È recente la notizia secondo cui Madison Russo, diciannovenne di Bettendorf nell’Iowa, avrebbe truffato il popolo web inventando di essere affetta da un cancro in stadio avanzato. La ragazza aveva lanciato una raccolta fondi sui social, grazie alla quale era riuscita a raccogliere circa 37mila dollari, e ai suoi seguaci su Tik Tok raccontava le fatiche delle cure mediche e gli sforzi per cercare di avere una vita normale. Pare che Russo indossasse una parrucca durante alcuni video e che avesse dotato casa sua di flebo e apparecchiature utili a mandare avanti la recita nel modo più credibile. Per alcuni mesi la giovane ha portato avanti la truffa – vedendo aumentare esponenzialmente il numero di follower – ma poi alcuni utenti si sarebbero accorti di incongruenze sospette nella storia che raccontava, e avrebbero denunciato il caso alla polizia. Questo l’epilogo di una storia che oltre a indignare dovrebbe far riflettere, considerando che il caso di Russo non è isolato.
Nel 2017, la ventinovenne inglese Toni Standen aveva raccontato, intervistata da un giornale, di essere malata di cancro. La messa in scena era andata avanti per alcuni anni con familiari, amici e futuro marito ignari delle menzogne che Standen raccontava. La donna aveva avviato una raccolta fondi allo scopo di sostenere le spese del suo matrimonio, l’ultimo desiderio prima che la malattia la uccidesse. Ma nel 2020 alcune amiche di Standen avevano smascherato la truffa, e la donna era stata condannata a cinque mesi di carcere e al pagamento di una multa da duemila sterline. I casi di persone senza scrupoli come Russo e Standen sono chiari esempi di come il meccanismo della simulazione e strumentalizzazione delle emozioni, a scopo di lucro, ci stia del tutto sfuggendo di mano. Truffe del genere, su un tema delicato come il cancro in fase terminale, scrivono una delle pagine più buie dell’incontro tra capitalismo, rivoluzione digitale e mercificazione delle emozioni.
La strumentalizzazione delle nostre emozioni ormai è un’abitudine quotidiana, che replichiamo spesso senza rendercene conto. Tutti i giorni manifestiamo ciò che proviamo sui nostri profili social, per attirare l’attenzione degli altri e suscitare curiosità ed empatia. Conosciamo bene il potere delle emozioni e le reazioni che possono sortire: le trasmissioni che hanno costruito il loro successo sul loro racconto e spettacolarizzazione ci danno la cifra di quanto le emozioni stesse possano diventare veri e propri contenuti, capaci di indurre un meccanismo di immedesimazione nello spettatore e, così, ottenere popolarità, consenso e in alcuni casi guadagno. Talvolta, però, persi in questo meccanismo, finiamo per modificare le nostre vere emozioni o simulare reazioni di fronte a determinati eventi, per conformarci alle emozioni degli altri e, così, sentirci parte di una collettività. La degenerazione di questo fenomeno è che smettiamo di riconoscere le nostre emozioni reali, e iniziamo a identificarci con quelle che simuliamo.
Nel 1983, la sociologa statunitense Arlie Russell Hochschild, col saggio The Managed Heart: Commercialization of Human Feelings, indagò il fenomeno della strumentalizzazione delle emozioni da parte dell’essere umano. L’interesse di Hochschild originava da una particolare esperienza familiare: suo padre era infatti un diplomatico e riceveva spesso in casa i rappresentanti delle ambasciate straniere, dunque fin dall’infanzia la sociologa aveva potuto osservare il confine tra la persona reale e il suo ruolo sociale, tra le emozioni autentiche e quelle simulate. Spesso siamo portati a vivere le emozioni come un fatto sociale e collettivo, piuttosto che puntare l’attenzione sulla loro dimensione individuale, privata. In virtù di questo ci sforziamo, quotidianamente, di provare e manifestare determinati sentimenti ed emozioni, che si conformano a un sentire comune e socialmente codificato. Infatti, saremmo tutti costantemente impegnati nel processo di creazione delle nostre emozioni, piuttosto che nel semplice ascolto delle stesse.
Possiamo applicare questa teoria a un fenomeno ormai frequente nel quotidiano: quando muore un personaggio noto, per esempio, i nostri profili si riempiono di commenti accorati per la sua scomparsa. Ma questa reazione potrebbe non essere sempre autentica, bensì influenzata da ciò che percepiamo come sentire comune. In questo caso, alcuni di noi potrebbero conformare la propria reazione emotiva in base a quelli che riteniamo essere i dettami sociali: reagire con dispiacere e manifestarlo con un post ci fa percepire simili agli altri e, di conseguenza, ci dà un’identità e ci fa sentire “giusti”. Nel farlo, trascuriamo del tutto ciò che quell’evento ha realmente suscitato in noi – magari una semplice indifferenza, che non possiamo manifestare, né accettare, perché tendiamo a reputarla socialmente disdicevole.
Nell’ambito degli studi sulle emozioni come fatto sociale, Hochschild indagò anche il rapporto tra queste e il sistema capitalistico. Alla base del processo di strumentalizzazione delle emozioni, infatti, vi è l’assunto proprio del capitalismo secondo cui queste possano diventare “merce” per generare profitto. Il riverbero che determinati fattori culturali, sociali ed economici avevano sulle manifestazioni emotive delle persone, furono oggetto dell’attenzione di molti sociologi nella seconda metà del Novecento. Con l’avvento del settore terziario, infatti, le reazioni e lo stato mentale dei lavoratori divennero il prodotto stesso: per ottenere il massimo del profitto, il lavoratore avrebbe dovuto recitare otto ore al giorno, e generare così nel cliente forti emozioni. Questo processo avrebbe fidelizzato il consumatore e aumentato le possibilità di acquisto di un prodotto o di fruizione di un contenuto; di conseguenza, il profitto sarebbe aumentato sfruttando le emozioni delle parti in causa.
Hochschild evidenziò le differenze tra lo sfruttamento di base dell’individuo delle industrie e quello più sofisticato del settore terziario: se nel primo caso era pressoché ininfluente che gli operai amassero o meno il proprio lavoro, e dunque non bisognava agire sul loro stato mentale per aumentare le loro prestazioni, in un’economia basata sui servizi era fondamentale intervenire sulle emozioni dei lavoratori per migliorare le loro performance. Per questo si parla di “lavoro emozionale”: in cui ciascun individuo è chiamato a simulare emozioni e a recitare un ruolo sul lavoro, partecipando attivamente al processo di produzione di ciò che poi viene venduto, ossia una personalità artefatta. Un lavoro di immedesimazione che somiglia molto al metodo Stanislavskij. In particolare Hochschild riscontrò questo fenomeno nella formazione di hostess e steward dell’American Airlines, ma sono tante le categorie professionali chiamate a recitare un vero e proprio ruolo durante l’orario di lavoro per migliorare le proprie prestazioni: basti pensare agli animatori turistici, che devono simulare entusiasmo per intere giornate al fine di suscitare la stessa emozione nei clienti delle strutture in cui lavorano.
Il fenomeno del lavoro emozionale, e più in generale il fatto di vivere più le emozioni come un fatto sociale, ha delle ripercussioni negative sul nostro equilibrio e benessere psicologico. Per conformarci al sistema, rischiamo infatti di alienarci da noi stessi, di smarrire la percezione della nostra identità e di iniziare a identificarci con il personaggio che interpretiamo, soprattutto con le sue emozioni falsate. A volte ignoriamo che non si possa rinunciare al contatto con le proprie emozioni, perché sono fondamentali per la sopravvivenza. Le emozioni ci preparano sul piano neurofisiologico all’azione: la paura ci induce a difenderci dai pericoli, la rabbia ci aiuta a rivendicare i nostri diritti, il disgusto ci segnala ciò da cui dobbiamo tenerci a distanza. Se ci facciamo trascinare in questo vortice rischiamo di esporci al disagio psicologico, senza considerare che questo fenomeno può risultare dannoso anche per chi, da spettatore, subisce gli effetti della simulazione emotiva, diventando incapace di stabilire i confini sempre più labili tra realtà e finzione e sviluppando diffidenza verso il mondo esterno e le emozioni degli altri.
La consapevolezza di poter fruire di uno strumento efficace come le emozioni per aumentare i nostri guadagni oggi ci è sfuggita di mano; l’ausilio del web non è la causa di questa strumentalizzazione, ma acuisce la percezione, fallace, della nostra onnipotenza. Casi come quelli della tiktoker Russo sono sintomatici di una realtà irrefrenabile, in cui continuiamo a mettere al centro delle nostre vite l’accumulo di popolarità e consenso, a qualunque costo, perché con buona probabilità ci porteranno guadagni facili. Attirare l’attenzione su di sé è sempre più difficile, accade così che simulare una malattia terminale sembri il modo più agevole per ottenere molti seguaci in tempi brevi. Seguaci ignari della recita cui assistono, non solo ridicola ma anche oltraggiosa nei confronti di chi sta realmente affrontando la propria battaglia contro il cancro.
La sociologa Eva Illouz ha parlato di “capitalismo emotivo”, per spiegare il fenomeno sociale che domina la contemporaneità e che porta la sfera emozionale e quella economica a influenzarsi a vicenda, con le nostre emozioni che seguono sempre di più le logiche del mercato. Il meccanismo sotteso a questa dinamica sociale, che sfugge ormai al nostro controllo, può indurci a una riflessione sull’effettivo benessere che riusciamo a ricavare quando sacrifichiamo ciò che realmente proviamo, in virtù di ciò che dovremmo provare per essere quanto più conformi agli altri e alle loro esigenze, tanto utili al mercato del lavoro quanto “spendibili” sui social.
Posto che tutti abbiamo bisogno di essere apprezzati e riconosciuti dagli altri, e di avere un ruolo definito in società, quando questi bisogni diventano gli unici scopi della vita, per i quali siamo disposti a distaccarci dalle nostre emozioni reali, forse dovremmo pensare che non ne vale la pena, perché il nostro equilibrio psicologico potrebbe risentirne ogni giorno di più, ed oltre che inefficienti rischiamo di ritrovarci infelici e senza un’identità. Dobbiamo pensare al danno che rechiamo a noi stessi quando, invece di stare in contatto con ciò che sentiamo, fingiamo reazioni, emozioni e sentimenti per esigenze lavorative, per logiche dettate dal capitalismo o per corrispondere a certi modelli di comportamento standardizzati.