Il 18 giugno si è spento nel Nord del Brasile, a causa del COVID, uno dei capi indigeni più famosi al mondo, leader dagli anni Ottanta di grandi battaglie per preservare l’habitat dell’Amazzonia. Si stimava che Paulinho Paiakan avesse circa 65 anni, aveva combattuto contro il progetto della terza diga idroelettrica più grande al mondo, quella di Belo Monte sul fiume Xingu (costruzione poi solo in parte modificata e inaugurata nel 2016), e contro i taglialegna e le miniere illegali. Al suo fianco si era schierato anche Sting. Oggi figura tra le centinaia di nativi della foresta pluviale che in questi mesi non sono sopravvissuti alla pandemia, secondo le informazioni del Coordinamento delle organizzazioni indigene di tutta conca amazzonica (Coica) già più di 500 alla fine di maggio. Alla notizia della morte di Paiakan l’Associazione dei popoli indigeni del Brasile lo ha definito un “padre, un leader e un guerriero degli indios e per l’ambiente” e l’ong Planète Amazone lo ricorda come “una guida preziosa” che “aveva speso tutta la vita a costruire alleanze nel mondo per salvare l’Amazzonia”.
Paiakan purtroppo non è l’unico custode della foresta ad averci lasciato. Con l’epidemia stanno scomparendo decine di anziani indios, depositari dei valori e delle tradizioni di civiltà millenarie, e veri e propri presidi di un habitat dall’altissima e unica biodiversità, fondamentale per il pianeta. Il 30 aprile scorso, dopo essere stato ricoverato per sintomi riconducibili al coronavirus, è morto in Colombia, a 75 anni, anche l’indigeno Antonio Bolivar, tra gli ultimi viventi della tribù sterminata degli ocaina. Un vero e proprio idolo tra gli indios grazie anche all’interpretazione, nel 2016, dello sciamano protagonista del film L’abbraccio del serpente, premiato a Cannes e prima pellicola colombiana nominata agli Oscar. Nella storia Bolivar, ricordato dal New Yorker, impersonava l’unico superstite della tribù alle aggressioni dei colonizzatori, e da anziano aiutava due esploratori occidentali a trovare piante officinali rare. Una trama davvero simile alla sua vita, perché anche Bolivar, pur avendo negli anni disimparato la lingua nativa, manteneva intatte tutte le sue conoscenze botaniche e continuava a parlare agli alberi e ai fiumi. A Cannes aveva chiesto “al mondo di smettere di pompare petrolio dall’Amazzonia”.
Oggi, dei circa 2mila appartenenti che i ricercatori stimavano, gli ocaina sono rimasti in meno di duecento insediati in Colombia lungo il fiume Igara-Paraná e altri duecento nel Nord del Perù: nuclei di poche famiglie con pochissimi bambini ai quali tramandare la lingua e i costumi. La loro persecuzione, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, fu tra le più dure: gli occidentali delle compagnie della gomma entrati in Amazzonia per estrarre caucciù li torturavano e chi non si piegava alla schiavitù veniva ucciso. I missionari cristiani disposti a “salvarli” li forzavano alla conversione dalle loro credenze animiste e per sopravvivere, gli ocaina e altre tribù di indios si frazionarono in nuove sottotribù, migrando in zone remote lungo i fiumi minori, sempre più isolate da qualsiasi contatto esterno. È su queste piccole comunità indifese che si accanisce oggi il coronavirus. La tribù con il più alto tasso di infezione (46%, secondo i dati forniti dalle amministrazioni locali) di cui si abbia notizia nell’Amazzonia brasiliana è quella dei 121 arara della riserva Cachoeira Seca, venuti per la prima volta a contatto con gli stranieri nel 1987. Una comunità priva di anticorpi, estremamente vulnerabile alle malattie.
Una ricerca, pubblicata il 19 giugno dal Coordinamento delle organizzazioni indigene dell’Amazzonia brasiliana (Coiab) evidenzia come il tasso di mortalità (cioè di morti tra la popolazione ogni 100 mila gli abitanti) per coronavirus tra gli indios sia superiore del 150% rispetto alla media brasiliana, e quello di letalità (cioè di morti tra il totale dei contagiati) del 6,8% rispetto a una media brasiliana del 5%. Sono dati che tra l’altro non tengono conto delle migliaia di nativi della giungla trapiantati nelle città, non più classificati dai governi come indigeni: una parte che sarebbe invece molto rilevante per le statistiche sulla pandemia, considerato che Manaus, capitale dell’Amazzonia brasiliana con oltre due milioni di abitanti, è da metà marzo uno degli epicentri dell’epidemia in America Latina, con centinaia di morti al giorno sepolti in fosse comuni, e che un altro dei focolai più virulenti è il capoluogo dell’Amazzonia peruviana Iquitos. Le associazioni per i diritti degli indigeni del Coiab segnalano che i decessi loro comunicati sono “molto al di sotto dei reali, a causa dell’elevata sottostima della malattia e anche dell’incapacità dello Stato di seguire i contagi tra indigeni in contesti urbani”.
Soprattutto dal Brasile – dove il presidente Jair Bolsonaro si ostina a definire il coronavirus “un’influenza di poco conto” – ottenere dati attendibili sul totale dei contagiati e dei morti, e anche sulla loro etnia, appare impossibile. Nulla si sa neanche sullo stato di salute delle decine di migliaia di indios dell’Amazzonia venezuelana, che ufficialmente ha un bilancio governativo poco credibile di poco più di 4mila casi e 35 morti in tutto il Paese. Una mappatura della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam) che fa affidamento su un migliaio di associazioni umanitarie in nove stati della foresta, realizzata in collaborazione con la Coica, ha ricostruito che già alla metà di maggio il COVID-19 si era diffuso tra almeno 33 tra i circa 400 diversi gruppi etnici nativi della grande regione della foresta equatoriale, per lo più in piccole tribù già decimate nel corso dei secoli. Ma purtroppo l’estinzione degli ultimi indios non interessa certo ai governi suprematisti come quello di Bolsonaro, ed è tenuta nascosta all’opinione pubblica dai regimi.
Anche le morti dei nativi per coronavirus resteranno così per la gran parte anonime e invisibili come lo erano prima le loro vite: una strage silenziosa che, come durante le colonizzazioni, non fa rumore. Il coordinatore della Coica, José Gregorio Díaz Mirabal, wakuenai curipaco venezuelano, chiede aiuto per la “grave situazione” nella regione dell’Amazzonia, dove si rischia un “nuovo genocidio di intere culture”. Alle ragioni della vulnerabilità degli indios, ancora troppo spesso imputata a motivazioni antropologiche come i costumi ancestrali e la debolezza fisica per lo stato di isolamento, sarebbe fondamentale aggiungere le continue e pesanti discriminazioni subite nel corso della Storia fino a oggi. Non a caso, per lo stesso trattamento ricevuto nei secoli, i circa 174mila indiani navajos segregati negli Stati Uniti tra l’Arizona, il Nuovo Messico e lo Utah, condividono con gli indios lo stesso record di incidenza pro-capite di infezioni da COVID-19: la più alta (336 morti e 7.088 casi confermati nella comunità al 23 giugno, su una popolazione totale di meno di 174mila abitanti) rilevata negli Usa ogni 100mila abitanti, un tasso che a maggio ha superato quello degli Stati più colpiti di New York e del New Jersey.
Nella riserva dei navajos c’era una grave carenza di servizi e di strutture sanitarie già prima dell’epidemia e i loro territori sono stati tra gli ultimi a ricevere i pochi fondi dell’amministrazione Trump per l’emergenza sanitaria: respiratori, mascherine e altre protezioni sono mancate per settimane. Allo stesso modo in Venezuela, da anni senza di medicine e con le risorse statali prosciugate per le pesantissime sanzioni americane ed europee, si stava registrando tra gli indios un’ondata di malattie già prima del coronavirus. Allo stesso modo nell’Amazzonia gli arara lamentano all’Ong Survival International di non avere ancora ricevuto “medicine né respiratori nei villaggi distanti giorni di viaggio dalle città”, dove gli ospedali di Manaus e Iquitos sono subito collassati per la pandemia. Il segretario della rete Repam, Mauricio López Oropeza, fa notare che la mortalità per il COVID-19 tra gli indigeni è “molto più alta per una protezione immunologica inferiore, ma anche per un minore accesso al sistema sanitario e perché in molti modi abbandonati dallo Stato”.
In Brasile, poi, l’amministrazione Bolsonaro ha risparmiato massicciamente sul welfare, smantellando anche i presidi sanitari che i governi socialisti di Lula e Rousseff stavano estendendo tra le favelas e nelle aree indigene, grazie a un accordo con circa 8mila medici cubani, che dal 2019 sono stati in gran parte rispediti all’Avana. Contemporaneamente il nuovo presidente dell’estrema destra sta aggredendo l’habitat dell’Amazzonia, con politiche devastanti per l’ambiente mirate unicamente a sfruttarne le risorse. Nel suo appello per la “sopravvivenza delle comunità indigene dal genocidio” il famoso fotoreporter Sebastião Salgado denuncia “il taglio dei fondi all’Agenzia brasiliana dell’Ambiente destinati alla tutela del territorio indigeno e contro la deforestazione selvaggia” e la nuova “invasione di cercatori d’oro, minatori e tagliaboschi”. L’Istituto nazionale brasiliano per la ricerca spaziale (Inpe) registra che tra gennaio e aprile 2020 la deforestazione dell’Amazzonia sia continuata a crescere vertiginosamente raggiungendo un aumento del 55%.
Anche gli arara e le altre tribù tornano oggi a puntare il dito contro gli “invasori stranieri”, predatori che portano il COVID-19 tra loro e distruggono un ecosistema che si stima produca da solo circa il 10% dell’ossigeno nell’atmosfera, grazie a un serbatoio unico di organismi vegetali – oltre 16mila specie di piante, tra cui oltre 390 miliardi di alberi – capace di assorbire dai 90 ai 140 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. La deforestazione selvaggia della foresta pluviale più grande del mondo fa sì, tra le altre cose, che tutte queste emissioni dannose si disperdano nell’ambiente con la decomposizione delle piante abbattute o bruciate, contribuendo ad accelerare i cambiamenti climatici in corso. Oggi l’equilibrio del pianeta è regolato più che mai dall’Amazzonia e il nostro stesso ossigeno dipende dalla sua salute. “Senza gli indios, suoi guardiani”, avverte il wakuenai Díaz Mirabal come portavoce delle organizzazioni indigene nella Coica, “l’Amazzonia è in pericolo”, e noi con lei.