Nell’universo degli stereotipi spagnoli il galiziano ha la parte dello stupido, è il protagonista delle barzellette che in Italia sono riservate ai carabinieri. E da una di queste barzellette sembra uscita la conferenza stampa di Mariano Rajoy da Santiago de Compostela. «Non c’è stato nessun referendum di autodeterminazione in Catalogna», dice il presidente. A 600 km di distanza, intanto, i catalani continuavano a votare e migliaia di loro si preparavano a festeggiare in Plaça Catalunya a Barcellona, bandiere alla mano e slogan anti-governativi in bocca.
Fracaso completo
Un po’ tardi per fare finta di niente. Il governo di Rajoy poteva adottare la tattica dell’indifferenza fin da subito, come del resto aveva fatto durante l’ultima consultazione catalana, nel novembre 2014. Appreso il responso della Corte costituzionale che dichiarava illegale il referendum, avrebbe potuto evitare l’invio in massa di Policía Nacional e Guardia Civil in Catalogna. Il 20 settembre i promotori sarebbero stati arrestati con meno clamore e il primo di ottobre i catalani avrebbero votato in pace, in una consultazione comunque disconosciuta da Madrid. Almeno l’opinione pubblica internazionale non avrebbe simpatizzato con anziani e studenti che, armati di una pericolosissima scheda elettorale, venivano caricati dalla polizia. Oppure, il governo centrale avrebbe potuto impedire davvero il referendum: operazione complicata, certo, ma teoricamente possibile con un’organizzazione meticolosa, magari senza l’ostruzione della polizia catalana. Invece di scegliere una strategia, Rajoy le ha mischiate in modo goffo e il risultato è stato una disfatta totale: il referendum si è tenuto, il “Sì” ha vinto e le immagini della repressione ai seggi (oltre 800 feriti) hanno fatto il giro del mondo. Ora appare ancora più difficile ricucire lo strappo fra Spagna e Catalogna, anche visti gli schieramenti in campo. Da una parte c’è un governo spiccatamente anti-catalanista, quello del Partido Popular, che a ogni manganellata ai manifestanti di Barcellona guadagna un voto nel resto del Paese e che ora deve andare fino in fondo con la linea dura, per salvare la faccia e la Moncloa. Dall’altra due falchi come Carles Puigdemont (il presidente catalano) e Oriol Junqueras (numero due della Generalitat e leader di Esquerra Republicana de Catalunya), che farebbero scuola anche a Machiavelli, hanno organizzato una secessione illegale con una coalizione raffazzonata e un referendum senza quorum, riuscendo pure nell’impresa di passare per vittime.
Il discorso del Re
A salvare la coesione nazionale in questi giorni ci ha provato persino il Re, con un discorso alla Nazione, l’asso nella manica dei sovrani spagnoli. Del resto, il padre di Don Felipe VI, Juan Carlos, aveva sventato un colpo di Stato nel 1981 proprio apparendo in televisione. Con la parte della bandiera spagnola che rappresenta l’Aragona (e quindi anche la Catalogna) ben in vista, il monarca ha attaccato duramente le autorità catalane e invitato alla calma con gesti paternalistici, senza nemmeno sfiorare la possibilità di un dialogo con gli indipendentisti o menzionare le violenze dell’“1-O”. Compito arduo per un’istituzione non votata da nessuno (come gli ha fatto notare su Twitter il leader di Podemos, Pablo Iglesias) invocare l’unità del Paese e la difesa della democrazia: ancora più se fra i destinatari del messaggio c’è chi ha votato “Sì” a una Catalogna indipendente in forma di Repubblica.
Polizia e sedizione
La sensazione comune è quella di una spaccatura profonda e di una società, quella catalana, sempre più diffidente verso le autorità nazionali. In Catalogna, infatti, anche chi dovrebbe garantire l’ordine costituzionale vacilla: come era facilmente prevedibile, i corpi di polizia hanno agito in maniera molto diversa durante la giornata del referendum. «Nel seggio dove sono andata a votare io», racconta una studentessa di Barcellona, «i Mossos d’Esquadra sono arrivati, hanno salutato educatamente i presenti, si sono guardati un po’ intorno e sono andati via tra gli applausi della folla». Una scena che si è ripetuta in varie località catalane, sostenuta dal numero uno dei Mossos, che ha diligentemente spiegato come «l’ordine di evacuare i seggi sarebbe stato disatteso ogni volta che avesse comportato seri rischi per l’ordine pubblico». Sapendo che il primo ottobre le persone si sarebbero attaccate alle porte come i seguaci di Gandhi, Josep Lluís Trapero faceva prima a dire che i suoi agenti non avrebbero ostacolato il referendum. Delle buone maniere si sono invece dimenticati la Guardia Civil e la Policía Nacional, che sono intervenute in alcuni punti di voto (79 su oltre 2mila e solo durante la mattinata), caricando e colpendo i votanti inermi senza farsi troppi problemi. Forse perché diversi agenti delle polizie nazionali vedono le operazioni in Catalogna come la reconquista di un territorio ai danni di un nemico esterno. E vivono la propria missione con un coinvolgimento personale che sta pericolosamente a metà fra una guerra e una partita di calcio, come dimostrano alcuni video di questi giorni.
¿Y ahora qué?
In un’atmosfera così tesa, in Catalogna non ci si meraviglia più di niente. Può succedere, ad esempio, che i cittadini strappino la bandiera spagnola dai balconi comunali, o che i sostenitori del “Sì” e del “No” si affrontino come ultras allo stadio, che la polizia cominci a manganellare i pompieri o che Guardia Civiles e Mossos si mettano letteralmente le mani addosso. Non proprio una bella notizia per lo Stato, che in teoria dovrebbe detenere il monopolio della violenza all’interno dei suoi confini, mentre si trova a fare i conti con 17mila agenti che gli obbediscono più o meno quando e come gli pare, comandati da un maggiore accusato di sedizione. Destino beffardo, se si pensa che i Mossos d’Esquadra furono creati nel 1721 per tenere a bada in Catalogna i seguaci sconfitti degli Asburgo, proprio quei fuorilegge refrattari al centralismo borbonico a cui si ispirano gli indipendentisti di oggi. Intanto, il governo centrale non ha alcuna intenzione di richiamare gli agenti di stanza in Catalogna, anzi, ha inviato mercoledì un convoglio logistico dell’esercito che allestisse una base per la polizia a Sant Boi de Llobregat: abbastanza per far crescere la preoccupazione dei catalani e far fare titoli sensazionalistici ai giornali italiani.
La resa dei conti
Passato l’hangover collettivo del primo ottobre, delle senyeras estreladas sventolate nella notte di Barcellona dalla folla festante degli indipendentisti, alla Generalitat de Catalunya toccano ora le mosse più difficili. Come in una partita a poker, il Govern ha tentato l’all-in e il suo avversario ha abboccato. Ora però si devono scoprire le carte: secondo la Ley de transitoriedad, l’indipendenza della Catalogna deve essere dichiarata in un lasso di tempo di 48 ore dal momento in cui vengano trasmessi al parlamento catalano i risultati ufficiali del referendum: una questione rimandabile di qualche giorno, ma non all’infinito. La data prescelta per la DUI, la “Declaración unilateral de independencia”, potrebbe essere lunedì 9 ottobre, quando è prevista una sessione plenaria del parlamento catalano. E visto che l’articolo 2 del Titolo preliminare della Costituzione nazionale prevede “l’indissolubile unità della Nazione spagnola”, i margini di trattativa a questo livello sono praticamente nulli. L’indipendenza, tra l’altro, presenterebbe subito il conto di una lunga lista di problemi, che vanno dalla valuta corrente al campionato in cui giocherà il Barcellona (sembra un affare secondario, ma in Spagna è uno dei temi più ricorrenti). La prima stangata colpirebbe le tasche dei catalani: è vero che la Catalogna ha da sola un Pil che supera i 200 miliardi di euro, più di quelli della Grecia o del Portogallo, e una disoccupazione inferiore al resto della Spagna (13% vs 17%).
Ma tutto questo benessere è dovuto in parte a uno status quo economico a cui il nuovo Stato indipendente non potrebbe più ambire. L’esclusione dall’Unione Europea comporterebbe anche quella dal Mercato unico: già sulle esportazioni catalane verso la Spagna si applicherebbero i dazi europei, mentre la negoziazione di un accordo di libero scambio dovrebbe necessariamente passare dai parlamenti nazionali, con tutti gli ostracismi del caso. Per non parlare della parte di debito pubblico spagnolo che tocca alla Catalogna, calcolata da El Confidencial nel 120% del Pil, 254 miliardi di euro. Euro che, tra l’altro, in Catalogna non potrebbero più circolare, a meno che non venga adottato unilateralmente, come succede ad esempio in Montenegro e Città del Vaticano: dilemma amletico quello tra la svalutazione immediata di una nuova moneta e la perdita del controllo di quella vecchia, senza la Bce a garantire liquidità in caso di crisi e con gli investitori pronti a fuggire dalle banche catalane.
Scontro o incontro?
Nel complesso, una bella beffa per una regione che aspira all’indipendenza (anche) per essere più ricca: probabile allora che, alla prova di forza, si sostituisca l’abilità diplomatica e che governo e Generalitat tornino a trattare. Il primo ha provato a prendere il toro per le corna ed è stato infilzato: ora Rajoy (o chi per lui, visto quanto traballa la sua poltrona) dovrà necessariamente adottare una strategia più accomodante e scendere a compromessi. Se invece volesse forzare la mano, potrebbe, con un voto favorevole del Senato, sciogliere direttamente il Govern catalano: è il temuto articolo 155 della Costituzione spagnola, la bomba che farebbe esplodere definitivamente la crisi. Gli irredentisti della Generalitat, dal canto loro, hanno dimostrato grande capacità di mobilitazione e pur comportandosi da fuorilegge, guadagnato in autorità. Hanno in mano una sorta di “mandato popolare”, benché ristretto: in fin dei conti ha votato per il distacco dalla Spagna il 38% dei catalani (il 90% del 42% degli aventi diritto che si sono recati alle urne). Comunque la si veda, un esercito pacifico di oltre due milioni di persone. Difficile sbilanciarsi oggi su una soluzione concreta, ma per evitare il muro contro muro ci sono diverse scappatoie pacifiche: da un referendum “concordato” per una maggiore autonomia, al via libera di Madrid al contestatissimo Statuto del 2006. Che concede, tra le altre cose, il diritto alla Catalogna di considerarsi Nazione.
Il diritto dei catalani
Il principio di autodeterminazione dei popoli, del resto, è riconosciuto già nella Carta delle Nazioni Unite del 1945, come amano ricordare gli indipendentisti catalani della prima ora. Ma è valido solo in tre casi, come spiega un illuminante articolo del professor Manlio Frigo sul sito dell’Ispi: per i popoli soggetti a dominio coloniale, per i popoli il cui territorio è stato occupato da uno Stato straniero e per i gruppi minoritari che all’interno di uno Stato sovrano si vedano rifiutare un accesso effettivo all’esercizio del potere di governo. Ferma restando la difficile compatibilità fra questo principio e quello relativo all’integrità territoriale degli Stati (l’Europa se ne è subito lavata le mani: sono fatti della Spagna e se li gestisce lei), resta da capire a chi spetti il diritto di considerarsi un popolo. C’entra poco la purezza del sangue, visto che i globuli rossi non reclamano identità particolari: le rivendicazioni principali puntano su una precisa differenza culturale, storica e linguistica della Catalogna rispetto al resto della Spagna. Ma come sosteneva il grande linguista Max Weinrich una lingua non è altro che “un dialetto con un esercito e una flotta” e in fondo il catalano si discosta dal castigliano non più di quanto faccia il sardo con l’italiano standard. Ogni idea di Nazione poggia su convenzioni contingenti dettate da un particolare momento storico e nessuna di esse è un monolite inscalfibile dallo scorrere della Storia. Soltanto il tempo dirà se, in un futuro vicino o lontano, meriterà di diventare un popolo anche questa rumorosa e colorata schiera di persone, che combatte per il suo riconoscimento armata di una bandiera e di un inno.