Quando si parla di assuefazione, in farmacologia, si fa riferimento al complesso di comportamenti e cambiamenti fisiologici che si associano all’uso prolungato di droghe o di farmaci. Si tratta di un fenomeno per cui l’organismo arriva ad acquisire un certo grado di resistenza a una sostanza, che si traduce in una progressiva perdita di sensibilità rispetto a essa, dunque anche in una forte inibizione degli effetti percepiti a seguito del suo utilizzo – allucinogeni o terapeutici che siano. Man mano che il corpo si allena a metabolizzare un determinato principio attivo, infatti, sviluppa una particolare forma di tolleranza nei suoi confronti, una condizione a partire dalla quale la ricettività originaria può essere ripristinata soltanto creando una cesura, introducendo una novità che interrompa un’abitudine ormai stabilizzata, che il nostro fisico sa come gestire.
L’elemento di novità può essere rappresentato da un aumento del dosaggio, che stimoli maggiormente l’organismo e permetta di ottenere gli stessi effetti iniziali, ma questo escamotage è strettamente legato al meccanismo della dipendenza e al rischio d’abuso, con tutte le conseguenze nocive per la salute che essi comportano. Per interrompere l’abitudine e sbloccare definitivamente il processo di assuefazione, dunque, occorre rinunciare per un certo lasso di tempo alla sostanza, così da dare modo al corpo di “dimenticarsene”. Dopo un sufficiente periodo d’astinenza, di solito, l’organismo tornerà a percepirla come qualcosa di sconosciuto, ed essa, di conseguenza, recupererà pienamente la sua efficacia.
Questa capacità di adattamento tipica dell’essere umano, però, rivela una pericolosità intrinseca, perché rendendo l’organismo sempre meno sensibile a un particolare agente, anestetizzando lentamente le sue percezioni fisiche, toglie all’individuo la consapevolezza del rapporto che ha con ciò che è solito consumare, oltre che degli eventuali danni che si sta procurando. Negli anni recenti per proteggerci dai numerosi rivolgimenti epocali che si sono presentati in serie, impattando per forza di cose sulla nostra emotività, ci siamo trovati a dover sfruttare proprio l’aspetto più rischioso di questa nostra capacità adattiva, alzando la soglia della sopportazione fino a sviluppare una sorta di assuefazione alla catastrofe che ci consente – o meglio, ci illude – di attenuare almeno in parte gli effetti deleteri che avvenimenti come lo scoppio della pandemia, la guerra in Ucraina e il progressivo aggravarsi della crisi climatica hanno sulla nostra psiche. Questo atteggiamento, di cui spesso non siamo del tutto consapevoli, rappresenta una strategia di sopravvivenza che ci siamo trovati costretti a mettere in atto per placare le conseguenze degli eventi traumatici, ovvero l’insorgere di disturbi d’ansia, depressione e il generale peggioramento delle condizioni di salute mentale.
La costante sottoposizione alla paura e alla sofferenza, infatti, ha modificato in qualche modo la nostra risposta al turbamento, abituandoci a contenerlo, somatizzarlo, senza che esploda mai in vere e proprie manifestazioni di dolore, né interiore, né tantomeno condiviso. Il tentativo di sopire un carico di preoccupazione per noi inedito, dunque, si è risolto nell’attivazione di quello che è un processo di assuefazione a tutti gli effetti. Nonostante questo meccanismo abbia la funzione di tutelarci, però, esattamente come nel caso dell’assuefazione fisica, non è in grado di limitare il danno che certi traumi ci arrecano, ma solo di alleviare la percezione dei loro effetti immediati, rimandando la resa dei conti con una vulnerabilità che non riusciamo ad accettare, ma che non possiamo nemmeno negare in toto. Questa sorta di “stato di negazione” – definizione con cui, nel suo omonimo libro del 2001, il sociologo Stanley Cohen si riferisce al tentativo di rimuovere tutto ciò che ci fa sentire fragili dalla nostra esistenza – sposta un po’ più in là la soglia del dolore percepito, ma non lo cancella. Soprattutto, va ad assottigliare la nostra consapevolezza rispetto ai suoi danni, lasciandoci addosso una costante sensazione di allarme legata alle conseguenze a lungo termine di qualcosa che sospettiamo ci stia facendo del male, pur non riuscendo a capire quanto e come.
A causa del rigido contenimento del dolore stiamo assistendo a uno sfilacciamento delle connessioni che ci tengono agganciati agli avvenimenti del mondo attraverso la partecipazione attiva; oltre che a una perdita di sensibilità che porta al progressivo spegnimento degli impulsi creativi e produttivi, dunque legati all’azione, ma anche desiderio, all’ambizione e alla progettualità. Si finisce così per rinunciare a vivere il contatto con realtà per timore – o a volte anche certezza – di non avere le forze sufficienti per affrontarla. Ma ciò significa smettere di costruire, di alimentare la propria identità attraverso il rapporto con l’esterno, con gli altri, dando il via a un processo di logoramento, di corrosione di sé. Questo grigiore diffuso e sempre più avvilente, si sta già mangiando diversi aspetti della nostra vita: anche nella mia esperienza, infatti, vedo aumentare costantemente la quantità di ex compagni di liceo che ammettono di non riuscire a visualizzare un obiettivo nel futuro che sentono di voler raggiungere, qualcosa a cui puntare e in cui investire le loro forze.
Siamo assoggettati, di fatto, a uno stato di percezione monocromatica, a una mortificazione che ci consuma, facendoci soffrire forse più dei traumi che speravamo di poter lenire, aggirandoli. L’immagine che descrive con maggior efficacia questa amara abdicazione alla nostra presa sull’esistenza potrebbe essere l’avanzare del Nulla, che nel libro del 1979 La storia infinita dello scrittore tedesco Michael Ende rappresenta l’antagonista assoluto, il potere distruttivo più radicale. Questo capolavoro della narrativa fantastica, da cui nel 1984 è stato tratto il famoso cult, il Nulla rappresenta il nemico da sconfiggere, una particolare forza distruttiva il cui potere non si limita alla facoltà di far scomparire il mondo, riducendolo in macerie; il Nulla agisce più in profondità, perché è in grado di annichilire, di annientare qualsiasi espressione di vitalità vi si trovi di fronte, lasciando dietro di sé soltanto il vuoto. Introducendo questa figura, Ende ha offerto in tempi non sospetti una metafora della rassegnazione allo stato di cose derivante dall’assuefazione ai traumi che stiamo sperimentando oggi, con la sua forza nullificante, capace di recidere il contatto con la realtà e ogni abilità connessa con l’immaginazione – compresi i tentativi di elaborare nuove prospettive, di ambire al cambiamento, di desiderare che alcuni aspetti del contesto in cui ci muoviamo migliorino.
Questa tendenza ha già mostrato i suoi esiti sul piano politico-sociale, togliendo credibilità alla componente ideologica progressista e svuotandola del suo significato primario, ovvero quello di proporre un’azione orientata all’avanzamento dei valori e dei concetti su cui una comunità si fonda. Pensare a una realtà più equa, più giusta, più inclusiva, semplicemente migliore rispetto a quella in cui viviamo, dopo aver sacrificato la nostra relazione con gli eventi del presente, infatti, è impossibile, perché essi rappresentano gli appigli su cui basarci per formulare un’alternativa, per immaginare un cambiamento. Il motivo per cui le istanze del progresso negli ultimi anni non hanno più peso, dunque, è riconducibile a questa spirale di auto-annullamento, che ci paralizza anche di fronte alle necessità più stringenti, lasciandoci inermi di fronte alla stagnazione dei salari, agli affitti sempre più alti, e alle conseguenze della rottura dell’ascensore sociale. Nell’attuale scenario non si tratta di ricostruire a partire da un mucchio di rovine, né di ordinare uno spazio in preda al caos, ma di ritrovare una spinta vitale forte, capace di creare una cesura che interrompa l’assuefazione e riaccenda la nostra sensibilità.
L’esperienza dei traumi degli ultimi due anni è qualcosa che ci ha segnato a livello collettivo, per questo può servire da punto di partenza per elaborare una narrazione comune della vulnerabilità che ancora non riusciamo ad accettare, una volta superata la paura del carico emotivo implicato in questa operazione, concedendo a noi stessi di viverla consapevolmente. È proprio nel percepire e nell’affermare la nostra condizione di disagio e sofferenza – esprimendo il nostro dissenso, mettendo in discussione lo stato di cose, ma anche accettando di attraversare dei momenti di crisi, senza per forza riuscire a risolverli –, infatti, che possiamo percepirci e affermarci come individui che tentano di combatterla, maturando una nuova consapevolezza nei suoi confronti e incanalando le emozioni negative in forza propulsiva, capace di generare dei cambiamenti. Proprio come Bastian nel finale di La storia infinita, quando è chiamato a dare un nuovo nome al regno della sua fantasia, dobbiamo definire, qualificare ciò che stiamo provando e riconoscerlo nella sua facoltà di ferirci, di piegarci, per provare a oltrepassarlo. Il dolore, infatti, non è necessariamente qualcosa che bisogna imparare a sopportare, anestetizzandolo, spesso va solo guardato da più vicino per capire come curarlo al meglio, invece che allontanarlo.