Lo storico via libera della Camera messicana del 10 marzo alla liberalizzazione della cannabis, anche a uso ricreativo, è stato netto: 316 deputati favorevoli contro 129 contrari. Non si prevedono sorprese dal passaggio del testo modificato in Senato, che l’aveva approvato in prima battuta. Tanto meno si opporrà il presidente Andres Manuel Lopez Obrador chiamato a controfirmarlo, che dall’elezione nel 2018 promette lo stop della Guerra messicana alla droga anche con un cambio radicale di politiche sulle droghe leggere. Benché la “pace subito” annunciata resti lontana, smilitarizzare la lotta al narcotraffico è senza dubbio la direzione giusta da prendere contro la catena di violenze in Messico. Secondo un’analisi del 2020 dell’Agenzia del Congresso degli Stati Uniti per le ricerche, la guerra dell’esercito messicano contro i cartelli della droga ha causato circa 150mila morti dal 2006, l’anno dell’inizio della repressione armata lanciata dall’ex presidente Felipe Calderon e finanziata dal 2008 con i fondi del programma statunitense Merida Initiative. In questo arco temporale risultano scomparsi anche circa 72mila messicani. Un’escalation di sangue che, anche nel 2020, ha fatto registrare in Messico 35.484 omicidi riconducibili ai cartelli della droga.
Sebbene con la legalizzazione delle droghe leggere in diversi Stati statunitensi i cartelli messicani abbiano diversificato le loro attività criminali (dalle estorsioni, ai rapimenti, alla produzione di droghe sintetiche come il fentanyl), il traffico di marijuana alla frontiera con gli Stati Uniti continua a essere una voce importante del loro bilancio. Ancora nel 2020 il maggior quantitativo di droga, circa 264 tonnellate, intercettato dagli agenti doganali della Us Customs and Border Protection era costituito da carichi di marijuana. Si stima che il Sinaloa del Chapo e gli altri sei principali cartelli della droga messicani ricavino dal business della cannabis dalla metà al 20% delle loro entrate: un dato molto variabile perché, con il commercio e l’uso della canapa gradualmente autorizzati, anche per uso ricreativo, in 15 Stati degli Stati Uniti, nell’ultimo decennio gli introiti dei cartelli messicani sarebbero crollati fino al 30% secondo le stime della Rand Corporation. Benché ancora ingenti, i sequestri di marijuana al confine tra Messico e Stati Uniti diminuiscono di anno in anno, a dimostrazione del potenziale della legalizzazione della cannabis contro lo strapotere dei narcos. Per la deputata e attivista LGBTQ+ Lucía Riojas Martínez, famosa in Messico per aver passato in pubblico una canna alla ministra dell’Interno Olga Sánchez Cordero, si tratta di “un passo importante verso la costruzione della pace in un Paese immerso per oltre un decennio in un’assurda guerra”.
Proprio a causa del passato del Messico, la portata della legalizzazione della marijuana è imparagonabile all’impatto che questa misura ha avuto in Canada o nell’Uruguay, altri due Stati che nel continente americano hanno autorizzato la cannabis a livello nazionale anche per scopo ricreativo. Con quasi 130 milioni di abitanti, infatti, lo Stato messicano sarà presto il maggiore mercato al mondo per il consumo lecito (fino a 28 grammi consentiti anziché i 5 attuali, secondo il testo di legge) e per la coltivazione e il commercio di prodotti a base di cannabis certificati. Questo percorso nella legalizzazione delle droghe leggere è senza precedenti anche perché lo impone una sentenza della Corte suprema del 2015, confermata nel 2018, che ha accolto il ricorso della Sociedad Mexicana de Autoconsumo Responsable y Tolerante sul “diritto al libero sviluppo della personalità in base alla dottrina costituzionale”. Nel merito, i giudici messicani hanno svincolato la loro decisione anche dal dibattito sulla salute pubblica e sulle ripercussioni sociali del divieto, riconoscendo come primaria l’argomentazione del diritto fondamentale alla libertà personale nell’uso della cannabis. Un altro inedito, a livello costituzionale, nelle battaglie legali contro la criminalizzazione delle droghe leggere che può costituire un precedente nel mondo.
Come in Messico, dal 2017 l’uso terapeutico del principio attivo della cannabis in quantitativi limitati è già lecito nella maggioranza degli Stati sud-americani, dall’Argentina al Brasile, alla Colombia e, tra gli altri, al Perù. Al pari di alcuni ex capi di Stato messicani, anche degli ex presidenti colombiani e brasiliani sono schierati in favore della legalizzazione. La svolta messicana può quindi innescare una rivoluzione nella lotta alla criminalità organizzata in tutta l’area latino-americana, ed estendersi ben oltre il continente contro le reti transnazionali dei narcos e delle mafie che con loro fanno affari in tutto il mondo. Questo può accadere a condizione che, come chiedono gli attivisti, questa svolta dia un’alternativa legale ai piccoli coltivatori e ai lavoratori alle dipendenze dei narcos. E non mirando, al contrario, a regalare profitti alle grandi società di un comparto che la National Association of the Cannabis Industry stima, soltanto in Messico, avere un potenziale di 5 miliardi di dollari nei prossimi anni. Una ricerca del 2018 del Centro de Investigación y Docencia Económicas messicano (Cide) ricostruisce, infatti, che almeno un terzo degli oltre 13.600 mila detenuti nel Paese negli ultimi anni ha commesso reati legati alla cannabis. Per questo Zafra Snapp, cofondatrice dell’Instituto di ricerca Ria che studia e promuove politiche sociali sulla droga, sottolinea come “il successo della legalizzazione dipenda dal suo focus sulla giustizia sociale. Servono cioè un’amnistia per chi è in carcere per questi reati e coinvolgere i campesinos”.
Un ulteriore passo in questa direzione lo traccia un secondo progetto di legge, in stallo al Senato messicano, sulla depenalizzazione delle coltivazioni di papavero per uso medico proposta dal governatore Héctor Astudillo dello Stato meridionale di Guerrero, dove gli omicidi e la povertà dilagano ed è coltivata la gran parte dell’eroina, anche sintetica, esportata negli Stati Uniti. “Un tema da dibattere e in linea di principio corretto”, anche per l’ex ministro messicano della Difesa, il generale Salvador Cienfuegos. Con il picco dell’abuso di fentanyl e dell’epidemia di eroina negli Stati Uniti, il Messico è balzato al secondo posto nella produzione di oppio dopo l’Afghanistan, secondo i dati del World Drug Report del 2019 dell’Onu, a riprova che spedire per anni l’esercito equipaggiato dagli Stati Uniti (con aiuti per 1,6 miliardi di dollari al 2017) a distruggere le coltivazioni di papaveri e canapa non abbia sortito alcun effetto nel contrasto alla droga. Uno dei punti deboli della legge sulla legalizzazione della cannabis, che si prevede operativa entro il 2022, è per gli attivisti l’obbligo di licenza, attraverso l’iscrizione in un nuovo registro nazionale, dei produttori messicani vincolati a un sistema di certificazione e di verifica delle coltivazioni: un meccanismo soggetto a svariate procedure, anche costose, che può scoraggiare tanti contadini a uscire dall’illegalità.
Si stenta poi a credere che ex presidenti messicani che hanno sempre favorito gli interessi degli Stati Uniti come Vicente Fox, che si è detto pronto a coltivare marijuana del suo ranch, o lo stesso Calderon che ha fatto incarcerare centinaia di migliaia di coltivatori legati ai narcos, siano oggi supporter della legalizzazione mossi dall’ideale di riscattare indigeni e contadini. Sembra più plausibile la prospettiva dei guadagni personali e delle pressioni di compagnie leader nel settore come la canadese Canopy Growth, o la statunitense The Green Organic Dutchman che ha già traslocato in Messico. Per questo è necessario che la legge sulla legalizzazione della cannabis includa gli incentivi sulle licenze ai piccoli produttori chiesti dalla sinistra messicana. Un punto in realtà non ancora definito, perché il tetto del 40% di licenze per le fasce più povere stabilito nella bozza di legge è stato stralciato nel passaggio alla Camera. L’applicazione della futura legge è comunque un terreno ostico per il governo Obrador, chiamato a evitare che attraverso maglie troppo larghe nei controlli i cartelli possano infiltrarsi nel commercio legale delle droghe leggere, utilizzando i campesinos come prestanome.
Al di là di queste problematiche da districare, la sfida contro la criminalità tentata del Messico è un percorso a cui guardare anche per Paesi fisicamente lontani come l’Italia – ma dove gli affari delle mafie si intrecciano con i traffici dei narcos. Anche l’ultimo Libro Bianco sulle Droghe illustra i costi economici e sociali delle politiche proibizioniste nel nostro Paese: dal sovraffollamento cronico delle carceri, alla crescita del consumo e dello spaccio delle droghe pesanti quando si inaspriscono le misure punitive. Emblematico, a riguardo, è l’aumento dei carcerati tossicodipendenti durante l’applicazione della legge Fini-Giovanardi che, tra il 2006 e il 2014, ha abolito la distinzione tra droghe leggere e pesanti. I dati sulle dipendenze raccolti tra il 2003 e il 2015 dal Cnr per il monitoraggio europeo Espad mostrano anche “una riduzione del consumo di cannabis proprio negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore della legge Fini-Giovanardi, con il contestuale aumento del consumo di altre sostanze”. Rischiando le stesse pene che per la marijuana, nella sostanza gli spacciatori vendono in strada più eroina e droghe sintetiche: seppur in misura minore, anche in Italia la stretta sulla droga ha finito per rafforzare le mafie. In più occasioni, anche il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho ha dichiarato che legalizzare le droghe leggere “sottrarrebbe terreno al traffico internazionale” permettendo alla magistratura italiana di “concentrarsi sul livello alto delle organizzazioni criminali”.
Sentito in commissione Giustizia alla Camera, in merito alle proposte di legge sugli stupefacenti di lieve entità, De Raho ha auspicato un intervento per aggiornare le leggi in vigore, commentando che “certamente con la liberalizzazione delle droghe leggere si toglierebbe una fetta di mercato alla criminalità organizzata”. Il magistrato ha precisato che la questione è “molto complessa”, e – coinvolgendo anche il consumo di droghe tra i più giovani – debba essere “affrontata guardandone tutti gli aspetti” in modo da trovare un equilibrio. Sul fronte investigativo, in particolare, “ampliare i casi di arresto in relazione a coloro che fanno parte della filiera a un livello più basso potrebbe comportare una sottrazione di risorse per quello che invece è il compito più difficile e significativo”, ovvero “individuare le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico”. Secondo uno studio dell’Università di Messina, lo Stato potrebbe risparmiare oltre 540 milioni di euro in spese carcerarie e quasi 230 milioni in azioni di pubblica sicurezza, incassando fino a sei miliardi di gettito fiscale dalla liberalizzazione di droghe leggere come la cannabis.
Il cambio di visione avviato con coraggio in Messico è il risultato di un esperimento innovativo nel contrasto alle caratteristiche comuni che favoriscono il potere e il mercato delle mafie in tutto il mondo, una rete che si estende ben oltre l’America Latina, minando lo sviluppo delle società e delle loro economie legali, al punto da mettere in pericolo la dignità, e spesso la vita stessa, di milioni di persone in tutto il Pianeta.