Per capire perché le donne non denunciano gli abusi basta seguire il processo ai carabinieri di Firenze - THE VISION
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Un passo in avanti, uno a ritroso, che ci riporta indietro di cinquant’anni.

È notizia di oggi che i pm della procura di Roma avrebbero aperto un fascicolo sulle accuse di molestie nei confronti di Fausto Brizzi. Stando a quanto riportano diverse testate, altre donne avrebbero deciso di denunciare le violenze subite, e – a differenza di chi ha parlato fino a ora – possono sporgere querela perché si tratterebbe di  denunciare fatti avvenuti negli ultimi sei mesi (è il termine per presentare querele di questo tipo). Notizia che nel pomeriggio è stata smentita da una nota del legale di Brizzi, secondo cui “Anche a seguito di una verifica effettuata nel corso della mattinata odierna, non risultano iscrizioni a suo carico presso la Procura della Repubblica di Roma”.

Fausto Brizzi al momento dello scoppio dello scandalo aveva replicato, attraverso un comunicato stampa diffuso dal suo avvocato, di non avere “mai avuto rapporti non consenzienti” e l’opinione pubblica si era spaccata in due: da una parte quanti credevano alle ragazze (che in breve tempo sono aumentate), dall’altra i paladini del garantismo, alcuni dei quali hanno definito le dieci ragazze “signorine in cerca di visibilità” – tra loro anche molti volti noti dello spettacolo (Neri Parenti, Nancy Brilli, Cristiana Capotondi, Lodovica Comello e altri) che avevano difeso Brizzi.

Fausto Brizzi

Molte di coloro che avevano denunciato in tv il regista romano hanno poi rinunciato a intentare una causa civile. Perché non provare a ottenere almeno un risarcimento, se la via della giustizia penale è ormai preclusa per decorso dei termini previsti per querelarsi? Perché nessuno vuole essere distrutto pubblicamente da un’orda che pensa che tu ti stia inventando tutto per soldi o interessi personali. E perché i processi sulle violenze sessuali, gli accertamenti, le domande dei rappresentanti di accusa e difesa sono spesso profondamente umilianti. Questo, come spiega Psychology Today, è uno dei tanti motivi che portano le donne, nella maggior parte dei casi a non denunciare le violenze sessuali. Nell’80% dei casi, secondo una ricerca.

Ne è un esempio lampante il caso delle due giovani ragazze statunitensi che si erano rivolte alla Questura di Firenze per denunciare uno stupro subito da due carabinieri. Per chi non ricordasse la vicenda: si trattava di una serata in discoteca, degenerata per le due studentesse quando due militari in servizio si erano offerti di riaccompagnarle a casa, ubriache, e le avevano secondo le accuse costrette a un rapporto sessuale.

Discoteca Flò, Firenze

I carabinieri stanno rispondendo ora anche ad altre accuse di violazioni commesse quella notte, tra cui la decisione di fermarsi in discoteca nonostante fossero in servizio e la scelta di far salire le ragazze sulla propria automobile: il trasporto dei civili non in stato di fermo è consentito solo in casi specifici (per esempio un ferito grave) e solo dopo aver informato la centrale operativa, cosa che quella notte non è avvenuta.

Anche in questo caso l’opinione pubblica aveva dato il peggio di sé e in breve tempo erano arrivate le prime sentenze via social: “Lo fanno per i soldi”, “Se non ci sono lesioni la violenza non c’è stata”, “Se la sono cercata”. Che opinioni come queste si possano trovare su Facebook fa già orrore, ma che addirittura trovino spazio in un’aula di tribunale è inaccettabile.

Eppure, come ha detto il giudice Mario Profeta dopo aver assistito alla difesa portata avanti in aula dagli avvocati Giorgio Carta e Cristina Menichetti, legali dei due carabinieri, “Siamo tornati indietro di cinquant’anni”. Oggi, sul Corriere della Sera, sono state pubblicate le domande che per dodici ore e 22 minuti le ragazze hanno dovuto sopportare da parte dei due avvocati e che raggiungono lo stesso livello dei commenti alla pagina Facebook di Libero, come: “Lei trova affascinanti, sexy gli uomini che indossano una divisa?”.

Come ha fatto notare il giudice una domanda del genere è “inammissibile”, dal momento che “le abitudini personali, gli orientamenti sessuali non possono essere oggetto di deposizione”.

Avvocato: “Lei indossava solo i pantaloni quella sera? Aveva la biancheria intima?”.

Altra domanda non ammessa, e ancora: “È la prima volta che è stata violentata in vita sua?”.

Anche questa non ammessa. E non voglio nemmeno commentarla.

Al “no” della ragazza, il giudice le ha a sua volta chiesto: “Ha manifestato questo non gradimento con comportamenti espliciti?”.

Ragazza: “No, non avevo forza nel mio corpo”.

Giudice: “E con questa risposta non accetto più domande così invadenti”.

Avvocato: “Perché dobbiamo privarci di scoprire la verità, la ragazza muore dalla voglia di dire la verità, sentiamola se è salita a piedi…”.

Giudice: “Che ironia fuori luogo, ora sta andando oltre il consentito. C’è una persona che secondo l’accusa ha subito una violazione così sgradevole e lei fa dell’ironia? Io credo che non sia la sede”.

Palazzo di Giustizia, Firenze

Qui si apre un’altra questione fondamentale: quella del consenso. L’evoluzione del nostro ordinamento giuridico in tema di violenza è lentissima. Solo nel 1996 lo stupro è stato inserito tra i reati contro la persona e fino a quel momento la violenza sessuale era vista come un fatto naturale, correttivo. Ancora oggi, però, la giurisprudenza, come dimostrano gli avvocati dei carabinieri, fatica a sganciarsi dall’idea che le aggressioni sessuali siano tali solo se attuate con modalità violente e minacciose. Ecco che allora, in un aula di tribunale di Firenze, è ritenuto lecito screditare l’importanza del consenso: un no, che tra l’altro è stato solo sussurrato da una ragazza senza forze, non ha valore. Quel che conta è un’altra cosa per l’avvocato, che domanda: “Quindi ha usato la forza per sottometterla?”

E invece, come sottolinea la giornalista Laurie Penny nel suo libro più recente Bitch Doctrine: “Il consenso non è un oggetto ma un processo continuo, un’interazione tra due creature umane”. Del consenso molte persone sembrano ancora oggi avere una concezione grezza. Fino a dieci anni fa, ma anche meno, il sesso era da loro inteso come qualcosa che dovevi persuadere qualcuno a fare, al punto che, come dice la Penny: “se [le donne] non stavano dicendo di no o non cercavano di cacciarti via, probabilmente era tutto a posto.”

Laurie Penny

È questo tipo di atteggiamento ad averci portato a ritenere plausibile fare sesso con ragazze in stato di (semi)incoscienza, a considerare la donna un oggetto sessuale di cui disporre a proprio piacimento, che se ti piace l’addormenti e ci fai sesso (per citare un noto fumettista) o che utilizzi senza troppe remore. Questo tipo di concezioni, di cui è ancora pervasa la nostra giustizia, non fanno che alimentare la cultura dello stupro, e cioè una cultura dove la violenza sessuale è in qualche modo normalizzata e giustificata.

A questa si dovrebbe rispondere con una cultura del consenso inteso come manifestazione d’intenti, dove non solo un “no” è un “no” – se nel caso delle studentesse sembra fosse stato detto, ci sono tanti altri casi in cui non si è in grado di pronunciarlo – ma dove è il “sì” a contare e il consenso viene dato durante tutta la durata del rapporto sessuale.

Sembra assurdo ritrovarsi a far chiarezza su questioni come queste e sembra impossibile che persino gli uomini di legge arrivino a colpevolizzare le vittime, a insinuare che siano in qualche modo responsabili degli atti subiti. Eppure siamo ancora qui a incazzarci, a combattere perché qualcosa cambi, a sottolineare – pare che ce ne sia bisogno – che così facendo queste ragazze finiscono per essere vittime due volte.

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