“Siamo contrari all’aborto, in ogni sua forma tra l’altro. Anche quello dei cani”: sembra una frase grottesca da routine di stand up comedy, e invece è stata pronunciata seriamente in prima serata da Alfonso Signorini, conduttore del Grande Fratello Vip. Il contesto è quello di uno scherzo al concorrente della trasmissione Giucas Casella, a cui è stato comunicato che la sua cagnolina è rimasta incinta. Quando Casella ha detto che avrebbe considerato di far interrompere la gravidanza dell’animale, Signorini ha replicato con una condanna senza appello all’aborto. Che parole del genere vengano pronunciate con tanta leggerezza in televisione, in un Paese in cui l’aborto è legale da più di quarant’anni, è davvero inconcepibile, anche a fronte delle crescenti minacce ai diritti riproduttivi in tutto il mondo.
L’uscita di Signorini non è certamente un unicum nel panorama mediatico italiano. In Italia di aborto si parla poco e male, alimentando spesso la disinformazione e appoggiandosi a una retorica del dolore che mette insieme le esperienze più diverse, quando a interrompere la gravidanza sono donne di ogni età e di ogni condizione, e per i motivi più disparati su cui nessuno può permettersi di sindacare. L’uscita di Signorini, oltre a essere inopportuna in un contesto come quello di un reality show, generalizza la questione con un “noi” che manca di rispetto all’autonomia decisionale delle donne. Non si sa infatti quale sia il “noi” di cui sta parlando, se è un plurale maiestatis, un “noi della redazione del programma” o un “noi italiani”: se così fosse, qualcuno dovrebbe ricordargli che nel 1981 il 68% degli italiani si espresse a favore della legge 194/78 con un referendum abrogativo.
Signorini è libero, come ogni persona, di avere una propria opinione sull’aborto, ma forse non è il caso che la sbandieri in un contesto come quello del Grande Fratello Vip, un programma sulla tv generalista che, piaccia o no, viene visto ogni settimana da milioni di italiani. Non solo perché Signorini è una figura pubblica con una certa influenza e non è una persona qualunque che esprime la sua opinione al bar, ma anche perché quelle affermazioni arrivano in un momento in cui l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza nel nostro Paese, così come purtroppo in tanti altri, è reso sempre più difficile. Questo attacco generalizzato alla 194 non passa solo attraverso l’obiezione di coscienza al 70%, le mozioni anti-scelta delle amministrazioni cittadine o il rifiuto di aggiornare le linee guida sull’aborto farmacologico per impedirne consapevolmente il ricorso, ma anche attraverso un clima giudicante nei confronti di chi interrompe una gravidanza, pur facendolo nel rispetto di una legge dello Stato e di un diritto per la tutela della salute che è stato riconosciuto come tale dalle più importanti organizzazioni internazionali e da istituzioni come il Parlamento europeo e l’Oms.
In un Paese dove esistono associazioni religiose che seppelliscono i feti a insaputa delle donne, in cui alcune città decidono di piantare un albero per ogni aborto effettuato, in un cui alle donne viene costantemente ricordato che si tratta di omicidio, con che spirito si può effettuare un’Ivg senza sentirsi addosso il peso di questo giudizio? Queste forme di invalidazione dell’esperienza personale, dell’autonomia corporea e della scelta individuale sono tanto dannose per le donne quanto la presenza degli obiettori negli ospedali, e se è già difficile risolvere questo problema per il quale basterebbe modificare un articolo di una legge già esistente, figuriamoci innescare un cambiamento del modo in cui si parla di aborto. I dati che abbiamo a disposizione arrivano alla conclusione che lo stigma sull’aborto è dannoso per le donne che ne hanno avuto uno, ma anche per i medici che devono praticarlo, con conseguenze negative sull’accesso al servizio.
Il problema principale è che questa retorica non è appannaggio solo di estremisti religiosi o conservatori che vorrebbero tornare all’epoca in cui l’unica funzione sociale della donna era di stare in casa a fare figli. Come dimostra l’affermazione di Alfonso Signorini, può ricorrervi anche il presentatore di un programma tv trash, così come fanno di continuo anche persone che non sono necessariamente contrarie alla 194. La scrittrice femminista Dacia Maraini in un’intervista di pochi giorni fa definiva “sempre dolorosa” la decisione di abortire e la legge 194 “non una conquista felice” per le donne. Allo speciale del Tg3 “Aborto, battaglia infinita” andato in onda il 26 ottobre, dedicato proprio agli ostacoli crescenti nell’accesso all’interruzione di gravidanza, l’aborto viene definito più volte “una scelta dolorosissima” e “un dramma che [ci] si porta dentro tutta la vita”. Ed è solo quello che si è detto nell’ultimo mese.
Questa sembra l’unica retorica possibile: anche quando si parla di aborto senza dichiararsene esplicitamente contrari, si deve sempre precisare che è sempre e comunque qualcosa di terribile. Per il resto, meglio non toccare l’argomento: come ha ricostruito la giornalista Giulia Siviero, la prima volta in cui abbiamo visto in una serie tv italiana una donna interrompere volontariamente una gravidanza è stato nel 2018 (a quarant’anni dalla legge 194), in una puntata di La mafia uccide solo d’estate su Rai 1. Non che prima il tema non fosse mai stato affrontato, ma andava sempre a finire con la donna che cambiava idea e decideva, spesso all’ultimo, di portare avanti la gravidanza. Oppure, come nel caso del famoso episodio “La scelta di Sara” de I ragazzi del muretto, la scelta finale veniva anticipata da un aborto spontaneo.
L’unico modo corretto per parlare di aborto sarebbe di attenersi alla realtà. Per alcune persone è sì una scelta dolorosa e difficile, ma ciò non rende questa esperienza universale. Altre la prendono con maggiore determinazione e distacco, ma questo non significa che sia così per tutte. Per lo stesso motivo, è anche sbagliato ricorrere ad esempi estremi per difendere la libertà di scelta: Signorini ha detto che è contrario all’aborto “in ogni sua forma”, cioè anche a quelle situazioni per cui persino gli Stati più oscurantisti fanno un’eccezione. La durissima legge sull’aborto in Polonia, ad esempio, prevede l’eccezione dello stupro e dell’incesto, oltre che del pericolo di vita della donna. L’aborto, però, non va difeso solo per i casi eccezionali, ma affinché tutte le donne possano accedervi in totale autonomia e per loro libera scelta. Su questo bisogna ancora combattere più che agire in difesa, visto che la motivazione al momento in Italia deve rientrare in quelle previste dalla legge 194. Gli estremi al contrario funzionano benissimo nella retorica antiabortista, che ci bombarda di racconti di aborti al nono mese e di donne che abortiscono sei o sette volte, come se quella fosse la normalità. Ma basta guardare la Relazione annuale del Ministro Salute per rendersi conto che la realtà è ben diversa: la maggior parte delle interruzioni di gravidanza in Italia avviene, secondo i referti, prima dell’ottava settimana e solo il 5,4% dopo la dodicesima. L’82% delle donne che ricorrono all’aborto lo fa per la prima volta e il numero di quelle che ne hanno ripetuti più di due è inferiore al 5%.
Già riuscire ad abortire entro i termini stabiliti dalla legge senza incontrare nessun ostacolo – dagli sportelli antiabortisti dentro gli ospedali, ai medici obiettori, agli infermieri che non somministrano antidolorifici con un’interpretazione tutta particolare dell’obiezione di coscienza – in questo Paese sembra un’impresa. Doversi anche sobbarcare il giudizio non richiesto dei media sembra un accanimento. Dopotutto, qui è normale dare spazio alle “provocazioni” di chi propone di vietare l’aborto per cinque anni per rilanciare la natalità e dove nessuno si pone il problema che forse è inopportuno corredare ogni articolo sull’aborto con immagini di pance al nono mese o donne in lacrime. Cosa vuoi che sia ricordare per l’ennesima volta che l’aborto è sbagliato, anche quando sei la cagnolina di Giucas Casella.