Ansia, stress, isolamento, solitudine, burnout, sopraffazione, senso di vuoto o di stasi, depressione, incertezza: alzi la mano chi in questi mesi non ha provato almeno una volta una di queste sensazioni sulla sua pelle. Parlando con gli amici e i conoscenti, per lo più al telefono, le ho sentite pronunciare molto spesso in relazione al loro stato d’animo attuale, e anche io stessa ho attraversato momenti che potevano ben essere descritti da esse, anche se per fortuna in maniera passeggera. Eppure, mentre ci avviamo verso il terzo anno di pandemia e la cosiddetta “sindrome della caverna” sembra tutt’altro che passata, mi chiedo per quanto ancora queste sensazioni non diventeranno croniche e soprattutto quali possono essere gli strumenti da esercitare per riuscire a far loro fronte e aiutare possibilmente al tempo stesso anche chi ci sta accanto e vive allo stesso modo.
All’inizio della pandemia di Covid, quando ancora tutti speravano fosse un problema enorme ma dai confini temporali compressi, aleggiava un sentimento trasversale di opposizione al voler paragonare l’avvenimento a una guerra. In particolare a livello mediatico, varie figure professionali mi dicevano che non volevano usare termini come “lotta”, “battaglia”, “guerra al virus”, “nemico” e “trincea”, che andavano subito a stimolare un ambito semantico di paura e allerta – emozioni già ampiamente diffuse dalla stessa situazione. In questo modo si sperava anche di non andare a esacerbare una realtà già di per sé estremamente grave e traumatica. Purtroppo, però, mano a mano che i mesi passavano, anche chi si era ripromesso di non pesare a livello di immaginario linguistico sulla psiche già messa a dura prova delle persone è via via crollato e ha lasciato perdere le buone intenzioni iniziali. Anche perché, a ben vedere, la pandemia ha finito davvero con l’assumere i contorni socio-politici di un conflitto. Il Covid – e tutto ciò che ha generato – ha infatti portato a uno stato di trauma sociale, talmente esteso e collettivo da generare un cambiamento diffuso e radicale dei comportamenti e delle consuetudini sociali, come è successo in passato in seguito a guerre e calamità naturali.
Oggi, gli psicoterapeuti si trovano in prima linea nel tentare di far fronte a una crisi globale della salute mentale senza precedenti, che sembra diffondersi ogni giorno che passa parallelamente alla pandemia di Covid, toccando tutte le fasce d’età della popolazione a partire dai due anni in su. In tanti hanno perso il lavoro, altri invece hanno visto sfumare i loro progetti e i loro piani per il futuro, e non tutti hanno avuto le possibilità, il privilegio o la prontezza per riuscire ad adattarsi a un cambiamento di vita così importante. D’altronde, anche chi non ha visto le proprie prospettive andare in fumo, o ridurre improvvisamente la loro portata, si è trovato costretto ad affrontare un’incertezza tale da rendere pressoché impossibile – o comunque molto faticoso – qualsiasi impegno e prospettiva sul lungo periodo.
Abbiamo vissuto un’importante riduzione del nostro raggio d’azione, dei nostri spostamenti, delle nostre attività e delle nostre frequentazioni, e lo abbiamo fatto tutti insieme e nello stesso momento. Anche se poi, per alcuni periodi, abbiamo riconquistato una sorta di libertà – intesa come occasione di fruire di varie attività e frequentazioni di luoghi particolari – in realtà non è stato davvero così, perché in noi restava il timore che sarebbe stata solo una fase temporanea. In realtà, la vita stessa è rischiosa e come sappiamo non è incontaminata, il nostro essere al mondo è la quintessenza della contaminazione, dal momento del parto a seguire, eppure è come se la paura suscitata dal Covid ci abbia fatto sviluppare un terrore verso la contaminazione e il contatto, un sospetto diffuso che spesso trascende le curve degli stessi contagi, o magari come prescrive il buon senso di base le segue intensificandosi o attenuandosi, ma restando comunque sempre presente, seppur sopito, costringendoci a un costante stato d’allerta.
In generale, parlando con le persone noto un diffuso senso di abbandono e di perdita – delle relazioni, della propria vita sociale o culturale, del senso di possibilità e libertà – che causa sofferenza, anche in chi non ha subito lutti legati direttamente o indirettamente alla pandemia. Persone calme e pazienti diventano all’improvviso impulsive e irascibili, altre sviluppano forme fobiche a causa delle quali smettono di uscire di casa o limitano la vita di eventuali minorenni sotto la loro tutela per paura che si contagino e li contagino a loro volta, anche quando i rischi reali sono davvero bassi. Diversi genitori che conosco mi hanno detto che i loro bambini (tra i tre e i sei anni) hanno sviluppato comportamenti nevrotici, sono ossessionati dal lavarsi e dal disinfettarsi le mani (peraltro fin dall’inizio della pandemia nel 2020 all’ospedale Niguarda di Milano, ad esempio, era stata registrata un’impennata di casi di intossicazione in bambini a causa dei vari disinfettanti). Molti genitori, poi, non hanno gli strumenti per spiegare in maniera costruttiva ai figli, specie se piccoli, cos’è un virus, cos’è nello specifico la malattia da Covid e cosa rappresenta a livello sociale; così come gli insegnanti – spesso a loro volta presi dal panico – nutrono a loro volta le paure.
Giulia, maestra di scuola d’infanzia, all’inizio dell’anno è entrata in malattia e lo è tutt’ora: la sua situazione di stress, già cronico prima della pandemia, è stata resa insostenibile dal Covid, dal terrore generato dalla possibilità di essere contagiata dagli alunni – nonostante il vaccino e le sue buone condizioni di salute – oltre che dall’uso delle mascherine FFP2 per tante ore al giorno, che la mettevano in uno stato perenne di fame d’aria, vertigini, stanchezza e ulteriore ansia. Marta, invece, non usciva più di casa perché aveva paura a toccare la maniglia del portone e, pur disinfettandosi e seguendo tutte le precauzioni del caso, veniva sopraffatta da pensieri ossessivi sull’eventuale potenzialità di essere contagiata dal Covid e contagiare qualcun altro. Oggi, che in attesa della terza dose è stata contagiata per una serie di sfortunate coincidenze e che per fortuna ha contratto il virus in forma lieve, mi dice di sentirsi in un certo senso sollevata, finalmente tocca con mano una realtà che prima le sembrava un fantasma.
La pandemia ha poi avuto un durissimo impatto sulle scuole e sulla formazione di vario tipo e livello. Agnese si è ritrovata a concludere il suo percorso di dottorato nel bel mezzo della pandemia. È sempre stata una donna volenterosa e metodica, ma improvvisamente ha iniziato ad avere crisi di panico, non riusciva a concentrarsi sul lavoro che doveva fare, non riusciva più a stare sola in casa oppure aveva scoppi d’ira ingiustificati. In qualche modo, anche grazie all’aiuto della sua famiglia che ha potuto starle vicina, è riuscita a difendere la sua tesi di dottorato, ma lo ha fatto in condizioni proibitive, senza godersi a pieno il traguardo più che meritato. Dopo settimane, pur avendo terminato l’impegno che apparentemente le generava motivi di stress, l’ansia continua a non darle tregua, e sembra essersi traslata su altre cause. Agnese prova a riderci su, ma chiunque abbia attraversato un momento simile sa quanto sia dolorosa una quotidianità del genere.
Le restrizioni preventive, i possibili rischi, l’aumento delle difficoltà reali o percepite nel fare determinate attività terminate– un po’ perché dopo i lockdown ci siamo disabituati, un po’ perché ora richiedono nuovi accorgimenti – hanno portato a un generale appiattimento della nostra vita di tutti i giorni. In alcune persone questa condizione ha poi suscitato reazioni emotive di intensità spropositata e in altri un totale annichilimento di qualsiasi risposta agli stimoli. È il caso di Daniele, che ha passato mesi di intensa rabbia verso lo stato delle cose, verso il “sistema”, i suoi datori di lavoro, i politici, i virologi, la sua ex moglie e non riusciva a pacificarsi in alcun modo, per poi passare un periodo altrettanto lungo di completa apatia. Altri, invece, mi hanno detto di essere diventati apatici e di fare molta più fatica a fare scelte rispetto a decisioni che un tempo prendevano senza nemmeno pensarci. Luca, ad esempio, mi dice di essersi rivolto a un nutrizionista perché fare la spesa per se stesso gli generava un grande senso di fatica e di ansia, come se la sua mente non riuscisse a focalizzarsi su questo basilare compito di cura del sé.
Veronica, insegnante di yoga, mi dice che nonostante i tanti anni di pratica e di insegnamento di questa disciplina – oltre che di analisi – è caduta in un baratro da cui non si sentiva in grado di uscire, e apparentemente senza motivi tangibili: non dormiva, aveva allucinazioni, crisi di panico. La sua vita, in apparenza, non aveva subito gravi scossoni, e questo la faceva sentire in colpa, acuendo ancora di più i suoi disturbi. Per un periodo ha pensato di lasciare il lavoro, poi invece – anche grazie alla terapia – ha resistito e oggi dice che l’attenzione e la cura per mantenere e far crescere il suo lavoro è stato uno strumento fondamentale per risolvere un po’ per volta la sua crisi. Il suo è stato un caso fortunato (anche grazie al sostegno dall’analisi). Purtroppo, però, quella che oggi viene fatta passare come una presa di coscienza rivoluzionaria di una parte di più o meno giovani lavoratori – in molti casi sembra essere un fenomeno che nasce da un crescente e ingestibile senso di malessere e di fatica cronica, non sempre giustificata da sforzi effettivi, fomentata da un ambiente spesso malsano o insoddisfacente. È il caso di Irene, che pur avendo nell’ultimo anno ridotto in maniera importante la mole di impegni che doveva gestire si sentiva sopraffatta dalle incombenze e dagli incarichi tanto da arrivare a licenziarsi, pensando che con la riapertura avvenuta grazie ai vaccini avrebbe dovuto riprendere i precedenti ritmi di lavoro.
Alcune persone stanno vedendo il ripresentarsi di disturbi che pensavano di aver definitivamente risolto dopo percorsi terapeutici, altre invece sono ricorse per la prima volta nella loro vita a un aiuto psicologico a causa dell’ansia generata da problemi economici, preoccupazioni lavorative oppure a causa dell’abuso di sostanze. Il risultato è che le istituzioni preposte alla salute mentale dei cittadini traboccano in tutto il mondo di richieste, che non sempre riescono a soddisfare nei brevi tempi che in molti casi sarebbero necessari. Per di più, l’enorme polarizzazione sociale generata molto spesso dalla stampa, ha fatto sì che l’essere in disaccordo sulle scelte politiche stia diventando a sua volta fonte di angoscia e malessere. Giada, madre di sessant’anni che lavora in ambiente culturale, sposata con uno psicoterapeuta, mi dice di essersi resa conto nelle ultime settimane di avere la tendenza a sviluppare sempre di più pensieri persecutori e di non essere in grado di capire se nascano effettivamente da eventi reali di sospetto, esclusione ed emarginazione da parte dei colleghi e degli amici nei suoi confronti, oppure da sue paure e comportamenti preventivi.
Ci sono due concetti greci – condivisi da varie culture antiche del mondo – che fanno da base teorica a una serie di esercizi che, nel corso dei millenni, non sono cambiati e che infatti potremmo ancora usare come bussola per orientarci in questo periodo tanto complesso: atarassia ed euthymia. Il primo descrive lo stato d’animo umano in assenza di turbamento; il secondo, che per certi versi è un sinonimo, presenta invece una piccola quanto importante sfumatura: descrive infatti la serenità che persiste nonostante i turbamenti, strettamente connessa all’essere padroni di se stessi, all’autocontrollo e all’indipendenza dalle cose del mondo. Ricordando le Lettere a Lucilio di Seneca, per mantenere la tranquillità, e quindi la “felicità” più duratura e la libertà interiore, anche in questa situazione dobbiamo sforzarci con tenacia di credere nelle nostre capacità di giudizio e discernimento, necessarie per riconoscerci con fermezza, aver presa sul mondo e mantenerla indipendentemente da ciò che ci accade intorno. Imparare a discriminare ciò che è bene nell’immensa casualità degli eventi e scegliere di non logorarci sotto il peso della paura. L’accettazione del mondo, infatti, può non essere mera rassegnazione passiva, quanto una scelta volontaria e quindi attiva forma di resistenza. Intraprendere un percorso di analisi e in parallelo curare il proprio corpo, in questo periodo più che mai, appaiono allora come azioni fondamentali per farci sopravvivere al meglio, grazie all’esercizio necessario a comprendere le coordinate di noi stessi e del mondo, in modo da non sentirci perduti, intrappolati dai vortici della storia e delle emozioni, individuali e collettive – contribuendo magari a trovare nuove prospettive, direzioni e valori condivisi.