Come ogni anno, nel mese del Pride arriva qualcuno a dire che la “A” della sigla LGBTQIA+ (la variante estesa di “LGBTQ+”) stia per “Ally”, ovvero alleati. Con questo termine si indicano tutte quelle persone che, pur essendo etero e cisgender, scelgono di appoggiare apertamente e sistematicamente la comunità LGBTQ+, marciando al suo fianco durante i Pride o impegnandosi in associazioni di promozione dei diritti civili. In realtà, però, la “A” sta per asessuali, cioè persone che non provano attrazione fisica verso nessun genere e che hanno tutto il diritto di stare all’interno di una sigla che identifica orientamenti sessuali e identità di genere diversi dall’eteronormatività. Il dibattito sull’alleanza con i gruppi marginalizzati è stato molto acceso anche in occasione delle proteste che sono seguite negli Stati Uniti alla morte di George Floyd, dove molti politici e personaggi famosi bianchi, nonché aziende di proprietà di bianchi, sono stati accusati di sostenere Black Lives Matter solo per ottenere visibilità o, ancora peggio, per monetizzare.
Gli alleati della comunità LGBTQ+ hanno seguito il movimento sin dalle sue origini: nel 1973, quattro anni dopo le rivolte di Stonewall, a New York Jeanne Manford – madre di un ragazzo gay insignita nel 2012 della medaglia presidenziale, la più alta onorificenza civile negli Stati Uniti – fondò PFLAG, Parents and Friends of Lesbians and Gays, un’associazione di supporto che riuniva e tuttora riunisce i genitori e gli amici di persone gay, lesbiche e trans. Tra gli obiettivi dell’associazione c’era sia l’aiuto verso chi aveva avuto un coming out in famiglia e magari faticava ad accettarlo, sia verso i membri stessi della comunità che necessitavano di un supporto economico, sanitario e sociale. Sicuramente il ruolo di “ponte” tra i movimenti di liberazione e il resto della società che svolsero gruppi come PFLAG è stato importante per normalizzare l’esistenza e le istanze della comunità, ma ciò non significa che gli alleati ne facciano parte. Purtroppo, però, molti alleati spesso proprio non ce la fanno a capire questo concetto: sentirsi parte di un gruppo è bello, ma se tale gruppo si identifica per delle caratteristiche che una persona non ha, non si può pretendere di entrarvi a fare parte “di diritto” solo perché se ne accetta l’esistenza.
Questo discorso vale sia per gli etero ai Pride, che per i bianchi rispetto al movimento nero, che per i maschi che si avvicinano ai femminismi: in quanto persone privilegiate, non dobbiamo mai dimenticare che le difficoltà che possiamo incontrare nel supporto alle categorie marginalizzate non sono equiparabili a quelle di chi subisce l’oppressione. Un razzista che vede un bianco marciare con Black Lives Matter potrà insultarlo, ma una volta finita la protesta il bianco resterà bianco e non subirà il razzismo sistemico che vive un nero. Per essere dei buoni alleati, infatti, il primo passo è accettare il proprio privilegio all’interno della società, e capire come esso influenzi la propria vita e quella degli altri.
Anche se può sembrare una cosa banale, in molti non sembrano voler accettare l’idea di avere dei privilegi: un esempio è dire frasi come “Non vedo differenze tra i colori della pelle” o “Per me le persone sono tutte uguali”, magari in risposta a una persona che racconta la propria esperienza di discriminazione. In una società gerarchizzata come la nostra, dire una cosa del genere significa ignorare deliberatamente che caratteristiche come l’orientamento sessuale, l’identità di genere, l’etnia, o l’essere abili o meno sono dispositivi che creano divisioni e differenze che vanno ben al di là della percezione di una singola persona. In più, significa anche ignorare l’importanza che per queste persone ha la propria identità, pretendendo di mettere tutti in uno stesso calderone dove, ad esempio, la storia dei Paesi colonizzatori è in qualche modo equiparabile a quella dei Paesi colonizzati.
Secondo il sociologo Keith E. Edwards, sono tre i motivi per cui si diventa alleati di una causa o di un movimento. Spesso queste tre spinte agiscono come fasi, per cui si passa da una all’altra mano a mano che ci si migliora. Il primo è l’interesse personale: si diventa ally per sostenere una persona alla quale teniamo e che vogliamo proteggere. Il problema è che chi si mostra solidale per questa motivazione tende a non esserlo altrettanto quando la persona in questione non è presente, oppure a condannare la discriminazione solo quando è rivolta a lei e non al gruppo di cui fa parte. In generale, gli alleati per interesse personale pensano che il mondo sia giusto e che il sessismo, il razzismo o l’omotransfobia siano “semplicemente” delle eccezioni perpetrate da individui cattivi. Chi ragiona in questo modo è portato ad assumersi il ruolo di eroe o salvatore in dovere di intervenire per difendere le vittime dell’oppressione e rifiuta di riconoscersi come parte del problema.
Chi comincia a interrogarsi sul proprio privilegio, secondo Edwards, diventa poi un alleato per altruismo: questa presa di consapevolezza spesso, infatti, si trasforma in senso di colpa, per cui ci si sente in dovere di fare qualcosa. “La colpa può essere uno strumento per passare da una concettualizzazione dell’oppressione a una connessione di tipo emotivo”, scrive il sociologo. “Tuttavia, non può essere la sola motivazione, perché il senso di colpa in sé non cambia il sistema che garantisce privilegi ad alcuni e opprime altri”. Anche in questo caso l’istinto è quello di atteggiarsi da eroi, anche se il meccanismo che subentra è diverso: ci si sente in colpa per la propria condizione privilegiata e si tenta di rimediarvi, spesso finendo col diventare paternalisti. “L’aspirante alleato pensa che i suoi sforzi caritatevoli e altruisti debbano essere accolti con gratitudine e approvazione da coloro che fanno esperienza dell’oppressione”, scrive Edwards. “In questo mondo, il loro senso di colpa può diventare una responsabilità degli oppressi, che devono rassicurare e supportare l’alleato, finendo ancora una volta col far pesare un’oppressione a chi già la sperimenta”.
L’ultimo stadio dell’alleanza è la giustizia sociale. Chi è mosso da questa motivazione capisce che il suo ruolo è impegnarsi per e con gli altri, non al posto loro. È convinto che la giustizia sociale sia un beneficio per tutti e che il sistema vada cambiato per raggiungere questo obiettivo. Per questo riconosce le relazioni tra le oppressioni (quello che il femminismo chiama intersezionalità) e fa i conti con il proprio privilegio all’interno della società. Non sente il bisogno di partecipare a tutti i costi alla comunità che sostiene – come hanno fatto, ad esempio, le beauty guru di Instagram che hanno pensato che la blackface fosse un bellissimo modo per solidarizzare con Black Lives Matter – ma nemmeno di prendervi le distanze rimarcando la propria normatività – come fa chi va al Pride con cartelli che specificano il proprio orientamento eterosessuale, non sia mai che lo scambino per gay. È proprio l’esigenza che sentiamo di voler essere uguali a chi sosteniamo (magari per sottolineare che per noi le differenze non esistono) pur continuando a rimarcare la nostra normalità che dovrebbe farci riflettere sul vero scopo del nostro attivismo: lo facciamo perché va di moda, perché ci piace avere uno scopo nella vita o perché ci crediamo davvero?
Le cosiddette identity politics possono avere una grande attrattiva anche per chi non vi fa direttamente parte: riconoscersi in un gruppo soddisfa il nostro bisogno di appartenenza ed è ancora meglio se questo gruppo si identifica con i valori del progresso e dell’inclusione che anche noi abbracciamo. Ma dobbiamo sempre tenere a mente che la comunità LGBTQ+, i femminismi o i movimenti come Black Lives Matter non esistono per far contenti noi. Se vogliamo davvero essere dei bravi alleati non dobbiamo mai permettere che la nostra voce cancelli quella di chi è investito nella lotta in prima persona. Quello che possiamo fare, invece, è lavorare su noi stessi e continuare a educarci, avendo l’umiltà di ascoltare chi è oppresso e la prontezza di fare un passo indietro quando è necessario. Essere dei bravi alleati non è facile, ma lo è ancora meno subire sistematicamente discriminazioni e abusi per le proprie caratteristiche. Per questo il minimo che possiamo fare è impegnarci affinché l’ennesima persona che li perpetra non sia chi pensa di aiutare.