Se Balotelli e noi neri dobbiamo meritarci di essere italiani

Sono forte quando si tratta di questioni legate alle migrazioni e all’identità, ma seguo il calcio raramente. Non tifo per nessuna squadra, però, quando inizia la partita, scelgo da che parte stare e passo 90 minuti o più di pura empatia, condividendo l’entusiasmo o il dolore degli altri tifosi.

Per farmi un’idea riguardo a una questione solo apparentemente legata al calcio ma molto più complessa di un semplice problema sportivo di cui si sta discutendo ultimamente ho quindi deciso di chiedere aiuto a due persone più informate di me, una molto diversa dall’altra: mio fratello e il mio migliore amico.

Mio fratello ha diciotto anni, non sempre motivato quando si tratta di scuola, calciatore appassionato, invece, dall’età di 6 anni. Sogna di fare questa professione, è juventino, una volta si è fatto biondo e si è fatto disegnare sul cranio le iniziali di Pogba. Non credo di avergli mai chiesto la sua opinione riguardo a una qualsiasi cosa, quindi dev’essere stato sorpreso ricevendo il mio messaggio vocale: “Ciao Mouhamed, dimmi due cose su Balotelli capitàno. Non fare come al solito, cerca di argomentare un po’”.

Gli è scappato un “grazie”, come se fossi io a fargli il favore di essermi utile, e mi ha risposto con alcuni messaggi vocali particolarmente lunghi per un tipo non esattamente loquace come lui, il cui succo distillato da vari “ehm” è che: gli piacerebbe molto vedere un giocatore nero portare la fascia della nazionale italiana, sarebbe un grande passo per lui e sarebbe molto importante anche per gli immigrati in Italia.

Mio fratello non ne sa molto di questioni sociologiche e antropologiche. Non segue la politica, non legge, non si interroga. Ma è, forse proprio per questo, un’esemplificativa cartina tornasole dei giovani in questa società irreversibilmente “meticcia”. Essere un giovanissimo nero nato e cresciuto in Italia significa, in molti casi, cercare riferimenti all’interno di qualsiasi altra società in cui la tua figura ha un ruolo, qualunque esso sia. Così le nostre città si sono riempite di ragazzi e ragazze swag, che fanno parkour e che camminano sui sanpietrini delle nostre strade con lo spirito che accompagna chi si muove in una banlieue. Usa e Francia quindi, senza dimenticare Uk e Spagna. Tutte realtà in cui, nonostante i conflitti, l’essere un giovane cittadino nero tra altri cittadini bianchi è qualcosa di normalizzato.

Un’esigenza, quella di marciare verso una normalizzazione, che ha espresso lo stesso Balotelli sottolinenando la necessità di integrare i nuovi profili di cittadinanza. Ed è certamente per questo che a sinistra in molti non vedono l’ora che Super Mario possa portare la fascia da capitano e che, a destra, altrettanti guardano a questa possibilità come la fine del mondo così come lo conosciamo.

Ancora una volta, essere neri diventa prima di tutto uno status, un argomento di dibattito, un dato di fatto su cui fondare propagande. Ed è normale: allo stato attuale, non è assolutamente scontato essere dei neri in Italia. Non lo è perché sei al tempo stesso, nonostante la tua personalità, il campo di battaglia di uno sfruttamento economico o ideologico. Essere neri in Italia è una cena a cui non sei invitato: c’è chi serve, c’è chi mangia, tutti parlano dell’ospite ma questo non si vede.

La normalizzazione è l’obiettivo a cui tutti puntiamo, ma va costruita. Non in un’ottica di annullamento del colore, ma in un’ottica di rottura del nesso che lega etnia, nazionalità e cittadinanza. Un lavoro molto difficile in un Paese dove, perché ti venga concessa la cittadinanza, si richiede che diventi abbastanza nazional-popolare e portatore di un’esasperazione degli stereotipi del bravo italiano to be: nero ma che parla in dialetto, nero ma che la domenica mangia il polpettone, nero ma che ha frequentato tutte le scuole in Italia e così via.

Bisogna comprendere che la tua etnia dipende da chi e da dove nasci, che la cittadinanza riguarda il luogo in cui manifesti la tua esistenza ogni giorno, che la nazionalità di una persona è una questione personale e che, a dirla tutta, può anche non sussistere. Si può essere di etnia nera, cittadini italiani, in aperto e costante conflitto con la propria nazionalità.

Io non so se per essere capitani di una Nazionale di calcio sia fondamentalmente un dato livello di senso di appartenenza nazionale, non so se Balotelli ce l’abbia, ma so che questo non è il punto.

Il punto è che, per molti, Balotelli non si merita di essere italiano, di essere riconosciuto come pari. Non importa se è nato in questo Paese, se è totalmente calato nella realtà italiana – in quanto adottato, nemmeno da immigrato – da tutta la vita, se è cittadino de iure et de facto, se è portatore di uno spirito che lo ha portato a rinunciare a giocare per la Nazionale del suo Paese d’origine – il Ghana – e a sognare, invece, di vestire azzurro. Lui comunque non lo merita.

Non che la Seria A non abbia mai visto italiani né biondi, né dagli occhi azzurri, indossare la fascia da capitano: Fabio Liverani è stato per anni il capitano della Lazio, Matteo Ferrari, dell’Under 21. Ma loro la fascia l’hanno potuta portare, perché la loro faccia non ci metteva costantemente davanti all’evidenza che erano cittadini come non ce li saremmo aspettati, come forse non li volevamo o, dall’altra parte, come li vorremmo a tutti i costi per confermare le nostre paure.

Fabio Liverani
Matteo Ferrari

Balotelli esplora al contrario il linguaggio dell’integrazione meritocratica: non chiede per favore, non chiede scusa, non si inventa un modo per essere nero che turbi meno chi non lo è, rivendica il suo essere un cittadino italiano e di colore con tutto ciò che può voler dire. Sottolinea, forse involontariamente, il ricatto dell’integrazione.

Mio fratello è un ragazzo nero che vive in questo Paese, da cittadino, con un senso di appartenenza giustamente ibrido e fluido, che percepisce la rivendicazione del suo ruolo e che penso si senta meno solo vedendo Balo a dirgli che “Così si può”. Ho provato a spiegargli che però non è che uno può diventare capitano solo per far contenti gli immigrati. Gli stessi immigrati tra cui c’è chi è contento solo per far rosicare gli italiani stronzi che sono razzisti, ma ora devono accettare un negro a guidare la loro nazionale bianca e immacolata. Gli stessi immigrati tra cui c’è chi, se venisse a scoprire che Balotelli si sente più italiano che ghanese (cosa che non so, è la sua vita e la sua vicenda, che a parer mio è anche triste, e nessuno di noi ha il diritto di questionare sulla sua identità), gli volterebbe le spalle. Perché il discorso sulle nuove identità è un tabù per molti italiani, quanto per altrettanti stranieri che condividono la paura nel vedere i propri figli diventare qualcosa di culturalmente molto diverso da loro.

Lui replica che Balotelli è bravo, che se lo merita a prescindere da tutto il resto. Ribadisco che di calcio non ne so nulla e che quindi non me la sento nemmeno di stare a giudicare se è vero quanto dice, però il mio migliore amico lo conferma: un buon numero di convocazioni, in una rosa di calciatori epurata dai nomi storici, ma un bad boy, uno dalla testa calda, ma se viene convocato vuol dire che si pensa che sia migliorato e se ha il maggior numero di presenze è giusto che la fascia vada a lui.

Ovviamente il mio migliore amico non tocca la questione etnica, del resto c’è un motivo se siamo amici: è intelligente, si cura di questioni rilevanti e non ha problemi coi neri o qualsiasi altra categoria di persone. Magari tra qualche anno la questione andrà liscia per gli altri italiani così come è semplice per lui. Però mi ha fatto piacere vedere che per lui non è uno stigma. E io ho provato un po’ di invidia, perché la cosa più difficile oggi, forse, non è tanto non essere un idiota che scrive striscioni razzisti a una partita, quanto essere una persona che non ha bisogno di eroi.

Mi spiace solo per Balotelli, che non può fare a meno di essere un eroe quando, per i soliti idioti, non merita nemmeno di essere italiano.

 

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