Pur amando molto le montagne ed essendo una grande appassionata di storie di alpinismo, ho sempre pensato di soffrire di vertigini. Nonostante ciò – per non accettare una limitazione della mia libertà e della mia esperienza – non mi sono mai rassegnata a questo scherzo che sembravano giocarmi corpo e mente – e occhi e orecchi – ogni volta che mi trovavo su un sentiero più o meno esposto, o anche solo a una differenza di quota, ontologicamente inevitabile per il paesaggio montano. Ma è vero che – come tutti noi discesa-fobici sappiamo – le etichette date ai sentieri tradiscono un enorme bias, ovvero che le hanno scelte persone che di montagna se ne intendono a pacchi e per cui cose che ti spezzano il fiato o ti terrorizzano sono obiettivamente “facili”. Così, la salita non ferrata e ben poco attrezzata per raggiungere la vetta dell’isola di Tavolara diventa un “sentiero semplice”, ma gli esempi potrebbero essere infiniti. Ad ogni modo, era da anni che cercavo di addomesticare questo senso di vertigine, finché non l’ho provato, tale e quale, in mezzo al mare. A quel punto – anche senza essere iscritta alla facoltà di psicologia – ho capito che qualcosa non andava e che – evidentemente – mi trovavo di fronte a un enorme fraintendimento cognitivo. Non potevo soffrire di vertigini in acqua, peraltro su un fondale di poco meno di due metri.
Ebbene: non soffrivo di vertigini, ma di agorafobia, che a quanto pare si era estesa per un periodo anche nel mio elemento d’elezione, l’acqua, restringendo ulteriormente la mia libertà. L’agorafobia infatti non è quello che pensiamo che sia – la paura degli spazi molto affollati – ma qualcosa di molto più sottile e per certi aspetti complesso. Il termine agorafobia deriva dalla parola greca ἀγορά (agorà) che significa “piazza”, da ἀγείρω, “raccolgo”, “raduno”, e i primi utilizzi della parola che sono stati fatti in ambito psicologico e psichiatrico si rivolgevano a persone che avevano paura dei luoghi affollati. Per questo non pensavo di soffrire di agorafobia mentre mi trovavo sulle Alpi, o in mare, lontana dalla costa, neanche troppo a dire il vero. In realtà chi ha sintomi di agorafobia teme proprio quelle situazioni in cui è difficile scappare, o ricevere soccorso, perché isolato, lontano, solo. La paura nasce dal trovarsi soli in posti o situazioni da cui sarebbe difficile allontanarsi, oppure in cui un aiuto non potrebbe essere immediatamente disponibile. C’è dunque la possibilità che qualcosa di terribile e irreparabile accada. Da qui l’evitamento di questi luoghi, per tenere sotto controllo l’ansia e un’eventuale crisi di panico. L’agorafobia fa parte infatti dei disturbi d’ansia e può essere innescata anche da un’esposizione anticipata – ovvero immaginata, prevista, prefigurata – di una certa situazione.
Nella maggior parte dei casi, l’agorafobia emerge come sintomo secondario di attacchi di panico o crisi d’ansia e viene diagnosticata come tale quando chi la prova inizia a evitare a tutti gli effetti i luoghi, i contesti e le situazioni in cui potrebbe essere appunto difficoltoso essere aiutati, come guidare la macchina, frequentare luoghi molto affollati, prendere l’aereo, ma anche l’autobus o la metropolitana, trovarsi in ascensore, o magari su un lungo ponte, trovarsi imbottigliati nel traffico, fino in alcuni casi uscire da soli, ma anche vivere da soli, trovarsi in casa da soli. Questi evitamenti se ignorati possono peggiorare e arrivare a compromettere le nostre attività quotidiane, minando le nostre relazioni sociali e la nostra carriera lavorativa.
Il problema, però, è che spesso prima di ottenere una diagnosi si finisce per restringere sempre di più il proprio campo d’azione, un anello alla volta, sottovalutando il problema o magari anche perché questi disagi per vergogna o per non apparire deboli vengono nascosti. Così, uno non guida la macchina come scelta ecologica, non prende l’aereo per ridurre la sua impronta ambientale o perché non ama i tempi morti, non fa viaggi in autostrada perché preferisce leggere in treno, non fa trekking perché preferisce il mare, e non va in mare perché preferisce la piscina. A volte, poi, il problema è ancora più difficile da riconoscere perché certe situazioni e attività non vengono evitate, ma affrontate con spontaneità grazie alla presenza di una persona di cui ci si fida. Le difese, però, come gli evitamenti e i comportamenti protettivi, nonostante possano rivelarsi molto utili ed efficaci sul momento, nel lungo periodo non permettono di affrontare il problema e rappresentano anzi fattori che contribuiscono ampiamente a mantenere il disturbo.
La terapia cognitivo-comportamentale per il trattamento dell’agorafobia, oltre a esporre in maniera sistematica e controllata il soggetto all’elemento che suscita la sua ansia, prevede una psicoeducazione iniziale e interventi cognitivi. Sono state infatti sviluppate strategie per incrementare la capacità di stare a contatto con l’elemento che attiva l’ansia senza temerne le conseguenze catastrofiche e irreparabili, favorendone così l’accettazione e diminuendo il bisogno di controllo. In alcuni casi, poi, se lo psicoterapeuta lo ritiene necessario, è possibile rivolgersi anche a uno psichiatra per affiancare la terapia comportamentale con un aiuto farmacologico. La psicoterapia risulta fondamentale per la guarire dall’agorafobia, e in questo frangente gli psicofarmaci possono effettivamente avere buoni risultati all’inizio nel contenere i sintomi ansiosi e gli episodi di panico nel breve termine, aiutando a disinnescare certi meccanismi emotivi. È anche vero, però, che possono generare una forte dipendenza psicologica, al pari degli accompagnatori che offrono un senso di protezione in determinate situazioni. Inoltre, in molti casi, quando vengono sospesi i sintomi si ripresentano da capo. È quindi necessario un approfondito e costante lavoro sulla mente e sulle reazioni che ha sul corpo.
Per farlo può essere utilissimo intraprendere di pari passo alla psicoterapia anche un percorso di tai chi o di yoga, sia statico che dinamico, per imparare ad affinare l’ascolto delle sensazioni che emergono da corpo e mente, così come dalla loro rapporto, mettendo in relazione movimento e respiro e capendo mano a mano come osservare i nostri stati d’animo senza farsene sopraffare, anzi, magari indirizzandoli. Di pari passo la pratica delle posizioni o delle varie sequenze può essere arricchita da esercizi di respirazione specifici come quelli proposti tra le tecniche di pranayama o anche dal qi gong, e a seguire poi, una volta che si sente di avere più cognizione del proprio corpo, ci si può avvicinare alla meditazione, magari partendo dalla mindfulness, che risulta per certi aspetti più facilmente accessibile. Anche i massaggi, se ripetuti a cadenza regolare, possono avere in tempi abbastanza brevi ottimi risultati, contribuendo a rilassare il diaframma e altri muscoli accessori che involontariamente contraiamo e contribuiscono alla crescita esponenziale dell’ansia.
Sì, fa male e mi costa fatica ammetterlo, ma di fronte a un problema non ci sono molti modi diversi per superarlo se non partendo dal riconoscerlo. La cosa importante, che tanti strumenti possono aiutarci a fare, è sforzarsi giorno dopo giorno di mantenere la lucidità per non farsi fagocitare dal problema, magari accorgendosene ai suoi esordi, e anche quando tutto precipita non vergognarsi mai di chiedere un aiuto. Amando l’acqua in un assurdo modo viscerale per essere nata in dicembre, ho preso il problema di petto e pochi giorni dopo che mi sono resa conto della mia preoccupazione immotivata nel trovarmi a pochi metri dalla costa, e sapendo nuotare discretamente bene, ho noleggiato un gommone e sono andata a nuotare veramente al largo per testare le mie reazioni. L’azzurro che sa avere il mare mi ha immediatamente rassicurata, anche se paradossalmente ero in una situazione potenzialmente più rischiosa. Ho capito allora che l’ansia nasceva dall’allontanarmi – lentamente – dalla costa, non dal mare in sé. Come se quel movimento mi strappasse a una sorta di abitudini gravitazionali rassicuranti intorno alle quali ha iniziato a ruotare la mia vita, qualcuno li chiamerebbe punti di riferimento. Ho deciso allora di tenere allenata questa capacità, che prevede un netto cambio di prospettiva, e che per certi aspetti appare quasi come una filosofia, o meglio, una praxis.
Darci occasione di saggiare i nostri limiti, vicini o lontani che siano, sempre mutevoli, ci permette di capire chi e cosa siamo in un determinato momento, ed eventualmente riaccordarci, come se fossimo strumenti a corda, tendendoci o rilassandoci di più a seconda delle necessità. In questo l’acqua – e i tanti testi letterari, filosofici, poetici e fisiologici a riguardo lo dimostrano – è un elemento particolarmente utile, perché diverso da quello che in cui siamo abituati a muoverci e ciò già ci permette di cambiare le nostre coordinate e le nostre abitudini percettive. Inoltre, ci aiuta a percepire la forma che assume il nostro respiro, operando una pressione più forte sui nostri contorni rispetto a quella minima dell’aria a cui siamo abituati e che ci porta a non accorgerci di questo movimento che compiamo di continuo, e che se relegato alla disattenzione finisce per avere effetti tremendi su di noi. La paura e l’ansia, in questa dimensione, possono allora apparire come importanti allarmi rispetto alla nostra relazione col corpo e coi tanti significati inconsci e simbolici che genera e ospita, portandoci in territori interiori sconosciuti anche noi stessi, ma la cui esplorazione – sicuramente impegnativa e difficile – può rivelarsi un viaggio di scoperta incredibile, e per certi aspetti assolutamente necessario per vivere meglio e sentirsi più liberi.