“Molte sono le cose mirabili, ma nessuna è più mirabile dell’uomo”, recita un verso del coro dell’Antigone di Sofocle, una delle tragedie più importanti risalenti al mondo classico. E più che un uomo, a essere davvero mirabile in quest’opera è una donna, la protagonista. Antigone non è solo il personaggio principale dell’omonima tragedia, ma piuttosto un simbolo universale di resistenza e lotta contro ogni ingiustizia, di un testardo coraggio che mira ad affermare il bene. A sconvolgere generazioni di filologi, letterati e appassionati, è una giovane ragazza, la figlia di Edipo, che come il padre è condannata a un destino infelice. Dopo la morte dei suoi fratelli, Eteocle e Polinice, nemici tra loro e caduti in battaglia, Antigone si oppone all’editto promulgato nella sua città dal tiranno Creonte: onorare Eteocle con riti funebri perché si è battuto per la patria, e invece abbandonare ai cani e agli uccelli, senza alcuna sepoltura, il corpo di Polinice, che aveva combattuto per il nemico. La donna, spinta dall’affetto che la legava al fratello in vita e che si fa più tenace nel momento della morte, preferisce onorare gli dèi prima dello Stato e sparge sul suo cadavere una manciata di terra. Un gesto semplice ma importante nella cultura della Grecia antica, perché sancisce il passaggio dell’anima nell’Ade, il regno delle ombre, sottraendola da un errare senza pace.
Pur credendo fermamente nella giustizia come valore e come strumento di ordine tra i rapporti umani, allo stesso tempo la protagonista esercita una sorta di diritto alla disobbedienza, perché i suoi ideali danno voce a un sentimento di bene viscerale nei confronti della vita e dell’umanità intera. Per quanto possa essere giusta la legge che condanna Polinice, agli occhi di Antigone egli rimane comunque un fratello, e come tale merita le sue cure. Morire, allora, sembra essere l’unico atto necessario, perché, come lei stessa recita, “Non sono nata per condividere odio, ma per condividere amore”.
Thomas Hobbes aveva fatto della formula Homo homini lupus la cifra della sua filosofia, secondo cui la natura umana è egoistica e pronta a tutto per difendere gli interessi del singolo. Ma a questa visione negativa, che sembra a tratti l’unica descrizione possibile dell’umanità, Antigone aveva già risposto migliaia di anni prima. Lei sceglie di commettere un reato nei confronti dello Stato ed essere per questo condannata a morte, piuttosto che disumanizzarsi a tal punto da non potersi più riconoscere, per continuare una vita di sudditanza cauta e rispettosa del potere. Sarà per questo che il filosofo Friedrich Hegel ha definito il dramma di Sofocle come “la tragedia sublime per eccellenza e sotto ogni punti di vista, l’opera d’arte più perfetta che lo spirito umano abbia mai prodotto”.
I morti nel Mediterraneo fanno poco rumore, non pesano sulla coscienza di nessuno e si perdono nell’oblio, sovrastati da opinionisti smaniosi di pronunciarsi e politici pronti a fare propaganda con dati falsati. Eppure sono molti. Il Missing Migrant Project tiene traccia di tutti gli incidenti che coinvolgono i migranti, i rifugiati e i richiedenti asilo, morti o scomparsi durante i loro spostamenti verso una destinazione internazionale. Nel Mediterraneo, solo nei primi quattro mesi del 2019, si contano a oggi 356 persone tra morti e dispersi. Sulla terraferma, ad aspettare che il mare restituisca i corpi ci sono instancabili Antigoni, donne e uomini appartenenti alle organizzazioni che si prendono cura dei cadaveri per identificarli, per poi seppellirli. Ma quando i dati non sono sufficienti e i documenti sono illeggibili o persi, il loro destino è una sepoltura senza nome. Secondo una stima della BBC, dal 2014 al 2016 sono circa 1250 i morti senza nome – il cui numero reale a oggi è sicuramente aumentato – seppelliti in più di settanta cimiteri, distribuiti tra Tunisia, Turchia, Grecia e Italia.
Se non possono salvare i migranti, tutte le Antigoni moderne si assicurano almeno che, una volta morti, possano trovare pace con una sepoltura degna. Nel villaggio di Zarzis, in Tunisia, vive il pescatore Chamseddine Marzoug, che da anni raccoglie i corpi dei migranti trovati nei suoi viaggi in barca e li seppellisce in un cimitero di ignoti, costruito da lui stesso. Un luogo desolato, ormai saturo delle salme di uomini, donne e bambini di ogni età provenienti per la maggior parte da naufragi avvenuti nella cosiddetta “black zone”, il triangolo che comprende Tripoli, Zouara e Lampedusa. È stato lo stesso Marzoug a ricordare l’importanza del suo lavoro e chiedere aiuti e finanziamenti per il suo cimitero, invitato nelle sedi del Parlamento europeo di Strasburgo: “Capisco le frontiere,” dice, “ma capisco meglio gli esseri umani”.
Nell’isola greca di Lesbo, i cimiteri di Aghios Panteleimon e di Kato Tritos accolgono i corpi delle vittime di continui naufragi. Separati dal resto del mondo da un filo spinato, i sepolcreti si presentano come pezzi di terra brulla disseminati di piccole lapidi bianche di marmo, che riportano in arabo o in greco le date del ritrovamento del corpo o della sepoltura. Sono per lo più di ragazzi e bambini ritrovati in mare dagli abitanti del posto o dalla associazioni umanitarie che lavorano a Lesbo. Sparso per terra, qualche fiore di plastica a indicare che esiste ancora un’umanità capace di ricordarli. Tutto questo è ispirato dallo stesso sentimento che guidò Antigone, cioè una ostinazione – per quanto ostacolata – a preservare un barlume di dignità anche quando questa è bistrattata, ingoiata dall’oblio e da un mondo sempre più duro, sempre più insensibile. Una legislatura specifica in merito alla sepoltura dei corpi, infatti, è tutt’ora assente, perché nella maggioranza dei casi a occuparsene non sono enti statali, ma privati. Ciò significa che le lapidi possono essere spostate senza un’effettiva regolamentazione, rendendo difficile il ricongiungimento del defunto con la sua famiglia.
In Italia l’intero iter è a carico dello Stato: dopo un controllo dal medico legale che ne constata ufficialmente la morte, i corpi sono portati al cimitero più vicino per la loro sepoltura e quando, oltre al nome, non si riesce a risalire alla fede religiosa, ci si arrangia con un rito funebre misto. Nei processi di identificazione dei migranti, l’Italia è sempre in prima linea grazie anche all’instancabile lavoro di persone come Giorgia Mirto, ricercatrice dell’Università di Bologna, che passa in rassegna lapide per lapide tutti i cimiteri delle città del Sud Italia per ricostruire un nome e mettersi in contatto con i familiari del defunto. Solo in questo modo si può superare ciò che la ricercatrice chiama “il lutto ambiguo”. Senza certificato di morte, le famiglie dei defunti sono costrette a vivere in un limbo giuridico: le mogli non possono dichiararsi vedove e i figli non sono riconosciuti come orfani, generando ulteriori problematiche in una situazione già difficile. Il ritrovamento non solo sbroglia la matassa burocratica, ma permette di piangere un corpo, di metabolizzare e vivere il lutto stesso.
Insieme a Giorgia Mirto, un’altra Antigone è impegnata nel Mediterraneo a restituire identità e dignità ai corpi senza vita. Cristina Cattaneo è un medico legale e antropologa forense che conduce autopsie ai migranti defunti dal 2013 per risalire alle loro identità e collaborare al ricongiungimento coi familiari. Naufraghi senza volto è il titolo del suo ultimo libro in cui descrive l’importanza e il dolore che si prova nello svolgere un lavoro come il suo. Vestiti, oggetti, giocattoli, pezzi di storie lontane, sono solo alcuni dei resti utilizzati per tentare di risalire al processo di identificazione dei cadaveri: tra questi, anche la pagella cucita nella tasca di un giovane ragazzo del Mali. Studiare i corpi e ciò che ne rimane significa considerarli non più come anonimi migranti, ma come esseri umani. La ragione del suo lavoro, come lei stessa spiega, risiede proprio nel credere in un’umanità solidale e unita, in cui ognuno è pari all’altro, anche nella morte, e come tale merita dignità, silenzio e un nome che lo ricordi.
È quello stesso sentimento di amore che guida la disobbedienza di Antigone, quell’affetto e quella solidarietà fraterna sentiti come un istinto primordiale e generati dal rispetto verso ogni vita umana. Il coraggio di Cristina Cattaneo, di Giorgia Mirto e di tutti quanti viaggiano in direzione contraria rispetto a un mondo che fa della crudeltà il proprio marchio di fabbrica, è necessario per ricordarci che siamo e possiamo restare umani.