“Quando voglio qualcosa, la ottengo al cento per cento” è una frase che mi capita di sentire pronunciare spesso da amici, colleghi, semplici conoscenti e, a volte, dai miei studenti. Alle mie orecchie, però, suona più come un’ostentazione di autostima che come qualcosa di cui si è fermamente convinti: la realtà circostante, infatti, dovrebbe persuaderci abbastanza presto del fatto che, per quanto volitivi, capaci e sicuri possiamo essere, incontrare ostacoli ed essere delusi nelle proprie aspettative è molto più frequente che riuscire a centrare la maggior parte dei nostri obiettivi. Quando ascolto frasi del genere, di solito, rispondo che io funziono esattamente al contrario: è proprio quando desidero profondamente qualcosa che, mai come prima, mi ritrovo a misurarmi con la percezione dei miei limiti, di varia natura, e con la paura della delusione e del fallimento che, crescendo, sto imparando a gestire.
Comprendere come trarsi fuori dallo scoramento per qualcosa che non è andato come ci saremmo aspettati, o dalla frustrazione per un obiettivo cui ambiamo ma che si rivela fuori dalla nostra portata, è una conquista fondamentale nella maturazione esistenziale di ognuno. Molti, però, sembrano ignorare quanto, nel percorso di crescita e realizzazione personale, sviluppare la misura di sé sia essenziale e riveli forza interiore, autostima ed equilibrio psicologico molto più della capacità di raggiungere un obiettivo dopo l’altro senza fallire mai.
Da sempre, quindi, credo poco a chi si mostra tanto sicuro da ritenere che non sbaglierà mai un colpo, ma a lasciarmi maggiormente perplessa è l’orgoglio che ciascuno prova nel percepirsi e mostrarsi infallibile. Sembra che, nell’immaginario comune, avere autostima equivalga non tanto a conoscersi a fondo, parlarsi con sincerità, avere una percezione autentica e non filtrata di sé, che possa farci restare in equilibrio anche di fronte alle inevitabili sconfitte dell’esistenza; no, avere autostima oggi sembra significare autoconvincersi che si possa essere – o diventare – così “giusti”, bravi, preparati e capaci da poter arrivare ovunque si desideri.
Mostrarsi agli altri così determinati, testardi e ambiziosi da ottenere tutto ciò che si vuole è un cliché oggi tanto inflazionato quanto non ancorato alla realtà, dal momento che, lo sappiamo, neppure i più volitivi potranno mai rendersi immuni al fallimento. Ciò che questa convinzione comunica è il bisogno di aderire al più classico, e nocivo, dei modelli di individuo, degno della massima stima e ammirazione, forgiato dalla società in cui viviamo: quello della persona “realizzata e di successo” che convince sempre meno, che crede che conseguire un successo dopo l’altro sia l’unica strada verso la realizzazione personale, e al contempo non si interroga su cosa sia davvero il “successo”, parola preconfezionata e insidiosa che abbiamo incamerato meccanicamente, ma di cui sembra ancora sfuggirci il reale significato.
Credere di poter arrivare ovunque è una percezione di sé molto dannosa, che ci rende ipercompetitivi e troppo spesso ci allontana dall’ascolto delle nostre stesse esigenze, oltre magari arrivare ad acuire lo stress e farci sprofondare in disagi profondi. L’aumento di malessere psicologico in tutte le fasce della popolazione, oggi, è infatti fortemente accentuato dalla sempre più scarsa tolleranza alla frustrazione e al senso del fallimento, e da quella paura di non essere mai abbastanza, l’atelofobia, che può avere ripercussioni anche gravi sul nostro equilibrio psichico e sulla nostra emotività.
Proprio a questo proposito, dovrebbe indurci a una riflessione l’incremento dei casi di suicidio di studenti che non accettano un fallimento universitario, solo uno dei tragici esempi di giovani che la nostra società, per come è strutturata, ha indotto e continua a indurre ad ambire non tanto a un rapporto sereno con i propri limiti, ma piuttosto ad accettarsi – o a illudersi di farlo – solo a condizione di raggiungere determinati obiettivi o, magari, di corrispondere alle aspettative degli altri (genitori, professori o altre figure adulte di riferimento). Ciò accade perché, effettivamente, viviamo in un contesto che alimenta il nostro delirio di onnipotenza e che individua il punto massimo di realizzazione personale non nella misura di sé, ma nella caparbietà e capacità di inanellare un successo dopo l’altro, secondo standard stereotipati che ci chiedono di essere i migliori in tutto: i più capaci, performanti, stakanovisti. Questi processi, spesso, vengono innescati fin dalla scuola, che dovrebbe formarci come adulti e cittadini e invece, valutandoci con voti dall’uno al dieci fin da quando abbiamo sei anni, ci abitua a pensarci come numeri e ci sprona al continuo raffronto del nostro valore e della nostra “bravura” rispetto agli altri.
Dopo aver introiettato questo meccanismo competitivo ossessivo, che ci porta a voler superare a tutti i costi i nostri limiti piuttosto che ad accoglierli con equilibrio, ingaggiamo una corsa dopo l’altra in tutti gli ambiti della nostra vita. E allora finiamo per costruire rapporti malsani con tutto: col lavoro, in cui tentiamo di performare più degli altri o, magari, di corrispondere alle aspettative di un capo particolarmente pretenzioso, rischiando il burnout; con il partner, costruendo una relazione basata non sulla scoperta dell’altro e sull’autentica condivisione di sé, ma anche in questo caso sul tentativo di dimostrare come riusciamo a corrispondere alle sue aspettative e soddisfare tutti i suoi bisogni – mostrandosi magari diversi da ciò che si è, recitando una parte per essere accettati, desiderati, apprezzati, o addirittura pretendendo dal partner lo stesso tipo di performance ed efficienza; o, ancora, sempre a proposito delle relazioni affettive e sessuali, potremmo finire per collezionarne tante una dietro l’altra, senza occuparci di conoscere e comprendere chi c’è dall’altra parte, ma “consumando” il rapporto per testare le nostre capacità di sedurre più persone possibili, o di accumulare esperienze diverse ma vissute superficialmente – proprio perché la nostra attenzione non si focalizzerà sull’esplorazione del partner e del suo mondo, ma sul bisogno che abbiamo di portare a casa la performance sessuale o la conquista.
Tutti esempi che ci rivelano quanto abbiamo interiorizzato l’ossessione, indotta dal sistema in cui siamo immersi, di andare oltre i nostri limiti, talvolta sfiancandoci fisicamente e psicologicamente, smarrendo la capacità di godere e apprezzare le esperienze che viviamo, arrivando a fingere di essere altro da ciò che siamo e vivendo tutto come una competizione. Ci illudiamo del fatto che, in seguito alla prossima conquista, vittoria sugli altri o nuovo obiettivo raggiunto, ci sentiremo finalmente appagati; ma poi, ci accorgiamo che anche il nuovo risultato conseguito, spesso, ci lascia un senso di vuoto e di insoddisfazione profondi, in un circolo vizioso che ci fa correre come i criceti sulla ruota ignorando ciò di cui avremmo bisogno: fermarci e accettare i nostri limiti, perché è anche grazie a questi che possiamo comprendere quali battaglie vale la pena combattere e quali no. Di cosa abbiamo bisogno per costruire il nostro equilibrio e cosa, invece, è superfluo, ridondante.
Questo bisogno di percepirci onnipotenti e infallibili che ci accomuna, inoltre, è accentuato da una società che ci chiede troppo e ci restituisce poco, che ci costringe in una condizione di eterni giovani che non è caratterizzata da spensieratezza, ma da ansia per un futuro snervante e precario come il presente. Poiché presto ci accorgiamo che l’impegno e il sacrificio moderati ed equilibrati non ci portano a risultati concreti – per esempio, non ci consentono spesso di avere un lavoro che garantisca l’indipendenza economica – e che non appena raggiungiamo un obiettivo subito dobbiamo metterci sotto per il successivo, ci convinciamo che per farcela dobbiamo sviluppare qualità straordinarie, mostrarci impeccabili in tutto. Fare troppo e freneticamente, perché fare abbastanza non è sufficiente neppure per garantirsi una vita dignitosa, ed essere sempre così perfetti da non sbagliare un colpo, possono trasformarsi in ossessioni dannose e portarci a sviluppare diverse forme di malessere psicologico.
La condanna di qualunque forma di fallimento, insieme alla bassissima tolleranza della frustrazione, sono dei prodotti sociali oltre che lo specchio di una realtà fondata sui paradigmi della perfezione, della competizione e della performance. Paradigmi che andrebbero urgentemente messi in discussione, sviluppando parallelamente la consapevolezza che per avere un rapporto sano con sé stessi non è necessario pensarsi capaci di ottenere tutti dieci o trenta e lode, di avere un fisico perfetto, una carriera sfolgorante e una dichiarazione dei redditi da far invidia. Essere sicuri di sé significa, innanzitutto, riuscire ad accettare i fallimenti, così come quei limiti che potrebbero averci impedito di centrare un obiettivo o di ottenere un particolare successo; ma soprattutto avere un sereno rapporto con sé stessi, per sviluppare quella libertà e coscienza di sé che ci fa capire che, a volte, non abbiamo davvero voglia e bisogno di realizzare desideri eteroindotti, o di percorrere le tappe di un percorso standardizzato verso la realizzazione personale; e, di conseguenza, che dovremmo investire le nostre energie nel conoscerci più fondo, per comprendere quali obiettivi ci interessa davvero raggiungere, quali limiti possiamo provare a superare e quali, invece, vale la pena accettare, piuttosto che perderci nell’eterna ed estenuante corsa per essere “i più” in tutto.