In una società sempre più fragile psicologicamente, dobbiamo superare lo stigma sugli psicofarmaci  - THE VISION

Di fronte a un disturbo fisico di una certa entità, l’essere umano ha nella sua cultura la propensione a curarsi con i farmaci. Il rapporto tra medico e paziente, in questo caso, è di fiducia e affidamento: nessuna domanda, “dottore mi dica cosa prendere”. Quando il disturbo è invece mentale, entrano in gioco altri fattori che a volte impediscono un adeguato trattamento, in quanto prevale ancora lo stigma per gli psicofarmaci. È come se i problemi di natura psichica o psichiatrica indicassero un pericolo non attinente alla medicina, creando discriminazioni anche sulle sintomatologie. Alcune sono tollerate, fisiologiche (come il mal di testa o il mal di schiena), si prestano a una cura canonica, quelle mentali invece sono ancora paturnie da perdenti, “fatti una passeggiata e ti passa tutto”, soprattutto nelle provincie e ancor più in Meridione, e se ti azzardi a prendere una pillola regolarmente prescritta da uno psichiatra entri a pieno titolo nel novero dei pazzi.

Probabilmente è un retaggio che ci portiamo dietro dagli anni Cinquanta, quando l’avvento dei primi psicofarmaci fu quasi brutale, spesso usato più come mezzo di sedazione che di effettiva cura, coinvolgendo prevalentemente le casalinghe. L’evoluzione della farmacologia non ha placato certi pregiudizi, a quanto pare. C’è sempre il pensiero che uno psicofarmaco possa cambiarci per sempre rispetto a come eravamo prima, trasformandoci “in un’altra persona”. Forse è anche un problema di narrazione mediatica. Durante i periodi di crisi globale, come per esempio la recente pandemia, una guerra o una crisi economica, viene spesso sottolineato l’aumento della vendita di psicofarmaci quasi con toni da terrorismo, come se fosse qualcosa di cui vergognarsi. Intanto è necessario concentrarci su questo fenomeno partendo dalla mezza verità di certi titoloni. L’aumento è solitamente riferito alle benzodiazepine, ovvero gli ansiolitici, spesso prescritte dal medico di base e non direttamente da uno psichiatra. È il paziente stesso di solito a chiedere, o a pretendere, qualcosa che lo aiuti a calmarsi. In certi casi poi si arriva all’autoprescrizione e si alimenta il mercato nero di questa tipologia di medicinali, spesso in età giovanile quando in assenza di una ricetta medica, ci si affida al fai-da-te e allo Xanax ottenuto con metodi da piazze dello spaccio. Sì, gli ansiolitici rientrano a tutti gli effetti nella categoria degli psicofarmaci, ma mettere sullo stesso piano l’assunzione di mezzo Tavor prima di addormentarsi e chi ha la necessità di assumere litio per avere una qualità di vita accettabile, significa commettere l’errore di chi parla di droga equiparando sostanze estremamente diverse tra loro.

No, il litio o altri farmaci antipsicotici non sono in questo caso l’equivalente delle droghe pesanti, e anzi in certi casi riacciuffano le vite di chi è a un passo dal baratro. Come dimostrano diversi studi, chi soffre di bipolarismo ed è trattato con il litio riduce sensibilmente il rischio di incorrere in autolesionismo e incidenti. L’iperbole sulla droga l’ho usata però per sottolineare come non ci sia un’unica fascia di psicofarmaci, e che se per delle gocce di Xanax si è arrivati ormai all’accettazione sociale, per altri medicinali prevale ancora la chiusura o l’ostracismo, o più semplicemente l’ignoranza. Il timore principale riguarda gli effetti collaterali. È indubbio che possano sorgere, ma vale per tutte le tipologie di farmaci, compresa una banale aspirina. È però la paura di un’alterazione chimica a livello mentale a frenare una cura, come se non si potesse tornare indietro. Chi ha avuto a che fare con un percorso psichiatrico sa bene come dietro la prescrizione di un farmaco ci sia un piano fatto su misura del paziente. Non sempre, infatti, uno psicofarmaco è sin dall’inizio quello giusto. Si sonda il terreno e, sempre sotto stretto controllo medico, possono essere apportati cambiamenti fino a trovare la cura giusta. Ogni passo viene seguito in modo scrupoloso e anche la fine di un trattamento ha delle regole molto precise, in quanto la sospensione di un medicinale – e questo non riguarda solo gli psicofarmarci – deve essere graduale, onde evitare sintomi di ritorno (effetto rebound) o crisi d’astinenza.

Senza nulla togliere ai medici di base, è consigliabile affidarsi a uno psichiatra anche per la prescrizione di quelli che erroneamente vengono considerati psicofarmaci più blandi – le benzodiazepine, appunto. È vero infatti che rappresentano un supporto importante per gli stati d’ansia, ma curano il sintomo e non la problematica alla radice. Non a caso gli psichiatri invitano il paziente a integrare un percorso psicoterapico alla cura farmacologica, anche se spesso, per una questione di risorse o di una fasulla percezione di comodità, viene quasi disincentivata la psicoterapia a favore della sola cura farmacologica. Inoltre, i tranquillanti a lungo termine causano dipendenza, quindi dovrebbero essere assunti (e prescritti) con cautela e seguendo le stesse accortezze di quei farmaci usati per disturbi mentali più gravi. Il pericolo non è il medicinale in sé, ma l’uso che se ne fa e il modo in cui viene concepito nell’immaginario collettivo. Le benzodiazepine sono ormai considerate elementi di corredo di un’adolescenza problematica, beni di facile consumo o addirittura di accettazione all’interno di un gruppo. Culturalmente si è arrivati a utilizzarli – spesso a sproposito – nelle canzoni, nelle interviste, nei post sui social o nei meme, come se fossero coperte di Linus o vezzi da gioventù ribelle e non medicinali. Utilissimi, fondamentali in certi casi, ma il cui abuso rischia di vanificare qualsiasi campagna di sensibilizzazione effettiva per non demonizzarli.

Il trend del consumo delle benzodiazepine è sì cresciuto con la pandemia di Covid-19, come riporta il rapporto Osmed 2020 dell’Aifa, ma era già in crescita negli anni precedenti. Per esempio nell’approfondimento sul consumo degli psicofarmaci nel triennio 2015-2017, sempre l’Aifa aveva analizzato come in questa categoria soltanto le benzodiazepine avessero avuto un aumento (dell’8%), con altre tipologie di psicofarmaci, come antidepressivi e antipsicotici, stabili. Il rapporto Osmed 2021 ha inoltre specificato: “Il consumo di antidepressivi nel 2021 è in linea con la tendenza degli anni precedenti e non sembra influenzato dalla pandemia”. Questo significa che gli italiani hanno preferito agire nell’immediato, bloccando lo stato ansioso attraverso il sollievo momentaneo delle benzodiazepine, ma non hanno modificato le loro abitudini farmacologiche per altre problematiche mentali. Nonostante il numero di persone con disturbi depressivi sia notevolmente aumentato in seguito alla pandemia, il consumo di antidepressivi non è variato. E il motivo sta nella non accettazione della propria malattia e nella paura di certi psicofarmaci.

Tendiamo a considerare le persone che soffrono di disturbi mentali non come malati comuni, ma come entità legate a un male indefinito, astratto, prototipi dei matti e novelli scemi del villaggio, nonostante per esempio l’OMS abbia parlato di depressione come di “male del secolo”. In tal modo l’accettazione di una condizione psicofisica viene meno e prevale la diffidenza. È una reticenza che non è invece presente quando c’è un consumo sfrenato di altri farmaci – che, a livello numerico, causano magari molti più effetti indesiderati degli psicofarmaci. Per esempio l’Italia è la patria degli antibiotici, essendo lo Stato che ne consuma di più in Europa. Gli antibiotici sono strumenti fondamentali, ma spesso vengono prescritti con troppa leggerezza anche quando non sarebbe necessario. E gli italiani a quanto pare si fidano degli antibiotici, mentre degli psicofarmaci no. Questo uso eccessivo ci porta a essere la nazione europea con il maggior numero di malattie e decessi causati da antibiotico resistenze (AMR). Le infezioni annuali da AMR in Italia sono 200mila su un totale di 670mila in Europa, e i decessi 10mila su 33mila europei. Sono percentuali preoccupanti, e viene da chiedersi perché un cittadino italiano sia disposto a imbottirsi di antibiotici al primo colpo di tosse mentre rifiuti di affidarsi alla farmacologia per quanto riguarda la salute mentale. Il problema alla base è ancora culturale, e senza una campagna di sensibilizzazione corretta sulla cura dei disturbi mentali continueremo a sottovalutare problemi sempre crescenti, che intanto continuano ad alimentarsi a causa di paure che sembrano assumere sempre di più i tratti della superstizione.

Fintanto che non prendo un antidepressivo non sono depresso.Sembra essere questa la fallacia logica dietro certe scelte. Bisognerebbe parlare quindi di psicofarmaci senza demonizzarli e contemporaneamente senza considerarli “acqua fresca”. Sembra paradossale, o forse in quest’epoca nemmeno tanto, ma la personalità pubblica che più di tutti ha colto nel segno lanciando un messaggio lucido sull’argomento è stato Fedez. Qualche mese fa ha raccontato di aver avuto degli effetti collaterali in seguito all’assunzione di un antidepressivo, e di averlo sospeso senza scalarlo. Questo ha comportato l’effetto rebound, con tutti i sintomi che ne conseguono. Nel videomessaggio di Fedez non c’è alcuna accusa contro gli psicofarmaci, e anzi ne ha parlato senza pregiudizi facendo capire come qualsiasi disturbo necessiti del giusto trattamento, e allo stesso tempo non si è di certo sostituito a uno psichiatra consigliando cosa prendere o non prendere, visto che ha parlato con tranquillità anche degli effetti collaterali. L’ha fatto, giustamente, come se parlasse di qualunque farmaco, senza porre il marchio d’infamia su una categoria. Quindi accettazione del problema – quella che ancora manca in Italia – ed esposizione di una problematica senza tabù.

La più recente ricerca pubblicata su Lancet sull’argomento, basata sull’analisi dei dati di 522 studi condotti su 116mila persone, ha dimostrato l’efficacia degli psicofarmaci, sfatando diversi miti che ci portiamo dietro da anni. Solo che l’eco mediatica di Fedez, almeno in Italia, supera di gran lunga quella di un prestigioso report scientifico internazionale, e quindi molti giovani hanno scoperto il significato di effetto rebound grazie a lui, probabilmente aprendosi emotivamente, senza giudicarlo per l’utilizzo di un antidepressivo. Ha avuto coraggio a esporsi a livello mediatico, e forse adesso qualche reticenza verrà allentata. La speranza è che sul tema della malattia mentale i pregiudizi vengano abbattuti e che ci si affidi alle cure nel modo ritenuto migliore da chi di dovere. Perché sono farmaci prescritti da medici, e in una società sempre più fragile emotivamente e psicologicamente è necessario affidarsi agli strumenti giusti per ottenere una via d’uscita. Con accortezza e seguiti da un professionista, ma senza che una malattia non curata possa rendere invalidante la nostra vita.

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