Il 24 aprile il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione contro lo stupro di guerra, votata da tutti gli Stati membri eccetto Russia e Cina, che si sono astenute. Gli Stati Uniti avevano però minacciato il veto nel caso in cui dal testo non fossero stati tolti tutti i riferimenti alla salute sessuale e riproduttiva, in particolare un passaggio che recitava: “Il riconoscimento dell’importanza di fornire assistenza tempestiva alle vittime di violenza sessuale sollecita le entità delle Nazioni Unite e i donatori a fornire servizi sanitari non discriminatori e completi”. Questa frase, che apparentemente non ha nulla di male, era già il risultato di un compromesso, perché originariamente il testo riportava anche una frase poi eliminata: “inclusa la salute riproduttiva e sessuale, e l’assistenza psicosociale, legale ed economica”. Secondo l’amministrazione Trump, il passaggio faceva diretto riferimento all’aborto e quindi andava cancellato. Così il Consiglio di sicurezza ha votato il testo privo delle frasi incriminate per assicurarsi il voto americano.
Nel 1994, la Conferenza internazionale per la popolazione e lo sviluppo dell’Onu (Icpd) firmò un piano d’azione per più di 180 Paesi, un importante documento in cui si dà la definizione di “salute riproduttiva”, “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non soltanto l’assenza di malattie o infermità, in tutte le questioni che riguardano il sistema riproduttivo e i suoi processi. La salute riproduttiva quindi implica che le persone possano avere una vita sessuale soddisfacente e sicura e che abbiano la capacità di riprodursi e la libertà di decidere se, quando e quanto spesso farlo”. Sono tre i capisaldi della salute riproduttiva secondo l’Icpd: ogni atto sessuale deve essere libero dalla coercizione e dal rischio di infezione, ogni gravidanza deve essere voluta e ogni parto deve essere privo di rischi per la salute della partoriente e del bambino.
Questo documento fu redatto all’alba dell’epidemia di Aids che, dopo le migliaia di vittime in Europa e Stati Uniti, era arrivata anche in Africa. Proprio nello stesso anno venne fondato il progetto Unaids, il programma delle Nazioni Unite contro la diffusione del virus dell’Hiv tuttora operativo. Contemporaneamente, eventi come le guerre jugoslave e il genocidio in Rwanda resero necessaria una presa di posizione internazionale contro lo stupro di guerra, incluse le sue conseguenze sulla salute sessuale delle vittime.
Gli ambiziosi progetti internazionali sulla salute riproduttiva nei Paesi sottosviluppati o in via di sviluppo hanno però incontrato molte difficoltà negli corso degli anni, soprattutto a causa della pressione dei gruppi pro life, che reputano le ingerenze dell’Onu su contraccezione e aborto – anche in caso di stupro o malattie sessualmente trasmesse – una minaccia al diritto alla vita. Per questo nel 2019, sebbene in Africa viva solo il 12% della popolazione mondiale, si trovano 25 dei 36 milioni di persone affette da Hiv nel mondo (circa il 70%) e il 97% degli aborti si svolge in modo non sicuro.
Non è la prima volta che l’amministrazione Trump si oppone all’accesso ai mezzi per la salute riproduttiva in questi Paesi. A gennaio 2017, all’inizio del suo mandato, il presidente firmò (come ogni presidente repubblicano prima di lui) un documento introdotto da Raegan noto come Global Gag Rule, che vieta a tutte le Ong internazionali finanziate dagli Stati Uniti di fornire servizi di interruzione di gravidanza o anche solo informazioni sull’argomento. L’agenzia per lo sviluppo internazionale statunitense, infatti, donava ogni anno 3 miliardi di dollari a organizzazioni sanitarie internazionali come l’International Planned Parenthood Federation, fondata nel 1952. Il Guttmacher Institute ha calcolato che metà delle 1,65 miliardi di donne con età compresa tra i 15 e i 44 anni vive in Paesi dove la Global Gag Rule impedisce l’accesso all’aborto sicuro. Secondo l’International Planned Parenthood Federation, a un anno di distanza, l’impatto del provvedimento è stato devastante, causando oltre 20mila morti per parto e 1,7 milioni di aborti non sicuri nei Paesi in via di sviluppo.
La mossa di Trump – che recentemente ha anche tagliato i fondi alla sezione statunitense di Planned Parenthood grazie alla cosiddetta Domestic Gag Rule, temporaneamente bloccata da un giudice federale – è senza ombra di dubbio un modo per ingraziarsi l’elettorato conservatore e pro life, che negli Stati Uniti è molto potente e ha una lunga e inquietante storia. Per esempio, una delle fondatrici del movimento per la vita statunitense, la cattolica Nellie Gray, tra le altre cose si è battuta contro la diffusione del preservativo durante il picco dell’epidemia di Aids. Oltre all’aborto, i pro life sono generalmente contrari all’uso dei contraccettivi perché non solo la contraccezione è espressamente vietata dalla Chiesa cattolica, ma anche perché spesso viene indicata come la responsabile dell’aborto e non, come sembrerebbe logico, un suo deterrente: la contraccezione incoraggerebbe il sesso fuori dal matrimonio e quindi il maggiore ricorso all’interruzione di gravidanze non desiderate.
Queste idee derivano da due encicliche papali, la Casti Connubii del 1930 di papa Pio XI e la più celebre Humanae Vitae del 1968 di papa Paolo VI. Nei secoli precedenti la Chiesa non si è mai espressa esplicitamente sulla contraccezione, sia perché non è mai menzionata nel Vangelo sia perché prima del Ventunesimo secolo i metodi contraccettivi erano rudimentali e non diffusi a livello commerciale. L’obiettivo dell’Humanae Vitae, ad esempio, era quello di dare una risposta ai cattolici che chiedevano se fosse lecito usare la pillola anticoncezionale messa in commercio negli anni Sessanta, mentre per quanto riguarda il preservativo (che è l’unico metodo contraccettivo che protegge anche dalle malattie sessualmente trasmissibili) le posizioni della Chiesa sono sempre state più ambigue, perché l’inaccettabilità dei metodi anticoncezionali di barriera veniva considerata una diretta conseguenza della castità, per cui di fatto non si sentiva il bisogno di esplicitarne il divieto. Giovanni Paolo II, il papa che visse in prima persona la crisi dell’Aids, non usò mai la parola preservativo, mentre Benedetto XVI fu più categorico, sostenendo che il profilattico non avrebbe risolto la crisi dell’Hiv.
Al di là delle posizioni papali, molti gruppi pro life si sono battuti e tutt’ora si battono contro la diffusione dei preservativi nei Paesi in via di sviluppo. Ne è un esempio l’attività del World Congress of Families in Africa che durante diverse conferenze, come quella a Nairobi nel 2016, ha promosso il divieto alla contraccezione. D’altronde il Wcf nasce quasi in risposta alla Conferenza internazionale per la popolazione e lo sviluppo dell’Onu del 1994, che ha non solo fornito le linee guida per la salute riproduttiva, ma anche una definizione di famiglia non condivisa da chi sostiene esista solo quella “naturale”.
Vietare o impedire l’uso dei contraccettivi e l’interruzione di gravidanza nei Paesi in via di sviluppo non solo aumenta la trasmissione di malattie sessuali, ma non riduce nemmeno il numero delle gravidanze indesiderate o degli aborti. Il 65% degli aborti mondiali avviene nei Paesi in via di sviluppo dove questa pratica è perlopiù illegale: il 97% degli aborti in Africa e il 95% in America Latina avviene in modo clandestino (e quindi non sicuro). In questi Paesi un quinto delle gravidanze è indesiderato e una donna su 48 muore per complicazioni legate al parto. È noto tra l’altro che nei Paesi che hanno leggi restrittive sull’aborto il numero delle interruzioni di gravidanza è più alto. Nelle nazioni dove l’Ivg è legale si contano 34 aborti ogni mille donne, mentre dove è illegale la cifra sale a 37. I Paesi dove le leggi prevedono l’aborto sicuro e gratuito, come l’Italia, hanno inoltre visto una diminuzione progressiva delle interruzioni di gravidanza da quando le normative sono in vigore.
Vietare l’aborto o la diffusione dei contraccettivi è anche una violazione della democrazia dei Paesi in via di sviluppo, che spesso vengono trattati come incapaci di autodeterminarsi scegliendo autonomamente le proprie politiche, in questo caso riguardo la salute riproduttiva. Nel caso della Global Gag Rule o della recente risoluzione Onu contro lo stupro di guerra si nega l’accesso della popolazione locale a servizi sanitari che non sono imposti, ma liberamente fruibili. Inoltre tali provvedimenti non fanno altro che avvantaggiare le associazioni anti-abortiste che non hanno alcun tipo di limitazione nei Paesi in via di sviluppo, come invece accade con organizzazioni come l’International Planned Parenthood Federation, che non fanno altro che fornire gratuitamente e liberamente strumenti che nella maggior parte dei Paesi occidentali sono legali, sicuri e promossi dall’intera comunità medica e scientifica.
Ancora una volta, la pressione dei gruppi pro life dimostra tutta l’ipocrisia di questo movimento, che sembra avere più a cuore le vite potenziali che quelle già esistenti. Impedire a una donna che ha subìto una violenza – peraltro usata anche come strumento di genocidio – di scegliere cosa ritenga migliore per la sua salute, così come esporre milioni di persone al contagio di malattie sessualmente trasmissibili nel nome di una morale religiosa (che non è affatto detto sia condivisa da tutti), peggiora una situazione già gravissima.