ong. La sparizione di un individuo viene trattata con rassegnazione, spesso dando per scontato sia dovuta a debiti con la malavita o a dissapori con il governo. Sono gli agenti stessi a fare pressioni su Carrie Lam perché nessuna commissione indipendente vagli a fondo il loro operato, già macchiato da numerosi soprusi accertati.

Dalla repressione del 4 giugno 1989 in piazza Tienanmen, la Repubblica Popolare Cinese continua a usare il pugno di ferro nel gestire il dissenso. Il partito è stato epurato dagli elementi riformisti, mentre le scuole educano le future generazioni con una propaganda nazionalista che contrappone i valori cinesi alla corruzione dei poteri stranieri. Il risultato è che a 30 anni da Tienanmen i giovani cinesi del continente sono sempre meno interessati alle narrazione Occidentale e a valori come democrazia e tutela dei diritti umani.

Grazie alla sua condizione particolare, Hong Kong è riuscita a sottrarsi a questo imprinting, conservando il suo retaggio britannico e aperto verso la comunità internazionale. Mentre Facebook, Twitter, Instagram, Snapchat, YouTube e i principali siti di informazione internazionale sono inaccessibili dalla Cina, dove Google è sopravvissuto creando la sussidiaria Google China e Apple ha dovuto lasciare la gestione dell’iCloud nelle mani del governo, il great firewall” non copre Hong Kong (e Macao). Per questo gli abitanti dell’isola riescono ad accedere a informazioni non istituzionali e libere dalla censura governativa.

Un primo intervento di disturbo nei confronti dei sistemi di comunicazione è avvenuto a giugno, quando hacker con indirizzi Ip cinesi hanno sovraccaricato i server di Telegram, mandando in tilt la piattaforma di messaggistica più utilizzata dai manifestanti. L’attacco informatico ha avuto gravi ripercussioni, ma non ha fermato i contestatori, tanto che Carrie Lam sta valutando l’ipotesi di dichiarare lo stato di emergenza per bloccare completamente l’accesso alla Rete.

Già nel 2003, l’allora capo esecutivo Tung Chee-hwa aveva cercato di introdurre a Hong Kong leggi “anti-sovversive”, che avrebbero consentito alla polizia di perquisire e arrestare i sospetti sobillatori. In quell’occasione 500mila hongkonghesi scesero in strada, alcuni proteggendosi dal sole con un ombrello, molti indossando magliette nere per esibire il lutto per la morte della libertà. La proposta cadde nel nulla. Nel 2014, Beijing ha proposto una riforma che avrebbe concesso ai cittadini di Hong Kong di votare il proprio rappresentante, ma solo da una lista di nomi approvati dal governo centrale. La città si è nuovamente animata e i suoi abitanti hanno vestito per la seconda volta gli indumenti scuri e impugnato gli ombrelli, ma in questo caso per proteggersi dai lacrimogeni. La “rivoluzione degli ombrelli” si è risolta in uno stallo: i manifestanti non hanno ottenuto il tanto desiderato suffragio universale, ma la proposta di legge è stata ritirata.

Nel 2019 gli ombrelli sono riapparsi nella metropoli, insieme ai puntatori laser fondamentali per contrastare una repressione che non è più solo fisica, ma anche informatica, a causa dei sistemi di riconoscimento facciale sempre più diffusi sull’isola e in tutta la Cina. Essere identificati è sempre più pericoloso per gli oppositori: il 21 luglio una folla di 100 persone ha attaccato dimostranti e giornalisti alla fermata ferroviaria di Yuen Long, sobborgo di Hong Kong; questa settimana due dei leader dei manifestanti, Jimmy Sham e Max Chung, sono stati attaccati da uomini armati, mentre altri tre, Joshua Wong, Andy Chan e Agnes Chow, sono stati arrestati.

I Paesi del G7 stanno seguendo con attenzione le proteste di Hong Kong, mentre Pechino è consapevole del rischio di provocare sdegno su scala globale e di compromettere una lunga serie di accordi commerciali in tutto il mondo. Il presidente Xi Jinping vuole comunque risolvere la situazione entro il primo ottobre, 70esimo anniversario dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese. La Cina punta a normalizzare un atteggiamento giudicato sovversivo, agendo in anticipo su un diritto che potrà legittimamente esercitare nel 2047, data di scadenza del patto che garantisce l’attuale autonomia dell’isola.

Il potenziale assorbimento della cittá portuale inquieta la politica occidentale, soprattutto sul lato economico: il 60% degli investimenti internazionali effettuati da e verso la Cina passa proprio dall’isola. Un traffico annuo di 13.6 miliardi di dollari che gli industriali, cinesi e non, preferirebbero mantenere attivo e libero da interferenze. La visibilitá garantita ai manifestanti da social e media dimostra come anche una parte dell’opinione pubblica occidentale sia sempre più attenta a temi come la libertà di espressione e di informazione, seriamente minacciate anche nelle democrazie occidentali. Tra le dichiarazioni dei partiti securitari e nazionalisti – Trump, intervistato da PlayBoy, aveva elogiato la repressione di piazza Tienanmen pochi mesi dopo i fatti – e censure di internet sempre più frequenti, i cittadini di Europa e Stati Uniti temono che le proteste di Hong Kong e i suoi futuri sviluppi siano un’anteprima di quello che aspetta il resto del mondo nei prossimi anni.

Non serve chiedersi se il governo cinese assorbirà Hong Kong, ma quando e in che modo. La polizia, per il momento, sta attuando una strategia più gestibile a livello mediatico, colpendo le figure chiave dei movimenti per intimidire le folle, ma i cittadini di Hong Kong non sono in condizione di rinunciare alla lotta. La Cina ha il timore di mostrarsi debole e di avviare un processo che potrebbe estendersi ad altre regioni come il Tibet o lo Xinjiang: al primo segno di incertezza dei dimostranti le ripercussioni rischiano di avere conseguenze fatali.

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