Carlo Cracco si è trasferito “in Galleria”, il salotto del salotto di Milano: il nuovo Ristorante Cracco è in realtà uno spazio multipiano che comprende ristorante, bistrot, salone per eventi speciali, laboratorio di pasticceria e cantina con oltre 2.500 etichette e 10mila bottiglie.
Gli interni, curati dallo studio milanese Peregalli Sartori, sono stati inaugurati il 20 febbraio 2018 con una festa esclusiva alla presenza di ospiti illustri, tra cui il sindaco Sala e Fabio Fazio. Il progetto è estremamente curato in ogni dettaglio, ma sembra ignorare oltre un secolo di storia del design italiano e internazionale, intervenendo con innesti mimetici nella struttura ottocentesca delle sale, con orpelli, stucchi, damaschi ispirati alle inconfondibili texture di Mariano Fortuny e “decorazioni sfarzose, ma rispettose dell’anima del luogo”, persino nel nuovo ascensore.
Oltre che sancire la definitiva consacrazione della storia artistica e imprenditoriale dello chef, questo nuovo meta-ristorante rappresenta materialmente e simbolicamente un altro fenomeno, ormai consolidato: l’inarrestabile deriva della retorica del gusto italiano in termini di stanco e confuso revival “in stile” (sic) di un passato leggendario da impacchettare e vendere come una merce qualunque.
Questa trasformazione inesorabile della storia in commodity da un lato porta a dei vantaggi economici e di visibilità immediati per i privati che scaltramente la promuovono e la cavalcano (sponsorizzazioni dei grandi brand al restauro e al mantenimento di opere notevoli, come Tod’s per il Colosseo o Fendi per il Palazzo della Civiltà Italiana all’EUR, mi sto rivolgendo a voi); dall’altro – proprio per rendere il pacchetto maggiormente appetibile al target di riferimento, e cioè il buyer-turista con buona capacità d’acquisto e per cui è del tutto irrilevante l’accuratezza filologica – sta provocando un eccesso di semplificazione.
Il risultato è che sempre più spesso, paradossalmente, riusciamo a diventare – da italiani – i principali produttori di Italian sounding, creando (o meglio ricreando in provetta) un’Italia in miniatura, distopica, disassata e semplificata rispetto alla magnifica complessità e alla vera storia di quella reale, decisamente più interessante. Un’Italia in tono minore, una Disneyland perfettamente confezionata a uso e consumo del turista con carta di credito.
Qual è il problema col nuovo spazio di Cracco: se lo chef si è sempre distinto per piatti estremamente tecnici, di ricerca, unico erede in linea diretta dell’avanguardismo libero da pregiudizi di Gualtiero Marchesi, purtroppo gli spazi in cui i clienti hanno fatto esperienza delle sue opere non sono mai stati all’altezza, cornici generiche per quadri decisamente più interessanti. E gli interni del nuovo Ristorante Cracco “in galleria” proseguono nella stessa tradizione dei loro predecessori, anzi in qualche modo peggiorando: nella loro libera interpretazione e riproposizione analogica di un indefinito passato da cui trarre acriticamente ispirazione, questi spazi sono in larga parte falsi, come può essere falso il pizzicagnolo di Eataly, ma tragicamente sembrano più veri del vero e rappresentano l’italianità agli occhi del cliente e del visitatore internazionale. Sono fuori luogo, pur “in stile”, come sarebbe fuori luogo per lo stesso Cracco proporre un banale consommé. E, vado a memoria, le minestre riscaldate non hanno mai fatto conquistare stelle nelle guide.
Il falso storico, sebbene possa avere a volte una sua utilità – come nel caso della ricostruzione di un bene di grande valore simbolico andato perduto per calamità naturali o eventi improvvisi (non è questo il caso, ovviamente) – è un falso a tutti gli effetti. Con l’aggravante, in esemplari di grande richiamo turistico e mediatico come questo, di spostare drasticamente l’asse del rapporto tra segnale e rumore nel campo dei già complicati temi dell’eccellenza, dell’esclusività, dell’originalità e dello stile del Belpaese, in settori chiave dell’immagine e della reputazione dell’Italia in cui ci sarebbe davvero poco da improvvisare.
Ci sono tanti esempi di raffinati innesti contemporanei, pur nella massima sobrietà, in edifici e location storiche. E questo criterio – decisamente più onesto del riproporre temi e soluzioni stilistiche che confondono e impastano ciò che è originale (gli spazi severi dell’interno della Galleria del Mengoni) con gli arredi, i tessuti ed i rivestimenti posticci aggiunti oggi – sarebbe stato oltretutto ben più corretto e coerente con lo spirito della cucina di Cracco, che parte dalla tradizione per percorrere una sua personalissima strada sperimentale.
Ho citato non a caso il rapporto tra quadro e cornice: il messaggio dell’opera d’arte (in questo caso l’esperienza sensoriale, tattile, olfattiva e visiva che lo staff di Cracco offre alla clientela nelle sue creazioni, ma potremmo dire lo stesso per altre offerte turistico-culturali italiane) trova nello spazio architettonico un fondamentale elemento di inquadramento, che in qualche modo amplificherà o banalizzerà quell’esperienza, essendo esso stesso un’esperienza di grado superiore – così come la cornice (o la sua assenza, voluta o meno) lo è per un’opera d’arte nel suo confinarla rispetto alla parete. In questo senso lo spazio del Ristorante Cracco, pur nella sua corretta esecuzione artigianale, appare come una cornice posticcia, una nota stonata, solo in superficie legata alla originale storia della Galleria Vittorio Emanuele o alla storia del progetto italiano in generale, e se vogliamo proprio in questo non rende certo onore ai piatti di Cracco.
E pensare che siamo stati i maestri indiscussi, nei secoli, dell’eccezionalità e dell’innovazione. Le città e le architetture italiane che amiamo e tuteliamo sono sempre state vitali e dinamiche, nate e ricostruite come evoluzioni sostanziali di ciò che le precedeva. L’epoca aurea del design industriale italiano – quello di Gio Ponti, di Achille e Pier Giacomo Castiglioni, di Bruno Munari, di Enzo Mari e dei tanti imprenditori che hanno contribuito a scrivere attraverso di loro la Storia del progetto di questo Paese – ma anche dell’avanguardia tutta italiana nelle teorie e tecniche della conservazione della storia – quella di Cesare Brandi, Roberto Pane e Pietro Gazzola – è stata capace di esprimersi con un linguaggio colto e proprio per questo radicale, rigoroso e autonomo, senza inutili manierismi, rispettando e valorizzando l’eredità storica ma con lo sguardo rivolto al futuro.
Cosa è successo negli ultimi decenni? A quanto pare siamo diventati vittime di un ingiustificato complesso di inferiorità, che a differenza dei maestri del Miracolo Italiano e dei grandi che ci hanno preceduti nei secoli ci rende paralizzati di fronte ad una storia che preferiamo congelare e rivendere a tranci, quando quella stessa storia è stata il frutto di sequenze di innovazioni continue, secolo dopo secolo.
A quanto pare quella competenza, quella appartenenza al proprio tempo e quella radicalità che per millenni, e fino a ieri, hanno stratificato la nostra reputazione internazionale – e che pochi illuminati si ostinano ad alimentare incessantemente, e vivaddio — la stiamo svendendo un tanto al chilo. In nome di un presunto e generico “passato”, retoricamente falso come l’ascensore di Cracco in Galleria: stanca e assurda replica attualizzata di qualcosa che non è mai esistito, se non nel catalogo di qualche arredatore. Direi che abbiamo cataloghi migliori.
Per millenni, l’arte — e l’architettura, anche quella d’interni — sono sempre state contemporanee. E anche noi dovremmo ricominciare a guardare al futuro (e a progettarlo, se intendiamo migliorarlo) con ottimismo, liberandoci della vuota retorica e togliendo lo sguardo fisso dal retrovisore. A meno che non si voglia ingranare la marcia indietro.
Luca Silenzi, architetto, vive e lavora a Fermo, dove ha fondato con Zoè Chantal Monterubbiano lo studio Spacelab – tra i contributors internazionali della sezione Monditalia alla XIV Biennale di Architettura di Venezia col progetto State of Exception. Nel 2016 la ricerca di Spacelab su un innovativo concetto di architettura industrializzata è stata selezionata nell’ADI Design Index e candidata al XXV Compasso d’Oro 2018.