L’altro giorno, leggendo i commenti a un post sulla notizia dell’aeroporto Malpensa intitolato a Silvio Berlusconi, ho trovato uno scambio di battute che mi ha fatto riflettere. Un utente ha commentato domandandosi come si possa intitolare un aeroporto a un condannato per frode fiscale, con ritenuti contatti con esponenti di Cosa Nostra. Un altro utente, bandiera italiana come foto profilo, gli ha risposto: “Pensa a Ilaria Salis, comunista”. Il discorso è ovviamente degenerato, con decine di persone arrivate a insultarsi le madri e via dicendo, ma per un momento ho provato a concentrarmi sulla risposta che ha causato il caos. Ilaria Salis non è mai stata condannata per frode fiscale, non era a conoscenza, ai tempi, dei rapporti di Dell’Utri e, ovviamente, non le hanno mai intitolato un aeroporto. Cosa c’entrasse con Berlusconi e Malpensa non è dato sapersi. Eppure è entrata con prepotenza nel discorso deviandolo, facendo dimenticare agli utenti il tema in questione. Spostare l’attenzione in modo repentino con una fallacia logica nel processo comunicativo è una delle piaghe dei nostri giorni. È il benaltrismo, ovvero la pietra tombale del dibattito pubblico.
In realtà lo stesso termine “benaltrismo” ha subito variazioni nel corso degli anni, mutando in parte il suo significato originario. Inizialmente veniva usato quando, di fronte a un’affermazione, si rispondeva mettendo sul piatto un altro argomento considerato più importante. Della serie “ci sono ben altri problemi”. Un esempio pratico: quando nel 2020 arrivò in aula il ddl Zan, Giorgia Meloni scrisse che invece di combattere un’epidemia la priorità del PD e del M5S era una legge sull’omotransfobia. Questo è il benaltrismo classico, caratterizzato da un pensiero monodimensionale che non prevede l’opzione che più temi vengano affrontati contemporaneamente. Dunque un governo non può agire sul lato sanitario e allo stesso tempo legiferare su altro. In quel caso era un espediente per andare contro un ddl legato a certi diritti civili indigesti alla destra, tentando goffamente di dissimulare l’arretratezza di pensiero. Se i nostri rappresentanti usano certi mezzi, gli stessi cittadini si sentono legittimati a imbracciarli. E così, quando si parlava dello Ius soli, nei bar italiani erano in molti a dire: “E a noi che non arriviamo a fine mese non pensa nessuno?”. Come se i portafogli diventassero ancora più vuoti rendendo italiani dei ragazzini nati e cresciuti in Italia.
Dal benaltrismo classico si è poi passati a una forma ibrida che ha inglobato altri fenomeni con lo stesso fine: spostare l’attenzione dal tema portante. In Italia usiamo il termine benaltrismo anche di fronte alla red herring, l’azione comunicativa per distrarre l’interlocutore e portarlo volontariamente fuori strada. Il termine “aringa rossa” viene dalle vecchie battute di caccia, quando si cercava di creare false piste per portare in una direzione sbagliata i cani degli altri cacciatori. Venivano usate delle aringhe affumicate sul terreno per distrarre i cani. Ecco, l’esempio di Salis e Berlusconi è una red herring: non più “ci sono ben altri problemi”, ma un vero e proprio depistaggio senza alcuna logica o connessione tra i due temi, seguendo quella che in ambito filosofico viene chiamata ignoratio elenchi.
In ambito giornalistico, nei Paesi anglosassoni si è sviluppato il fenomeno del whataboutism, ovvero una declinazione della red herring che contrappone capziosamente due entità, due fazioni politiche, due personaggi, anche quando il discorso non lo richiede. Anche in questo caso in Italia rientra sotto il termine benaltrismo, e può ricondursi sostanzialmente a questo processo: viene indicata per esempio la malefatta del politico Tizio, e l’interlocutore risponderà “e allora Caio?”. Noi abbiamo vissuto un’intera stagione politica basata su “e allora il PD?”, fino a renderlo un meme. Il M5S e le destre erano uniti nella stessa strategia del whataboutism, indottrinando i propri elettori a un linguaggio limitato proprio a livello di capacità argomentativa. Veniva indagato un collaboratore di Virginia Raggi: “E allora il PD?”. Arrestavano un consigliere leghista: “E allora il PD?”. Ripetendo questa domanda come un disco rotto si creava un’assoluzione di massa, la formula magica da usare per spegnere sul nascere qualsiasi discussione. Sui social, con la soglia dell’attenzione sempre più bassa e con gli slogan utilizzati al posto di frasi più articolate, ridurre tutto a quella semplice domanda era diventato l’escamotage perfetto, e ancora oggi ci portiamo dietro il retaggio di quella comunicazione sciatta, semplicistica, volutamente errata nei contenuti. La Lega candida un personaggio come Vannacci, qualche utente temerario prova a spiegare su una pagina leghista come non sia prestigioso avere come potenziale rappresentante un individuo che ha basato la sua fortuna su frasi omofobe e xenofobe. Risposta sui social: “E allora Soumahoro?”. Semplice e indolore; dibattito annullato, le persone non riescono più a confrontarsi e la società si riduce a gruppi elementari.
Uscendo dall’attualità, credo che la madre di tutte le contrapposizioni, lo zenit del whataboutism, sia quella tra fascismo e comunismo. Quando per esempio un politico di destra è chiamato a condannare il fascismo, inevitabilmente trova il modo per aggrovigliare il discorso e mettere dentro anche il comunismo. L’ha fatto la premier Meloni con un discorso in tre lingue in cui ha spiegato come la destra italiana abbia “consegnato il fascismo alla storia ormai da decenni” – falso, è ancora un tratto caratteristico del suo partito, a partire dalle nuove leve – per poi lanciarsi in una condanna “al nazismo e al comunismo”. Eppure, nazismo e comunismo non sono la stessa cosa. Nemmeno fascismo e comunismo, e noi in Italia dovremmo saperlo bene, avendo avuto una nefasta dittatura fascista e mai una comunista. Sempre per il benaltrismo dilagante, i destrorsi citano Stalin, Mao e altri dittatori rossi. L’ennesimo tentativo per sviare il discorso e prendere una tangente che non appartiene al tema centrale. Perché sì, Stalin e compagni sono stati dei criminali, ma in Italia come comunisti e socialisti non abbiamo avuto dei mangiabambini appassionati di gulag, bensì personaggi del calibro di Enrico Berlinguer e Sandro Pertini, mentre il fascismo è stato esclusivamente terrore, oppressione, discriminazione, morte e assenza di libertà.
È dunque pericoloso quando il benaltrismo si addentra nel passato con l’intento di minimizzarlo o di riscriverlo. Leggere le sentenze di Berlusconi e sentire come risposta “è stato un grande imprenditore” non solo lascia attoniti, ma conferisce all’interlocutore un’arma utilizzabile in qualsiasi tipo di discussione, con il rischio di distorcere l’immagine storica di qualsiasi personaggio politico. Ai rimproveri sulle tendenze neofasciste di Meloni, rispondere che è “una mamma e una cristiana” non apporta alla discussione un elemento valido per controbattere alla prima tesi, ma è semmai la pallida imitazione di Meloni stessa che viene fuori da un individuo che non riesce a connettere il punto A con il punto B. Può benissimo essere una mamma e una cristiana cresciuta a pane e Fronte della Gioventù. Eppure, sono tormentoni che si ripetono, specchi a cui aggrapparsi quando non si sa come rispondere nel merito. Abbiamo vissuto l’era di “E i marò?”, di “E le foibe?”, di “Parlateci di Bibbiano”, e lungo il percorso abbiamo smarrito progressivamente la capacità di imbastire una discussione senza tirare in ballo deviazioni estranee a essa.
Se oggi non riusciamo più a confrontarci e il dibattito pubblico è stato mortificato, la colpa non può essere solo del mezzo – ovvero degli schermi dietro cui ci nascondiamo per esprimere le proprie opinioni – ma della carenza di contenuti. Il benaltrismo in tutte le sue forme ha smantellato la cognizione logica necessaria per portare avanti un dialogo ad armi pari. Confrontarsi non è più costruttivo, è ormai una battaglia dove vince il più abile a eludere la tesi e a sgusciare via dagli argomenti spinosi. E questo vale in parlamento come nella più piccola delle piazze, in un talk show come al bancone di un bar. Per riappropriarci del dialogo politico, sociale, civile, è bene riporre in soffitta il benaltrismo, altrimenti tanto vale affidarci a un bot che dia risposte casuali su una chat. Non si noterebbe la differenza nella qualità del dibattito.