Siamo nel salotto di Porta a Porta, Bruno Vespa fa una domanda a Virginia Raggi sulla decisione del Consiglio comunale di dedicare una strada di Roma a Giorgio Almirante. Tutto parte da una mozione di Fratelli d’Italia; il M5S vota a favore, il Pd è assente dall’aula per protesta, a causa dello tsunami che si è abbattuto sulla giunta Raggi: lo stadio, Lanzalone, Ferrara, la sindaca ignara di tutto. Il Consiglio approva.
Virginia Raggi guarda Vespa, nei suoi occhi si legge lo stupore. Dichiara di non saperne niente, non era presente in aula. Parla poi della sovranità del Parlamento, giustificando la decisione.
Nella nottata tutto si ribalta. Dietrofront della Raggi: nessuna strada a Roma sarà dedicata ad Almirante. La sindaca prepara una mozione per vietare l’intitolazione di strade a esponenti del fascismo o persone che si siano espresse con idee antisemite o razziali.
Una mattina di maggio del 1944 gli abitanti del grossetano si svegliarono e trovarono i muri dei paesi tappezzati di manifesti. Si trattava di un ultimatum della Repubblica sociale italiana, in cui si chiedeva ai militari sbandati o appartenenti a bande di presentarsi, disarmati, ai posti militari italiani o tedeschi. Il testo si concludeva con questa frase: “Tutti coloro che non si saranno presentati saranno considerati fuori legge e passati per le armi mediante fucilazione nella schiena.” Firma del documento: il capo di gabinetto del ministro Mezzasoma, Giorgio Almirante.
Qualche settimana dopo, nella notte tra il 12 e il 13 giugno, giungeva a Niccioleta un battaglione di SS italiane e tedesche. Il borgo ospitava i lavoratori della miniera, provenienti da tutta la provincia di Grosseto. Da qualche giorno era diventato presidio dei partigiani, che nulla potevano contro la furia fascista, pronta a punire i disertori che non avevano obbedito al manifesto firmato da Almirante. Sei minatori vennero subito fucilati, con l’accusa di connivenze con i partigiani. Altri centocinquanta catturati e portati a Castelnuovo di Val di Cecina. Gli operai a Niccioleta avevano organizzato dei turni di guardia per proteggere gli impianti minerari contro le distruzioni tedesche, questa la loro colpa. Ventuno di loro furono deportati in Germania, altri rilasciati. I settantasette operai rimasti vennero portati in una cava tra i soffioni boraciferi di Larderello e trucidati. Tutti.
Trent’anni dopo, l’Unità pubblicò quel manifesto firmato da Almirante. Il segretario del Movimento Sociale Italiano replicò con sdegno, parlando di un documento falso e calunnioso. Minacciò querele, ma il giornale insistette nel ribadire la veridicità del manifesto. Si passò alle vie legali e la battaglia in tribunale durò anni. L’8 maggio del 1978 arrivò la sentenza definitiva: il quotidiano venne assolto “per avere dimostrato la verità dei fatti” e Almirante condannato al risarcimento danni e alle spese processuali.
Nel 1938 Almirante diventò segretario di redazione della rivista La difesa della razza. Nel numero del 5 maggio del 1942, Almirante scriveva: “Il razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti, se vogliamo che in Italia ci sia, e sia viva in tutti, la coscienza della razza. Non c’è che un attestato col quale si possa imporre l’altolà al meticciato e all’ebraismo: l’attestato del sangue.” La rivista, che venne stampata fino al 1943, sin da subito si accodò al pensiero del Manifesto della Razza, sotto il vessillo dell’antisemitismo.
Dopo la fine della guerra Almirante decise di restare in clandestinità, per poi riapparire nel 1946 per la fondazione dei Fasci di Azione Rivoluzionaria e, pochi mesi dopo, per partecipare alla nascita dell’Msi, di cui diventò segretario nazionale l’anno successivo. In quel periodo i comizi del partito faticavano a prendere piede. L’Italia portava ancora le cicatrici della guerra e del fascismo, e gli interventi in piazza di Almirante vennero osteggiati in ogni modo dai militanti comunisti. Qui capì che la via da seguire era quella di una rinnovata politica di destra: trascendere il fascismo e concentrarsi sulla difesa dell’italianità sul territorio nazionale; quindi dismettere i panni dello squadrista duro e puro, mantenendo quelle radici nascoste, ma non del tutto sotterranee. Una moderazione a metà. Così prevalse la tattica dell’ars oratoria, del farsi rispettare anche dagli avversari, di una nuova conformità al panorama politico italiano.
L’esempio più celebre è l’ultimo saluto al rivale politico Enrico Berlinguer, nel 1984. Almirante si presentò alle Botteghe Oscure, venne ricevuto da Nilde Iotti e poi si avvicinò alla bara di Berlinguer. Si fece il segno della croce, chinò la testa e rimase per qualche secondo a contemplare il feretro. Poi abbandonò l’edificio. Una troupe cinematografica gli chiese di ripetere l’uscita, per immortalare l’evento. Lui obbedì. Dichiarò: “Non sono venuto per farmi pubblicità, ma per salutare un uomo estremamente onesto.”
Eppure la cortina di nebbia non abbandona la figura di Almirante. Nel 1972, a Peteano, i neofascisti di Ordine Nuovo compirono un atto terroristico, uccidendo tre carabinieri. Tra i fautori della strage c’era Carlo Cicuttini dell’Msi, che si diede alla latitanza in Spagna. Le indagini fecero emergere un pagamento di 35mila dollari, tramite una banca di Lugano, da parte di Almirante a Cicuttini. Quei soldi servivano a Cicuttini per un’operazione alle corde vocali, attraverso cui camuffare la voce e non farsi rintracciare. Almirante nel 1986 venne rinviato a giudizio per il reato di favoreggiamento aggravato, ma si trincerò dietro l’immunità parlamentare. La vicenda non si chiuse né con una condanna, né con un’assoluzione: a salvarlo arrivò un’amnistia.
Dopo la sua morte Almirante ha ottenuto lo scopo che si era prefissato: la riabilitazione. Già in tante città italiane esistono strade che portano il suo nome. Il colpo di spugna sul suo passato è stato reso possibile grazie alla sua presunta palingenesi politica, al suo magnetismo verbale, al tentativo di creare una destra meno nera, pur restando nel pantano delle contraddizioni – il nero resta tale, a prescindere dai riflessi che si vogliono infondere. Ma è compito dello Stato e della comunità non seppellire la memoria.
Roma, capitale d’Italia e città delle Fosse Ardeatine, non avrà una strada dedicata ad Almirante, ed è giusto così.