Già diversi anni fa, buona parte delle case automobilistiche del mondo si diceva allarmata per le abitudini di consumo delle nuove generazioni che, mostrando un disinteresse totale nei confronti dell’acquisto di auto, rischiavano di far crollare i loro ricavi. Poi preoccupazioni simili sono emerse a proposito delle case, dei diamanti, dei tovaglioli di carta, dell’attrezzatura da golf, dei cereali per la colazione e di molti altri beni che invece i giovani degli anni Ottanta avrebbero deciso di comprare senza farsi eccessivi scrupoli. I settori del mercato che io e i miei coetanei abbiamo contribuito a “uccidere” sono numerosi, e le ragioni non si riducono a un cambiamento del gusto o a una maggior coscienza ambientale. Fatta eccezione per corn flakes e fazzoletti usa e getta, infatti, tutto ciò che riguarda gli sport di lusso, i gioielli e i mutui a tasso variabile rientra nelle cose che la gran parte dei venti-trent’enni di oggi, semplicemente non si può permettere.
Per accorgerci di quanto siamo effettivamente più poveri dei nostri genitori, infatti, non è mai stato necessario consultare le statistiche: è bastato soppesare quanto l’acquisto di una casa o di una macchina impatterebbe sulle nostre finanze, decidendo poi di rimandare – o rinunciare – alla spesa. Dalle tonnellate di dati raccolti sul nostro futuro economico, però, abbiamo appreso qualcos’altro, ovvero che la nostra generazione non solo dispone di molta meno ricchezza rispetto alla precedente, ma è addirittura una delle più povere della storia contemporanea. La consapevolezza della nostra instabilità finanziaria è qualcosa che siamo convinti di aver ormai assorbito sottopelle, anche perché siamo assediati da elementi che la ribadiscono: dalla sfiducia diffusa che condividiamo con amici e conoscenti rispetto alla possibilità di costruirci la vita autonoma che vorremmo, quantomeno nel breve periodo; ai discorsi colpevolizzanti che spesso sentiamo ripetere da chi è nato qualche decennio prima di noi – quelli per cui la questione sarebbe tutta responsabilità di noi giovani pigri e degli avocado toast che ci mangiamo.
Eppure, presi dal calcolare il valore reale delle nostre finanze dopo l’impennata dell’inflazione, sembriamo non esserci resi del tutto conto di quanto il valore emotivo che associamo al denaro sia cambiato negli anni. Se per i nostri genitori, e ancor di più per i nostri nonni, i soldi rappresentavano in primis una garanzia di sicurezza, uno strumento che, se ben utilizzato, poteva dissolvere molte delle loro preoccupazioni e consentire l’accesso a una vita migliore; oggi, i primi sentimenti che associamo al denaro sono molto più negativi, assimilabili ad ansia e stress. Nel contesto in cui ci muoviamo, in sostanza, anche i soldi non sono più qualcosa su cui possiamo permetterci di fare pienamente affidamento, perché quelli che guadagniamo non sono sufficienti ad ammortizzare le nostre eventuali cadute, in una realtà in cui peraltro è sempre più difficile mantenersi in equilibrio. Questa condizione di “volatilità permanente” – come la chiama il giornalista statunitense Michael Hobbes nel suo articolo “Poor Millennials”, tra i primi a trattare la povertà della nostra generazione da una prospettiva psico-emotiva – ha delle inevitabili ripercussioni sulla nostra vita, che si estendono ben oltre la dimensione economica. L’ansia di finire i soldi, o di non averne abbastanza, infatti, sta diventando una presenza sempre più invasiva soprattutto sul piano della solidità psicologica e affettiva, perché influisce sulla nostra autostima e sul modo in cui ci relazioniamo agli altri.
Secondo l’ultimo Deloitte Global GenZ and Millennial Survey – un sondaggio che ha coinvolto oltre 22 mila persone in 44 Paesi del mondo –, infatti, l’inflazione e il costo della vita sono in assoluto la prima fonte di preoccupazione per le nuove generazioni e rientrano tra i fattori determinanti nell’alimentare il loro disagio anche a livello psicologico – insieme alla crisi climatica e alla disoccupazione. I dati sottolineano che la metà dei giovani, non avendo modo di risparmiare nulla, si trova a vivere di stipendio in stipendio, con il costante timore di dover affrontare un imprevisto che non rientra nelle proprie possibilità finanziarie. Questa situazione è ancor più frequente in Italia, dove il quadro della stagnazione economica viene aggravato da un mercato del lavoro particolarmente fragile, da stipendi tutt’altro che commisurati al carovita e da una mobilità sociale inesistente – che da anni risulta una delle peggiori tra i Paesi industrializzati. Per questo il 71% dei millennial italiani e il 63% della gen z pensa che farà molta fatica a crearsi una famiglia nel corso della sua vita (contro il 47% e il 50% della media globale); mentre il 73% dei primi e il 71% dei secondi ritiene impossibile l’eventualità di diventare del tutto indipendente dai genitori nel giro di qualche anno. In entrambi i casi le risposte sono legate alla sensazione di non avere una situazione economica abbastanza solida per far fronte a eventi inattesi.
D’altra parte, quando per evitare di chiudere in rosso il proprio bilancio mensile si è costretti a pagare a rate anche un paio di scarpe da sessanta euro, è normale che l’idea di affrontare qualsiasi tipo di imprevisto, anche di entità minima, appaia del tutto impraticabile. Questa sensazione di assoluta impotenza di fronte a ciò che non possiamo prevedere – che si tratti della necessità di prenotare una visita medica urgente, rivolgendosi ad ambulatori privati, con il vantaggio di risparmiare sull’attesa ma non certo sui costi; o di un aumento al canone d’affitto – contrasta però con la visione della vita adulta che ci è sempre stata presentata, a partire dall’esempio dei nostri genitori, finendo per farci sentire del tutto inadatti rispetto a essa, e minando di conseguenza la nostra autostima. La capacità di fronteggiare o adattarsi a circostanze impreviste in maniera autonoma, infatti, è un tratto fondamentale nel profilo psicologico dell’adulto. Non a caso, i soggetti che non riescono a raggiungerla, mantenendo quindi un legame di dipendenza dai genitori o altre figure di sostegno, vengono definiti “figli cronici”.
Nonostante gli studi parlino essenzialmente di dipendenza emotiva per definire la condizione di figlio cronico, sembra che oggi, complice il portato psicologico sempre più intrusivo che la dimensione economica sta assumendo, anche la necessità di supporto dal punto di vista finanziario venga percepita da molti giovani come una sorta di interruzione nello sviluppo, un ostacolo che li separa da un’identità adulta vera e propria – anche se magari sentono di averla già raggiunta non solo a livello anagrafico, ma soprattutto lavorativo, o psicologico. In molti casi ci troviamo dunque a vivere da adulti, ma senza i soldi che ci servirebbero per esserlo del tutto, rimanendo incastrati in una sorta di stato dissociativo, dove non ci riconosciamo come figli né riusciamo a immaginarci come padri e madri, e dove ciò che rischia di cronicizzarsi è proprio il senso di spaesamento.
Il timore di essere travolti da un imprevisto insostenibile sul piano economico si riversa poi anche nella pretesa ossessiva di evitare tutte le circostanze “a rischio”, come se queste fossero in nostro potere, anche se ovviamente non è così. La nostra generazione, infatti, sembra essere vittima di una sorta di ansia anticipatoria – causata cioè da uno scenario prefigurato, dal solo pensiero che i soldi stiano per finire –, che si insinua nella nostra capacità di fare progetti, soprattutto per quanto riguarda le relazioni affettive. In questo senso, i rapporti di coppia vengono influenzati sempre più pesantemente dalle possibilità finanziarie, perché quelle del partner non devono più fungere soltanto da contributo al sostentamento del nucleo familiare, ma anche da rassicurazione emotiva nei confronti di un futuro incerto, tanto da rendere questo secondo elemento una priorità assoluta, capace di fagocitare tutti gli altri aspetti della relazione.
Da una parte, infatti, i giovani tra i venti e i trent’anni rappresentano la fascia d’età che litiga e si lascia maggiormente a causa di divergenze riguardo la gestione del denaro, che sono diventate la “red flag” per antonomasia, molto più pericolose di eventuali opinioni contrastanti riguardo la sintonia nella relazione, l’intimità, o la vita domestica. Dall’altra, invece, molti di loro sono costretti a rimanere insieme anche se non vorrebbero più farlo, magari convivendo nella stessa casa, perché non hanno abbastanza soldi per permettersi di vivere da single. Quello che si sta creando è dunque una sorta di classismo al ribasso, per cui la componente monetaria entra nella dimensione relazionale, ma per questioni di pura sopravvivenza: il fatto che una coppia non abbia abbastanza soldi per vivere bene o immaginare una prospettiva futura diventa infatti motivo di rottura o di convivenza forzata, finendo per sostituire la necessità meramente economica – di restare insieme o di lasciarsi – a quella che dovrebbe essere una libera scelta, dettata da ben altre ragioni.
Quando parliamo del debito accumulato dalle generazioni precedenti alla nostra, non si tratta dunque soltanto di una cifra di denaro, o della quantità di risorse ambientali che queste hanno sfruttato e spercato. Esso ha a che fare anche con un tributo psicologico, dovuto al crollo delle grandi illusioni che fino a qualche decennio fa risultavano ancora credibili, e che oggi non lo sono più: un rivolgimento generazionale di fronte al quale siamo rimasti privi di strumenti – sia economici che emotivi –, inermi, fino a sviluppare una vera e propria fobia nei confronti di aspetti dell’esistenza che dovrebbero invece essere percepiti come normali, fisiologici, affrontabili.
Per provare a sanare questa situazione, prima che eroda in modo irreversibile la nostra autostima e la nostra vita affettiva, occorre certamente partire da un intervento dall’alto, fatto di politiche che arrivati a questo punto non rappresenterebbero soltanto degli ammortizzatori sociali, ma anche degli ammortizzatori psicologici. Agire sugli stipendi, sulle conseguenze dell’inflazione e non da ultimo sulla disoccupazione, infatti, non significa soltanto garantire ai giovani un reddito dignitoso e commisurato alle esigenze dell’individuo – veicolando l’idea che esso non sia esclusivamente un merito, bensì un diritto – ma soprattutto a riaccendere la loro capacità di credere nella propria identità adulta, di immaginare un futuro e di scegliere eventualmente la persona con cui condividerlo. In questo modo, pur continuando a farci paura, gli imprevisti, gli eventuali fallimenti e le altre difficoltà che i nostri progetti rischiano naturalmente di incontrare, potranno essere reintegrati nella nostra esperienza, magari visti sotto una nuova luce.