Il calcio femminile va valorizzato al pari di quello maschile. Vittorie e successi ne sono conferma. - THE VISION

Tra i pregiudizi più difficili da estirpare dalle nostre abitudini di pensiero c’è quello per cui tendiamo ad appellarci a una sorta di istinto “naturale”, una componente innata che dovrebbe determinare le nostre caratteristiche personali e addirittura alcuni dei nostri comportamenti a partire dai cromosomi sessuali presenti nelle nostre cellule. Anche quando non cadiamo nelle stereotipizzazioni più banali, come attribuire alle donne l’incapacità di orientarsi; o affibbiare agli uomini una scarsa attitudine al multitasking, siamo infatti portati a descrivere i generi per differenza, più che per affinità – quando invece le somiglianze da prendere in considerazione sarebbero molte. Ancor di più, fatichiamo ad accettare che le nostre caratteristiche psicologiche e comportamentali derivino da un incontro di variabili ben più complesso, stratificato e imprevedibile di un semplice dato biologico, da cui non potremmo mai ricevere una risposta soddisfacente sull’insieme delle qualità che ci rendono chi siamo, o sul perché abbiamo sviluppato una passione piuttosto che un’altra – anche se magari ci era stato insegnato che questa non fosse esattamente adatta a noi.

Questa logica fuorviante, che estende impropriamente delle differenze biologiche ad altre dimensioni della nostra identità con cui esse non hanno nulla a che vedere, contribuisce in larga parte ad alimentare gli stereotipi di genere, soprattutto per quanto riguarda determinati aspetti della nostra vita. Ma è proprio da quei terreni maggiormente attraversati dal pregiudizio che scaturiscono dei tentativi di sovversione per ottenere il raggiungimento dell’uguaglianza e della parità – ideale ed effettiva – tra uomini e donne. Nel calcio femminile, le istanze mosse dalle atlete negli ultimi anni hanno innescato proprio questo tipo di trasformazione, scardinando i meccanismi di un sistema consolidato, soprattutto per quanto riguarda le sue iniquità, perché considerato di esclusivo dominio maschile.

Se questo preconcetto riguarda l’ambito sportivo in generale, come attestato da un recente report dell’Osservatorio sullo Sport System Italiano, secondo cui gli ostacoli sociali e le disuguaglianze di genere sono il primo motivo che porta le donne ad abbandonare lo sport – tanto che in Italia soltanto il 37% delle ragazze maggiorenni ne pratica uno, circa la metà rispetto alla controparte maschile –, esso viene ulteriormente rafforzato quando si parla di calcio, una disciplina considerata “roba da uomini”, sia dal punto di vista di chi lo gioca sul campo, sia per quanto riguarda gli spettatori negli stadi. A partire dai Mondiali femminili del 2019, l’ottava edizione ufficiale della competizione tenutasi in Francia, però, anche le imprese sportive delle calciatrici hanno acquisito sempre più successo e visibilità mediatica, soprattutto per l’abilità che queste hanno dimostrato nel veicolare tematiche fondamentali dal punto di vista politico e sociale, rendendole parte integrante della performance sportiva, dell’adrenalina, dello spettacolo di cui erano protagoniste.

Una forte componente di attivismo, infatti, è da sempre presente nello sport, che essendo una ritualità collettiva, capace di raccogliere un gran numero di persone attorno a eventi come le gare o le partite più attese, diventa anche una potente cassa di risonanza utilizzata dagli atleti per sensibilizzare il pubblico su determinate questioni di attualità, soprattutto se li riguardano in prima persona. Basta pensare a gesti rivoluzionari entrati nella storia, come il Black Power salute fatto dai velocisti afroamericani Tommie Smith e John Carlos sul podio delle Olimpiadi del 1968 in Messico; o alla battaglia della tennista statunitense Billie Jean King, che già negli anni Settanta si era schierata in difesa dei diritti delle donne e della comunità LGBTQ+. Questo animo militante insito nell’attività sportiva, che oggi continua a essere glorificato quando si tratta di calciatori maschi, non viene però riconosciuto allo stesso modo alle atlete donne, la cui attenzione nei confronti di alcuni imprescindibili temi di uguaglianza viene invece percepita molto spesso come una sorta di “rattoppo”, una strategia di compensazione utile a sopperire a delle mancanze dal punto di vista agonistico, strettamente sportivo, che renderebbero le competizioni femminili “meno interessanti” di quelle maschili, e dunque bisognose di un elemento culturale più impegnato a cui allacciarsi per far parlare di sé.

Billie Jean King

A minare questo pregiudizio, che priva il calcio femminile del suo valore intrinseco, mettendolo in una posizione subalterna rispetto a quello maschile, è stata proprio la narrazione che le calciatrici hanno fatto dell’ultimo Mondiale attraverso i loro social e i canali di comunicazione di cui disponevano. Pur mantenendosi concentrate sulle rivendicazioni sociali e politiche, infatti, le atlete sono riuscite ad ampliare la prospettiva sulla loro professione, trasmettendo al pubblico una serie di suggestioni emotive che spesso tendiamo ad allontanare dalla nostra visione stereotipata della femminilità. Sui canali social della nazionale italiana – che a ridosso dell’evento hanno visto crescere enormemente il loro seguito su Twitter (da 1700 a 19mila follower), Facebook (da poco più di 12mila a 69mila) e su Instagram (da settemila a 103mila) – si è infatti parlato di sana, ma sicuramente accesa, competizione, della rabbia bruciante che segue una partita persa, della sensazione di invincibilità che si prova segnando l’ultimo rigore: emozioni intense e aggressive, che tendono a essere inibite o epurate dalle rappresentazioni standardizzate della figura femminile, ma che invece sono esattamente quelle che creano un forte senso di appartenenza tra i tifosi o gli appassionati di uno sport.

Questo racconto reale, vissuto, dell’esperienza sportiva ha avvicinato le atlete al pubblico creando tra le due parti un’inedita empatia ed è riuscito così a generare una vera e propria interferenza nella percezione comune della disciplina, rendendo il Mondiale un “argomento da bar” – nel senso più positivo del termine –, anche perché all’intensità della narrazione fatta dalle giocatrici è corrisposta la qualità del gioco in campo. Dai 740 milioni di spettatori registrati nell’edizione precedente, si è infatti arrivati a sfiorare il miliardo di persone sintonizzate sulla competizione, con la concreta speranza di aumentare ulteriormente la visibilità per l’evento di quest’anno, che si svolgerà in Australia e Nuova Zelanda tra poche settimane.

Il modo diretto e spontaneo con cui figure come Megan Rapinoe, Vivianne Miedema, Wendie Renard o l’italiana Barbara Bonansea hanno rappresentato l’esperienza del mondiale e il loro rapporto con il calcio, comportandosi esattamente come i loro colleghi uomini e soprattutto descrivendo le loro stesse emozioni, ha dunque provato quanto il pubblico per seguire uno sport abbia bisogno non solo di informazioni, ma anche di storie individuali, racconti impossibili da incasellare in qualsiasi stereotipizzazione. Sono questi, infatti, che hanno permesso alle atlete donne di parlare realmente di sé, dimostrando di vivere e giocare il calcio come gli uomini e trattando così anche argomenti quali la disparità di genere o l’emancipazione femminile attraverso la loro sensibilità personale, senza passare per narrazioni preconfezionate, che sarebbero rimaste inevitabilmente lontane dall’interesse dei loro interlocutori.

Il progressivo “avvicinamento” delle calciatrici al pubblico lo ha infatti spinto a partecipare anche le loro battaglie in maniera più sentita. Così, all’ampliamento della platea di spettatori e alla maggiore presa sulla loro attenzione è corrisposta anche una mobilitazione attiva e a più livelli su temi quali il professionismo – che alle calciatrici italiane è stato riconosciuto solo ad aprile dello scorso anno, e che molte altre atlete (e atleti) ancora non hanno – o la disparità salariale – che negli Stati Uniti, per esempio, è stata definitivamente appianata rispetto agli atleti uomini a febbraio 2023. Nonostante ci sia ancora molto da lavorare su questi aspetti, soprattutto perché i progressi in termini di parità non sono stati fatti simultaneamente in tutti i Paesi – e infatti in Italia in gender pay gap, anche nel calcio, rappresenta ancora un divario profondo – i primi effetti positivi in ambito calcistico sembrano poter dare origine a un movimento più ampio, che coinvolga lo sport in generale, ma anche la stessa società, soprattutto per quanto riguarda la percezione della figura femminile nell’immaginario collettivo.

Barbara Bonansea

In un contesto sociale in cui i pregiudizi nei confronti delle donne sono tuttora radicatissimi, e hanno dirette conseguenze sulle disuguaglianze reali che segnano il rapporto tra i generi, è infatti necessario formulare delle narrazioni del femminile che fuggano dai nostri automatismi di pensiero, indebolendoli fino a interrompere il loro replicarsi. Da questo punto di vista lo sport può essere un importante veicolo di emancipazione, perché promuove valori di inclusione, cooperazione e rispetto tra pari, oltre a permettere di associare anche le donne a una sfera emotiva che spesso viene loro preclusa, o che non sono state educate a coltivare: quella della combattività, della determinazione e di tutti gli impulsi che l’attività sportiva scarica nel mondo passando per il corpo. Seguendo la direzione tracciata dalle atlete del calcio femminile, si può pensare di estendere sul piano sociale un’immagine di femminilità diversa e per certi aspetti rivoluzionaria, che parla per il singolo soggetto e non per una supposta categoria, in modo tale che questa non finisca per rappresentare una gabbia, e che valorizzi dunque le caratteristiche individuali di ogni donna – anche dando la possibilità a ciascuna di scoprire ed esplorare le proprie liberamente –, senza partire per forza di cose da un paragone con le altre o da un confronto che sottolinea le differenze con il maschile. Per raggiungere un’uguaglianza effettiva tra i generi, che si traduca in un trattamento paritario, dobbiamo infatti sganciare prima i nostri pensieri e poi il nostro modo di muoverci nella realtà dall’ansia di tracciare confini e distinzioni, spostando l’attenzione sugli elementi che invece ci rendono più simili di quanto immaginavamo. E le emozioni provate durante una partita decisiva, sono indubbiamente tra questi.


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