Ben fuori tempo massimo, coltivando il mio gusto per l’inattuale – d’altronde qualche vizio bisogna pur concederselo, anche per combattere la fomo – ho recuperato poco tempo fa la lettura di Una vita come tante di Hanya Yanagihara, un romanzo corale intriso di dolore, che ha continuato a scandalizzare e a far discutere per tutti questi anni, tra amore e odio, attrazione e repulsione. Uno dei temi su cui la mia mente continuava a tornare, però, non era tanto quello della sofferenza fisica e psicologica, molto presente nel libro, ma quello dell’amicizia, un sentimento fatto di comportamenti che danno vita a una fitta trama relazionale, molto concreta e ben poco ideale, che ricorda quasi la fibra di una foglia di fico d’india essiccata, o arsa da un incendio, perfetta restituzione formale dei legami che ci segnano e ci insegnano.
Quello mostrato nel libro è un affetto svincolato da legami di sangue, germinato e cresciuto in età adulta, imperfetto eppure alimentato dal costante impegno a fare e ad essere meglio, che non prevede nulla in cambio, basato su valori che oggi sembrano lontani anni luce dalle forze che guidano le nostre relazioni: tornaconto personale, noia, sopravvivenza, vanità. Un affetto che appare essere frutto di un’educazione profonda alla vita, tutt’altro che “naturale” – a differenza del male, che invece si manifesta in tutto lo spettro che parte dall’istinto fisico più brutale alla raffinata tessitura di una malevola strategia manipolatoria e razionale. Ecco, l’affetto – e l’amicizia in particolare, perché per costituzione scissa da qualsiasi fine e forma, a differenza dell’amore erotico e sentimentale – sembra trovarsi tutto nella parte più artificiale della nostra vita, essere il risultato di valori trasmessi di essere umano in essere umano, di maestro in allievo, inoculati con cura, di un certo tipo di educazione e di conseguenza di esercizio. Potremmo quindi dire che oggi l’amicizia, disinteressata, sia davvero una delle più alte forme di cultura, anzi, per il discorso fatto fin qui di controcultura.
Oggi, l’amicizia – che comunque sembra in via di estinzione secondo i dati – è diventata sostanzialmente una condivisione di interessi – sportivi, musicali, letterari, gastronomici, lavorativi. L’amicizia è quindi parcellizzata a un luogo, un tempo e a un’attività determinati, che vanno di pari passo alla micro-parcellizzazione dei nostri interessi. Non ha senso quindi stupirsi o rimanere delusi quando questi amici – con cui alla fine facciamo solo tante cose belle e divertenti insieme – spariscono nel fantomatico momento del bisogno, del dolore, della sfortuna, della malattia. La risposta è semplice: spariscono perché non erano amici, ma persone con cui condivideremo momenti piacevoli, tempi vuoti, attività obbligate o distrazioni, e che – mi verrebbe da dire anche giustamente – se hanno piacere ad accompagnarci a un concerto o a un festival, non è detto abbiano altrettanta voglia di sciropparsi i nostri lamenti, i nostri silenzi, le nostre bad vibes, i nostri lutti, in un periodo storico già sufficientemente faticoso e complesso. Così come non è detto abbiano tempo o energie per aiutarci concretamente a tirarci fuori da un baratro o ad aiutarci a conseguire un traguardo per cui un passo prima sembriamo aver consumato tutte le energie. L’amicizia non si fonda più su questa tacita promessa, anzi, non si fonda più su nulla che non sia il piacere. Oggi il piacere dell’amicizia – sintetizzando – è il non far le cose da soli, ma allora non si tratta di amicizia, ma di paura della solitudine.
L’amicizia, però, non è semplice condivisione di interessi, ma tempo speso insieme, in qualsiasi condizione. E l’amicizia è fondamentale perché – in questi tempi di crisi dei rapporti – ci dà un profondo senso di sicurezza: perché l’amico è stabile per definizione, affidabile. L’amico è colui che c’è, e che tornerà, che ci permette di confrontarci e confortarci. Uno specchio in cui guardarsi e riconoscersi, anche e soprattutto nel cambiamento, positivo o negativo che sia. Ed è in questo porsi uno di fronte all’altro che l’amicizia prende forma, anche e soprattutto nella differenza e nel conflitto, ma anche nell’apertura e nell’accettazione. Oggi, invece, siamo sempre più terrorizzati dal conflitto, quindi evitiamo di dire ciò che pensiamo, o di criticare comportamenti che consideriamo ingiusti o sbagliati per paura di infastidire e perdere le persone che crediamo amiche. A nostra volta, per paura di essere abbandonati, o allontanati, ci nascondiamo, fingiamo di essere qualcosa di diverso per assecondare i desideri degli altri.
I rapporti, anche quando nati da un riconoscimento istintivo e fulmineo, hanno bisogno di tempo per crescere, lo stesso che serve a coltivare le piante, ad addomesticare un animale, a crescere un figlio, a imparare a suonare uno strumento. Il tempo che dedichiamo all’altro non è tempo che sottraiamo a noi stessi. Ma la lentezza non è più di questo mondo, come aveva notato nell’omonimo libro quell’attento osservatore di legami umani che era Milan Kundera. La velocità dei rapporti non ci permette la strutturazione di quel tipo di amicizia trasversale agli eventi e alle fasi della vita. Basti pensare a La luna e i falò, di Cesare Pavese, in cui le vecchie amicizie d’infanzia si fanno esse stesse paesaggio, entità ampie come un ambiente, uno scenario stratificato come i rilievi geologici, che accoglie la nostra identità; o a Un giorno di David Nicholls, o ancora a un altro grande romanzo sull’amicizia, I rondoni, di Fernando Aramburu. Non a caso questi ultimi due libri, così come Una vita come tante, sono lunghi, massivi, corposi, sembrano voler inglobare al loro interno il tempo che le amicizie attraversano.
Le relazioni vengono consumate in maniera sempre più rapida e usa-e-getta, interamente valutate in base alla soddisfazione che possono dare al nostro ego. Per questo, quando questa condizione viene meno – per infiniti motivi – allentiamo il legame, ci allontaniamo, andiamo a cercare questa soddisfazione altrove. Vogliamo avere attenzioni costanti dai nostri amici, non tolleriamo che abbiano qualcosa di più urgente da fare, ci devono curare, intrattenere, considerare. Se non ci danno ciò che gli chiediamo – che pretendiamo – non tolleriamo la frustrazione del desiderio, così ce ne andiamo, guidati dal nostro bisogno ipertrofico, impulso nutrito esponenzialmente anche dalle dinamiche di stimolo della dopamina a cui ci hanno abituato i social, come i ratti drogati nei laboratori – spesso accusando gli altri di poco tatto e distrazione (quando magari stanno stringendo i denti per sopravvivere ed evitare di crollare, senza darlo a vedere, per paura di “disturbare”, o di trasmettere un’immagine di sé che verrà poco apprezzata). Per questo ampliamo sempre di più la nostra rete di “amicizie”, per avere più pulsanti su cui spingere e ottenere la nostra dose di considerazione, attenzione, consenso, rendendo le nostre amicizie sempre più intercambiabili e sostituibili. Come un bambino tiranno con mille seni a disposizione.
Forse questo fraintendimento sull’amicizia è nato, come spesso accade, da un uso lasco e impreciso del termine, che oggi è stato sì ridimensionato, ma a suo modo ha fatto dei danni. I “follower”, infatti, all’inizio erano “amici”. Più amici avevi meglio era. Ma quelli, e non c’era bisogno di una laurea in antropologia per capirlo, non erano ovviamente “amici”, anche se ci siamo abituati a definirli tali. Gli amici non ci seguono, gli amici camminano di fianco a noi. Gli amici-follower sono diventati moneta di scambio, denaro. I social hanno letteralmente monetizzato le amicizie, prima il piccolo patrimonio da cui ciascuno partiva, messo insieme durante le proprie esperienze di vita, e poi un bacino sempre più ampio, diffuso, spersonalizzato. Sembra che oggi abbiamo esteso al qui ed ora le dinamiche delle “amicizie social” che tanto vituperavamo – a volte peraltro ingiustamente. Non voglio essere fraintesa, ho sempre difeso il valore delle amicizie epistolari, e di conseguenza anche delle amicizie virtuali, legami disincarnati principalmente basati sulle parole, ma che come sappiamo possono essere fortissimi. Eppure, nel 1700 come nel 2023, anche questi legami sanno come farsi corpo e presenza. Il legame linguistico può diventare un tensore capace di spostarci, ed è in quell’azione compiuta che riposa l’amicizia, eppure quell’elettricità sembra in esaurimento – anche a causa di metodi di comunicazione interpersonali sempre più esausti, carenza di tempo, di orizzonti, di sogni.
Ci troviamo così da un lato nell’epoca della società liquida, anzi, peggio, particolare. Composta da monadi che si credono slegate da tutto il resto, elementi scissi, separati. Veniamo educati all’importanza del saper stare soli, all’indipendenza assoluta, alla cesura emotiva, a sospettare dell’empatia, a riconoscere i limiti dell’emozione. Coltiviamo capacità di leadership, l’abilità di primeggiare, svettare e dare ordini agli altri, ma se si desidera andare da qualche parte, come ci fanno credere si debba desiderare, è impossibile, nel mondo di oggi più che mai, farlo da soli. Tant’è che le stesse persone che riflettono sulla società neoliberista riconoscono senza mezzi termini il valore fondamentale delle amicizie, della capacità di creare un solido network intorno a sé, al pari di altri risultati valutabili.
Se negli anni Ottanta, al climax della cultura liberale e del capitalismo, così come dell’American dream e del self made man, le amicizie, o meglio, le conoscenze, servivano a creare una rete di contatti capace di ampliare le nostre possibilità sociali, economiche, lavorative, come una parte integrante dell’ascensore sociale, oggi abbiamo fatto tutto il giro e anche l’amicizia viene appunto intesa come capitale, valore di giudizio sulla nostra capacità di eccellere e avere successo all’interno del sistema, un sistema atomizzato, che rende il coltivare amicizie e il farle nascere ancora di più pressoché impossibile, stritolati come siamo dalla vita per tentare di sopravvivere, facendo del nostro meglio. Il nostro sistema economico, con la sua competizione e devozione verso il lavoro, ha distrutto letteralmente il concetto di amicizia, così come quello di ozio, di tempo sprecato, eppure sa che l’amicizia è qualcosa di fondamentale per gli esseri umani e provvede a valutarci considerandola come un indicatore del nostro successo. Così anche i tuoi amici vengono valutati: Hanno una carriera avviata? Sono persone interessanti? Che studi hanno fatto? Sono riusciti a diventare ciò che sognavano di essere? Alcuni gruppi di kundalini yoga o pensiero positivo sostengono che attraiamo ciò che ci meritiamo, i nostri simili. E se non attraiamo nessuno? Tutto e tutti vogliono farci credere che se è così è perché non ci siamo meritati abbastanza di essere amati, che abbiamo sbagliato qualcosa, fatto qualcosa di imperdonabile. Non è così, ovviamente. E questa solitudine colpevole, peccaminosa, uccide. Ingiustamente. Devasta la vita per un’illusione grottesca, uno specchio deformante.
Voglio credere allora che l’amicizia sia qualcosa di incomprensibile e inspiegabile, svincolata dalle ragioni del mondo, dalla luce bianca delle definizioni logiche, forse perché inquadrarle, delinearle e analizzarle mi fa intuire che non ci sia una soluzione efficace alla deriva che abbiamo preso. Vorrei che l’amicizia fosse qualcosa di totalmente slegato dal nostro inquadramento lavorativo, dal nostro curriculum formativo, dalla città in cui siamo nati, dalle scuole che abbiamo frequentato, dalle persone con cui abbiamo fatto sesso o a cui abbiamo fatto dei favori. Vorrei che l’amicizia fosse lo spazio del perdono, in cui ci si può essere sporcati di qualsiasi cosa ed essere toccati lo stesso, l’unico luogo in cui si può essere ciò che si è. Una sorta di spora affettiva, capace di restare dormiente per secoli, per poi risvegliarsi, magari dopo quella che da bambini ci dicevano essere una parola magica – e lo è: “Scusa”.