Nel documentario del 2009 Videocracy, diretto da Erik Gandini, il regista del Grande Fratello Fabio Calvi dice che il flusso delle immagini della televisione di Berlusconi è lo specchio della personalità del presidente, una proiezione della sua mente, dei suoi sogni. Quello specchio – dove si riflettono donne dalle gambe chilometriche, soldi a non finire, opportunità per tutti – è diventato rapidamente anche l’immaginario degli italiani. Per i millennial, cresciuti con Bim Bum Bam e abituati a vedere donne sculettare in perizoma mentre cenano durante il game show preserale, Berlusconi è l’incarnazione della propria infanzia, una specie di daimon che si è inserito nelle nostre vite. Per chi è nato troppo tardi per seguirne – e apprezzarne? – l’ascesa e ricordare una vita senza Berlusconi, la sua morte rappresenta la cesura definitiva con il passato, il tramonto dell’etica e dell’estetica che hanno plasmato fantasie, desideri e aspirazioni.
La morte di Berlusconi è già un meme, perché i meme sono la modalità con cui i millennial elaborano la propria critica del presente, spesso ricorrendo al dispositivo della nostalgia. In questo caso però la nostalgia non sembra essere esclusivamente finalizzata a una rivalutazione positiva, come succede nel caso dei nostalgici del fascismo, piuttosto a una sorta di tentativo di non lasciare andare del tutto un passato che, per quanto disastroso, è comunque preferibile all’accelerazione e all’incomprensibilità dei tempi che stiamo vivendo.
La memificazione di Berlusconi è cominciata nel 2017, quando l’ex presidente fu immortalato mentre allattava un agnellino con un biberon nella sua villa di Arcore. Poi fu la volta di Berlusconi che fa capolino negli studi di Porta a Porta, di Berlusconi con gli occhiali da sole al Senato, di Berlusconi che fa la conta con le dita mentre Salvini legge un comunicato dopo le consultazioni con Mattarella. Una proliferazione di nuove icone per un uomo che è sempre stato iconico, anche nella sua plasticità, nei suoi outfit (indimenticabile la bandana in Costa Smeralda), nella sua gestualità, nei mille “personaggi” da lui interpretati poi diventati ancora più memorabili grazie alle imitazioni della tv di Guzzanti. Allora si parlò di “Berluscuteness”, un processo al quale partecipò anche il mitico barboncino Dudù e che fu letto come una “normalizzazione”, se non come una riabilitazione, della figura del Cavaliere per creare appeal fra i giovani.
Ma Berlusconi non aveva bisogno di parlare ai millennial, perché i millennial sanno benissimo chi è. Berlusconi ha accompagnato tutta la nostra infanzia e la prima adolescenza, bucando la sfera dell’innocenza e riuscendo ad arrivare anche ai bambini. Il nostro immaginario infantile è stato colonizzato dalla sua televisione, ma anche dalle altre imprese del cavaliere: il Milan, naturalmente, ma anche le pubblicità dei giocattoli. Berlusconi aveva capito sin da subito il potenziale politico dei bambini: rivoluzionò l’intrattenimento per l’infanzia e investì nel settore dei giocattoli, diventando socio di Enrico Preziosi, fondatore della Giochi Preziosi. Anche quando finì l’alleanza imprenditoriale, i prodotti del marchio continuarono ad avere ampi spazi pubblicitari sulle reti Mediaset.
Forse la Berluscuteness più che i millennial aveva come target la Gen Z che è troppo giovane per ricordarsi di lui e che infatti lo ama particolarmente, più come personaggio al confine del trash che come politico (Forza Italia è stato votato dal 7,5% dei 18-24enni alle ultime politiche). Sta di fatto che la proiezione della mente berlusconiana che si incarnava giorno dopo giorno negli studi Mediaset ha colonizzato le nostre teste, contribuendo a creare l’illusione di un benessere continuo, di un piacere senza fine, di un mondo in cui tutti i sogni diventano realtà. Non solo per gli adulti che potevano identificarsi in Berlusconi stesso e nel suo stile di vita, ma anche per quei bambini che da grandi volevano diventare veline e calciatori, avviluppati dalla fanfara del libero mercato e del sogno europeo. La generazione dei millennial occidentali è cresciuta con la convinzione di vivere nel migliore dei mondi possibili, con la promessa che se ti impegni abbastanza (e meglio ancora se hai qualche santo in paradiso), puoi ottenere tutto ciò che desideri. La caduta di Berlusconi nel 2010 – coincidente con la crisi economica più grave degli ultimi ottant’anni – ha rappresentato per molti la fine delle illusioni. Crescendo e affacciandoci alla maturità, abbiamo scoperto che tutte quelle promesse che ci avevano fatto erano inconsistenti, che il futuro che ci aspettava non era fatto di benessere e felicità, ma di precarietà e incertezza.
Berlusconi è però riuscito a mantenersi a galla nelle nostre teste, tanto che l’abbiamo recuperato volentieri quando è diventato un meme. Non augurandoci che tornasse a essere il nostro presidente, ma aggrappandoci a questa figura che aveva infestato le nostre vite, popolandole di motivetti pubblicitari assillanti, personaggi trash che oggi vivono di comparsate in discoteca e calcolatrici per convertire le lire in euro e viceversa.
Il rischio maggiore è che l’effetto nostalgia prevalga sull’analisi politica dei molti mali causati da Berlusconi a questo Paese. Tra cui uno particolarmente subdolo e duraturo verso i millennial, perché ha toccato un livello psichico inconscio. Alle ragazze nello specifico, cresciute con standard di bellezza irraggiungibili e con un’insistenza ossessiva sul valore oggettuale del nostro corpo, abituate a vedersi carne per compiacere lo sguardo maschile, messe in competizione perenne le une contro le altre in reality show e programmi trash, in linea con quanto stava succedendo nella cultura di massa americana. Visto oggi, il documentario di Lorella Zanardo sulla donna nella tv berlusconiana, Il corpo delle donne sembra un’allucinazione collettiva. Eppure, quelle immagini di donne bellissime vestite in tute in latex alle sette di sera, nude chiuse in una gabbia, spinte a spogliarsi come premio, sono le immagini che hanno costituito un modello di femminilità – spesso l’unico possibile o comunque il più socialmente diffuso – per almeno tutta la nostra infanzia.
Negli anni dell’anti-berlusconismo, il movimento femminista si era scagliato non solo contro quelle immagini, ma anche contro le stesse donne che si erano prestate a produrle. Nel femminismo attuale, il rifiuto della sessuofobia ha finito per prevalere, forse anche perché le millennial che lo animano sono come anestetizzate da quell’immaginario. Da bambine magari desideravano loro stesse diventare veline, letterine, paperine e l’idea che il proprio corpo sia l’unico bene possibile l’hanno interiorizzata e ci fanno i conti ancora adesso, sentendo più solidarietà che condanna nei confronti delle donne della tv berlusconiana.
Ciò che ha fatto Berlusconi alla nostra generazione è averci dato un’idea di mondo estremamente convincente, perché veniva propinata con insistenza ovunque. Non soltanto tramite i contenuti, ma anche e forse soprattutto attraverso i modi, la forma. Per i venti-trentenni, che non hanno fatto in tempo a partecipare al G8 di Genova e che hanno vissuto la propria maturazione politica con la crisi del 2008 e con l’ascesa del populismo, Berlusconi ha rappresentato la fine dell’impegno politico, la resa di fronte all’esistente. È un televisore rotto che trasmette sempre la stessa trasmissione: quella di un uomo ricco e potente che assiste alla distruzione del nostro futuro con un sorriso stampato sulle labbra, animato da un giovanilismo esasperante, un “ragazzo un po’ stagionato ma con il cuore sempre giovane”, convinto che la sua storia di successo individuale potesse essere replicata su un intero Paese.