Dieci giorni dopo l’affissione di 25 manifesti femministi per le strade di Bologna da parte di Cheap Festival, progetto di public art fondato nel 2013 da sei artiste, qualcuno sembra essersi finalmente accorto della portata dirompente di quelle immagini, che lanciano inequivocabili messaggi femministi, queer, antirazzisti a cui, a quanto pare, il nostro benpensante Paese non è ancora pronto. La senatrice leghista ed ex candidata alle regionali dell’Emilia-Romagna Lucia Borgonzoni – che è pure laureata in arti figurative – ha infatti deciso di scagliarsi contro il progetto in una nota al Resto del Carlino, chiedendosi: “Nella centralissima via Indipendenza non c’è niente di meglio da esporre che i genitali di una donna sul corpo di un uomo con sei capezzoli?”.
Tralasciando il trascurabile dettaglio che “l’uomo con sei capezzoli” con la scritta “Così è (se mi pare)” è in realtà l’attrice e performer teatrale Silvia Calderoni (c’è anche scritto), Borgonzoni ha fatto un assurdo paragone tra la campagna artistica e la ripresa dalla pandemia, affermando: “Su quegli spazi mettiamoci cartelloni pubblicitari a costo zero per i commercianti, i ristoratori, i baristi di Bologna che pagano il prezzo della crisi post Covid o manifesti che indichino i siti e numeri utili da chiamare per accedere a degli aiuti”, per poi invocare l’intervento del garante per i diritti dell’infanzia.
A dare manforte alle pruderie di Bergonzoni ci si è messo anche Il Giornale che, con la firma di Costanza Tosi, critica “l’ennesima provocazione delle femministe bolognesi” che “questa volta esplicita[no] il [loro] primo obiettivo: la lotta a prescindere”. Tra l’altro Il Giornale si è convinto che l’immagine che ritrae Calderoni sia “un corpo transgender“ e cioè un “uomo con le mammelle” per poi appellarsi al “cattivo gusto” e riprendere le parole del consigliere comunale di Casalecchio di Reno, Umberto La Morgia, che definisce questo corpo “trash e osceno”, perpetrando l’idea che la condizione trans sia qualcosa di sporco, deviato ed esteticamente deprecabile. Mario Adinolfi invece parlato di “oltraggiose scempiaggini contro la libertà della verità”.
L’idea che spazi artistici ottenuti con il benestare del Comune possano essere sottratti o cancellati per darli a imprese private (per quanto piccole siano) in nome della crisi riflette un modo di pensare che è disposto a sacrificare tutto ciò che non è profittevole, arte inclusa. Un legame con la pandemia però “La lotta è FICA” ce l’ha, ed è proprio una reazione all’invisibilità delle donne durante il lockdown, per cui il progetto ha voluto sottolineare che anche “il femminismo è un’attività essenziale”.
Gli spazi pubblici usati da Cheap non sono stati tolti a nessuno, men che meno a “commercianti, ristoratori, baristi”, che possono usufruire dei regolari spazi pubblicitari per promuovere le loro attività. Sembra proprio che Borgonzoni si stia rifacendo alla retorica populista tipica della Lega secondo cui il governo – solo quando è a sinistra – lascia soli i piccoli imprenditori perché pensa solo al “finto progressismo”, che assieme al “finto buonismo” si aggiunge alla lunga lista degli -ismi invisi alla destra.
È davvero assurdo pensare che un intervento di arte pubblica – che non ha, tra le altre cose, ricevuto alcun patrocinio da parte dell’amministrazione – sia dannoso per la condizione dei commercianti bolognesi, che hanno invece beneficiato di numerose iniziative per fronteggiare l’emergenza sanitaria. La stessa Cheap, in questi giorni, ha lanciato una seconda iniziativa, “#VocidalverboLEGGERE”, realizzata con il comune di Bologna per l’iniziativa “Patto per la lettura”, ma non una voce di dissenso si è levata. Forse allora il problema sta nel messaggio di “La lotta è FICA” o, a un livello ancora più superficiale, nella forma: i corpi non conformi (anzi, “deformi”, per usare il lessico de Il Giornale) che la campagna celebra sono percepiti come una minaccia all’ordine naturale che tanto è caro ai conservatori. Tra le 25 diverse opere, infatti, a indignare è il collage che raffigura il corpo nudo di Silvia Calderoni e l’illustrazione di Nicoz Balboa che mostra due sirene trans che si baciano. Personalmente trovo buffo che nessuno si sia scagliato contro l’illustrazione di Yole Signorelli, in arte Fumettibrutti, che parla proprio di rappresentazione e feticizzazione del corpo trans. A quanto pare, è necessario “un uomo con le mammelle” per attivare il “trans radar” di questa gente.
Questo episodio non è solo l’ennesima dimostrazione del conservatorismo della Lega, a un livello più profondo dovrebbe farci riflettere su cosa è lo spazio pubblico e sul ruolo che il corpo marginalizzato ha al suo interno. L’arte, specialmente quella pubblica, è accettabile solo se è di “buon gusto”? Solo se risponde a un’estetica gradevolmente borghese e rassicurante, dove tutto sta al suo posto e le femmine di capezzoli ne hanno solo due? E soprattutto, il corpo nudo è accettabile solo se è quello che è stato canonizzato dall’arte occidentale, cioè quello bello da guardare? Le Guerrilla Girls, collettivo di artiste femministe attivo sin dagli anni Ottanta, si sono interrogate a lungo su questa ipocrisia della rappresentazione del corpo femminile con la loro serie “Do women have to be naked to get into a museum?” (Le donne devono essere nude per entrare in un museo?), che mette a confronto la percentuale di nudi femminili nei più importanti musei americani con la presenza di opere realizzate da donne. Se il corpo nudo è “normale” ed è rappresentato da uno sguardo maschile, allora non disturba nessuno, se invece sono le donne a riappropriarsene, magari rivendicando la loro estraneità a quella norma, tutti hanno da ridire. E infatti non c’è dubbio che se Bologna si fosse riempita delle migliaia di nudi femminili dipinti da uomini che costellano l’arte occidentale – a volte in modi che possono benissimo essere considerati erotici, se non pornografici – nessuno si sarebbe scandalizzato, così come nessuno si scandalizza per la loro presenza nei musei.
La liceità dell’utilizzo dello spazio pubblico, ancor più in forma effimera e temporanea come fa Cheap, non può essere ridotta a un semplice discorso estetico, soprattutto se questa riflessione viene fatta solo nel nome del buono e del cattivo gusto. Cheap vuole “mantenere una distanza di sicurezza tra sé e l’imbruttimento del decoro, la retorica della riqualificazione e le spinte incarnate di questa normalizzazione”: sempre più spesso la street art e la public art vengono usate come forme di rigenerazione urbana contro il “degrado“. Con questa parola non a caso si identificano quei quartieri che sono stati lasciati a se stessi e dove sono relegate proprio quelle persone non conformi a una narrazione rassicurante. Cheap, come tante altre iniziative di public art indipendenti, fa esattamente l’opposto: porta il conflitto, la lotta, la provocazione – che contrariamente a quanto sostiene Il Giornale non è mai fine a se stessa – nel centro della città. Il punto è proprio ciò che lamenta l’articolo di Tosi: “Chiunque passi dalla loro galleria a cielo aperto non ha avuto la possibilità di scegliere se guardare o meno le immagini di nudo che le street artist hanno affisso per una delle vie più trafficate della città”. Questo perché i corpi non conformi esistono, sono visibili e sono presenti, che ci piaccia o no. Non possono essere cancellati, non c’è nessun “garante per i diritti dell’infanzia” che può intervenire affinché non disturbino più il nostro sguardo. Chi si sente offeso da un corpo nudo dovrebbe ragionare sul valore che dà a quel corpo.
Forse Borgonzoni dovrebbe riprendere in mano i libri che con orgoglio dice di aver smesso di leggere, in particolare i manuali dell’Accademia di Belle Arti, e ripassare cosa si dice a proposito del rapporto tra arte e gusto, arte e bello. E rassegnarsi all’idea che nessun corpo è offensivo.
“La lotta è FICA” è un progetto di public art di CHEAP, foto di Michele Lapini