La notte del 24 agosto 2016 una violenta serie di scosse – la peggiore di magnitudo 6.0 – ha devastato l’Appennino centrale, travolgendo la vita di migliaia di persone tra Marche, Umbria, Lazio e Abruzzo. Quella notte, il suolo di Amatrice, in particolare, ha subito un’accelerazione pari a 0,86g (quasi il 90% della forza di gravità, applicata però in senso orizzontale), tanto che la cittadina laziale, in quei giorni piena di turisti per la tradizionale sagra dell’Amatriciana di fine agosto, è stata letteralmente rasa al suolo.
Erano solo le prime di un’interminabile sequenza di scosse maggiori che tuttora, lontano dai riflettori, continua a scandire le giornate di chi è rimasto nell’area. Secondo i dati del Centro nazionale terremoti, fino allo scorso 11 agosto, quelle superiori alla magnitudo 2 erano state oltre 13mila, una media di 18 al giorno. Ad oggi si contano 303 morti. Non c’è stata invece nessuna vittima nei comuni già colpiti dal sisma del ‘97, oggetto nel decennio successivo di accurate opere di adeguamento sismico che, evidentemente, sono servite a risparmiare vite umane. Da allora molti tratti della “zona rossa”, anche per i gravissimi danni subìti da strade e infrastrutture, restano inaccessibili. Centinaia di migliaia di tonnellate di macerie sono ancora al loro posto, ai piedi di quel che resta degli edifici crollati.
Dall’interno del cratere, la sensazione è che, al netto della buona volontà che contraddistingue il nostro Paese in simili occasioni, le istituzioni nazionali e locali siano state prese alla sprovvista e abbiano avuto bisogno di mesi per aggiustare progressivamente il tiro. Mi riferisco alle sessantuno ordinanze commissariali pubblicate per il sisma del 2016, molte delle quali a correzione delle precedenti. È come se le passate esperienze di emergenza e ricostruzione fossero passate invano. Eppure dovremmo avere chiaro ormai da decenni che poche regioni italiane possono ritenersi davvero al sicuro dall’eventualità di eventi sismici considerevoli. Tanto più nel centro Italia, dove nei secoli scorsi sono stati ben documentati eventi sismici di pari intensità. In effetti, la bellezza e l’omogeneità architettonica di tanti borghi e centri storici che costellano queste zone si devono proprio ai radicali interventi di ricostruzione successivi a grandi sismi avvenuti in passato.
L’Italia è una meravigliosa penisola circondata per tre lati dal mare, con due catene montuose tra le più imponenti del continente: proprio queste montagne sono il risultato del contrasto di opposte masse tettoniche, quella euroasiatica e quella africana, che si spostano l’una contro l’altra di qualche millimetro all’anno, innescando un fenomeno che i geologi definiscono tecnicamente orogenesi. Si tratta di un meccanismo paziente e inesorabile che in milioni di anni ha portato a variazioni nel livello di altitudine del terreno fino a creare splendidi paesaggi montuosi. Tutto questo però ha un prezzo: nello scontro tra placche si creano progressivamente tensioni e attriti che, superata la resistenza di rottura del terreno, tendono a rilasciare l’energia accumulata nell’arco di pochi secondi. Se osserviamo una carta sismica storica del Paese, possiamo notare come le zone più a rischio erano già state codificate nel 1900 – quando ancora nessuno poteva prendersela con il fracking (peraltro mai praticato in Italia) o le trivelle.
È molto grave, oggi che abbiamo strumenti per catalogare e analizzare cosa è successo in passato, che ancora ci facciamo prendere alla sprovvista, e lo è ancora di più che questo accada alle istituzioni, che dovrebbero tutelare la nostra incolumità. È un problema soprattutto perché l’Italia vanta i più avanzati studi sui temi della ricostruzione e ha ideato ed esporta all’estero le teorie e le pratiche più raffinate di tecnica antisismica preventiva applicata agli edifici. Nessuno ha basi scientifiche e gli strumenti per predire quando un terremoto avverrà, ma possiamo indicare con un certo margine di esattezza il dove e con quale probabile intensità massima. Per cui, buon senso vuole che le costruzioni in quell’area vengano realizzate in modo da garantire la massima sicurezza. I nuovi edifici tengono conto di stringenti normative tecniche in questo senso, ma il problema – e non solo sull’Appennino – è la mole di edifici esistenti, in gran parte strutturalmente inaffidabili. L’enorme quantità di costruzioni inagibili dopo le scosse testimonia concretamente questa cronica e diffusa inadeguatezza.
Altro problema di irresponsabilità è il modo in cui vengono eseguiti gli interventi nell’edilizia storica e monumentale, che spesso ospita funzioni di carattere pubblico ed è perciò soggetta ad accogliere grandi masse di persone: ci si accontenta di ripristini superficiali, anziché affinare le maniere più adatte di intervento nell’ottica di una conservazione preventiva, prima che l’emergenza colpisca di nuovo.
L’Italia è un Paese piuttosto disinvolto nel rapporto con la norma, in cui – ed è uno dei principali problemi per cui non parte la ricostruzione – oltre l’80% degli edifici inagibili presenta delle difformità rispetto allo stato approvato, alcune delle quali non facilmente sanabili. Ovviamente non si può arrivare a pretendere che lo Stato eroghi contributi pubblici per ripristinare opere abusive o per le quali non sono state versate le tasse dovute, ma neppure è sensato bloccarsi in uno stallo alla messicana. Per superare questa impasse, Anci Marche, in una proposta sottoscritta anche da Legambiente e Fondazione Symbola per le qualità italiane, aveva suggerito di regolarizzare automaticamente le difformità fino al 20% (purché ricostruite a spese del privato e a norma di legge), ma nel luglio 2018 la Camera ha approvato – rigettando in blocco qualsiasi emendamento proposto dalle opposizioni – una legge che ratifica una quota blindata del 5%.
Il dramma dei morti del terremoto non è da imputare al destino cinico e baro. Il problema reale, oltre alle faglie in movimento da milioni di anni, siamo proprio noi italiani, noi cittadini, e chi mandiamo a rappresentarci nelle istituzioni, i tecnici che incarichiamo. Ciascuno di noi – da rappresentanti e da elettori – dovrebbe pretendere con forza che la normativa venga rispettata da ogni costruzione privata e pubblica per limitare i danni. Il Sismabonus, fortemente voluto dal ministro Delrio nella scorsa legislatura, era proprio finalizzato a incentivare l’adeguamento agli standard antisismici degli edifici dell’intero territorio nazionale, grazie all’aiuto di ingenti recuperi fiscali (dal 70 all’85% in cinque anni, con cessione del credito alle imprese costruttrici per gli incapienti). Una manna dal cielo quasi del tutto ignorata dagli italiani, molti dei quali erano impegnati su altri fronti – come i complotti sulla magnitudo, i vaccini da rifiutare per i propri figli, gli sbarchi di rifugiati da respingere, e via dicendo.
In ogni caso, confusione sulle priorità dell’Italia a parte, non siamo in condizione di permetterci due anni di stato di emergenza in aree del Paese già in equilibrio precario tra la necessità di valorizzare potenzialità poco sfuttate e rischio di spopolamento. La risposta delle istituzioni è che si tratta di un problema complesso e che si sta cercando di affrontarlo nel migliore dei modi: ok, è un problema complesso, ma è anche un problema già risolto più volte in passato e con discreto successo, con tempi di reazione decisamente più rapidi. E poi basta piangersi addosso: non siamo i soli al mondo ad avere il rischio terremoto, e non siamo i primi a doverlo affrontare. In Giappone, nella fascia che va dall’area metropolitana di Tokyo al sud-ovest del Paese, la probabilità di scosse disastrose con magnitudo tra 8 e 9 è data dai sismologi al 70% nel prossimo trentennio. Ma i giapponesi sono già pronti, con anni di anticipo. Innanzitutto, qualsiasi infrastruttura o nuovo edificio – residenziale e non – dev’essere per legge antisismico, ed edifici e infrastrutture vengono continuamente rinnovati e sottoposti a manutenzione. Nel solo 2016 è stato previsto un budget addizionale di spesa pubblica di oltre 4.500 miliardi di yen (circa 38,6 miliardi di euro) tra investimenti diretti, contributi e sgravi fiscali per le strategie e le attività di prevenzione antisismica.
Non è stato diramato un dato ufficiale, ma fonti riservate della regione Marche – in base agli esiti delle schede AeDES di rilevazione dei danni sui singoli edifici pubblici e privati, già in possesso degli Uffici Speciali per la Ricostruzione nel Cratere – indicano che questo sisma ha prodotto danni materiali per almeno 23 miliardi di euro, inserendolo al secondo posto per gravità dopo quello dell’Irpinia del 1980, ad oggi arrivato a 52 miliardi di fondi pubblici stanziati. Il fatto nuovo è che, a quanto sembra, stavolta i soldi ci sarebbero e anche subito: 13 miliardi sono già programmati tra risorse del Fondo di Solidarietà della Commissione europea e risorse nazionali per le emergenze, altri 7 saranno disponibili nei prossimi 3 anni. Ma per assurdo sono arrivati prima i soldi della soluzione.
Sarebbe opportuno mettersi d’accordo sul fatto che vivere in un’area a rischio sismico come l’Italia comporta un impegno particolare: informativo, logistico, ma soprattutto economico. Un impegno che va profuso con costanza e razionalità a monte, e non dopo il dramma. Sarebbe opportuna, ora o mai più, l’attivazione coordinata di una solida mappatura degli edifici e delle infrastrutture esistenti e di un archivio/atlante dei precedenti processi di manutenzione e ricostruzione contro la damnatio memoriae delle buone pratiche passate. Sarebbe opportuno che per il riavvio di un territorio considerato patrimonio universale si promuovesse un processo di dialogo vero tra cittadini ed esperti di chiara fama planetaria (sociologi, economisti, psicologi, architetti e urbanisti, donne e uomini di cultura da tutto il mondo) capaci di infondere nuova linfa e nuovo ottimismo. Con l’obiettivo di fare dell’Appennino il più grande laboratorio condiviso di riqualificazione urbana e territoriale in Europa, e valorizzarlo come una delle risorse strategiche di questo Paese, come già previsto dal progetto APE – Appennino Parco d’Europa.
Si dovrebbe fare in modo che questa rappresenti l’ultima emergenza sismica italiana, e che nelle prossime malaugurate occasioni ci si trovi già preparati con procedure e catene di comando definite. Il terremoto è uno stress-test che, ogni volta, torna a ricordarci i nostri limiti, e a esporre i nostri peggiori difetti. Perché sì, siamo il giardino d’Europa, e la punta di diamante della ricerca scientifica più avanzata nel campo della prevenzione antisismica, ma anche più genericamente la terra del chiagne e fotte, di fatalisti procrastinatori allergici alla prevenzione e di virtuosi dello stato di emergenza di routine. Proprio il terremoto avrebbe dovuto insegnarci che la pazienza ha un limite, e che la tensione accumulata per anni presto o tardi viene liberata. Ma siamo in Italia, oggi è una splendida giornata di sole, e come sempre ce ne accorgeremo troppo tardi.