Gli Stati membri dell’Unione europea (Ue) hanno trovato un accordo sul programma che offre protezione temporanea alle persone rifugiate ucraine. Se da un lato l’approvazione di questa iniziativa può essere considerata lodevole, dall’altro risulta impossibile non pensare al modo in cui gli Stati membri dell’Ue rispondono solitamente alle persone provenienti da altre parti del mondo che, al contrario, ricevono porte chiuse e respingimenti.
Innanzitutto è necessario sottolineare che perfino arrivare all’accordo sulla protezione temporanea è stato difficile. Tale decisione, infatti, non è altro che un compromesso a cui gli Stati membri sono arrivati per via della riluttanza dei Paesi del blocco di Visegrad (Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Slovacchia) e dell’Austria di voler estendere la protezione temporanea anche alle persone non ucraine che fuggono dal medesimo contesto. Il risultato ottenuto è quindi quello di una protezione temporanea per cui ai cittadini ucraini residenti in Ucraina (e ai loro figli e parenti stretti o coniugi e partner stabili) da prima del 24 febbraio 2022 è concesso un permesso di soggiorno valido un anno e rinnovabile di sei mesi in sei mesi fino a tre anni totali – con possibilità di andare a scuola, lavorare, ottenere assistenza economico-sociale e cure mediche.
Il medesimo provvedimento vale per i cittadini di Paesi terzi o apolidi che soggiornavano legalmente in Ucraina, quindi possessori di permesso di soggiorno di lungo periodo. Tuttavia, a differenza del caso dei cittadini ucraini, la discrezionalità degli Stati membri prevarrà sul tipo di protezione da concedere (che può essere quella temporanea o un altro tipo di protezione che dipende dal diritto interno dei singoli Stati). Nella protezione temporanea non sono automaticamente inclusi i cittadini di Paesi terzi con permesso di soggiorno breve (si pensi ad esempio agli studenti stranieri che frequentano gli atenei ucraini). Anche qui prevarrà la discrezionalità dei singoli Stati membri che potrebbero optare per concedere una forma di protezione o per non concederla.
Il punto critico risiede proprio nella questione inerente ai cittadini non ucraini. In un articolo della giornalista Eleonora Camilli, il giurista Gianfranco Schiavone di Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) e Giulia Capitani, policy advisor di Oxfam Italia, hanno espresso le loro perplessità. Come riporta Schiavone: “La formulazione finale è un compromesso che accoglie in parte la proposta della Commissione. Rimangono dubbi sull’applicazione discrezionale degli Stati. I criteri delle normative nazionali non possono essere più sfavorevoli di quelli accordati dalla direttiva”. E ancora, “alcuni Stati hanno dimostrato di nuovo di avere un’ossessione verso gli stranieri, c’è una dimensione quasi di follia […]. È evidente che questi ragazzi non erano in Ucraina a usufruire di chissà quale vantaggio. Credo che si tema che questi migranti, una volta ottenuta la protezione si possano stabilire regolarmente negli Stati Ue, ma la decisione finale è comunque rimessa alle leggi nazionali. Quello che invece servirebbe è assicurare anche a loro, che scappano dalle bombe, un periodo in cui possano riorganizzarsi e decidere se rimanere in Europa oppure no”. Capitani invece esprime perplessità sulle persone prive di documenti ma che si trovano in Ucraina e che non sono incluse nella direttiva, nonostante, come sottolinea lei stessa: “Le bombe cadono su tutti[…]. Durante la discussione, i paesi del blocco di Visegrad e l’Austria avevano addirittura chiesto l’esclusione di tutti i migranti, anche da tempo legalmente presenti in Ucraina. Il testo finale è quindi frutto di un compromesso dell’ultima ora: gli Stati membri potranno decidere se concedere, ai migranti in fuga dall’Ucraina, la protezione temporanea, o incanalarli in altre procedure, come quella di asilo, secondo le normative nazionali. Dove però le richieste di protezione possono essere respinte, e le persone espulse”.
I metodi violenti dei Paesi del blocco Visegrad nei confronti delle persone rifugiate non europee sono noti a tutti: basti pensare a chi viene lasciato a morire di freddo o di fame fuori dalle frontiere dell’Ungheria e della Polonia o che tenta di attraversare la Rotta balcanica. Lo scorso anno si è molto parlato del campo profughi di Lipa, alla frontiera tra Bosnia e Croazia, ma nessuna soluzione tanto celere come quella di questo momento storico è stata mai adottata per garantire protezione alle persone in fuga da una guerra. Si pensi anche ai recenti respingimenti sistematici al confine bielorusso-polacco: nonostante ora la Polonia si dica pronta e aperta ad accogliere le persone rifugiate, è necessario ricordare che lo stesso Paese sta costruendo un muro anti-migranti e che ha costretto persone, soprattutto afghane e siriane, a rimanere bloccate alle frontiere. A Przemysl, in Polonia, un gruppo di nazionalisti di estrema destra ha anche attaccato le persone rifugiate non ucraine, in base al colore della pelle, perché ritenute una minaccia.
Vi è un’evidente forma di selective sympathy, ovvero una “compassione selettiva” dei Paesi europei (non solo quelli orientali, ma anche quelli occidentali) nell’apertura delle frontiere a determinate categorie di persone, come viene sottolineato su Balkans Insight: “La Polonia si è fermamente opposta a una politica dell’Ue delle porte aperte ai richiedenti asilo e ai migranti al di fuori del continente. Oggi, però, è diventato evidente che se c’è una volontà, c’è un modo [per poterlo fare]. In questi giorni, la Polonia sta riuscendo a offrire il primo soccorso e a ospitare fino a 100mila rifugiati al giorno”. Ma questa compassione selettiva non è qualcosa che riguarda solo la Polonia: oltre a una questione di nazionalità e provenienza, l’accoglienza delle persone rifugiate in ogni Paese Ue dipende spesso anche da una questione di classe. In un reportage del New York Times, la giornalista Matina Stevis-Gridneff, parlando dell’iniziale spinta a voler accogliere le persone rifugiate afghane, soprattutto in seguito alla presa del potere da parte dei Talebani, ha sottolineato come gran parte di coloro che sono arrivate in Ue tramite voli appositi, fa parte di classi sociali alte, mentre le persone afghane comuni sono spesso costrette ad affrontare lunghi viaggi a piedi, rischiando di morire e di venire bloccate o respinte alle frontiere comunitarie. Anche nel caso in cui riescano a presentare richieste di asilo, sono costrette ad aspettare anni in un limbo legale prima che vengano valutate.
Questa compassione selettiva risulta ancora più evidente nel momento in cui, come è stato sottolineato dal giornalista Daniel Howden di Lighthouse Reports, se da un lato si è pronti ad accogliere rifugiati ucraini, dall’altro la chiusura delle frontiere europee continua ad applicarsi per tutti gli altri. Si pensi alla violenza della polizia spagnola che recentemente è stata filmata mentre strattonava e picchiava brutalmente diversi gruppi di persone migranti che sono riuscite a oltrepassare la barriera a Melilla, al confine tra Spagna e Marocco. Spiega Howden che se prima ai temi di accoglienza e migrazioni si associavano automaticamente costi e mancanza di spazio, ora sembra che queste problematiche siano scomparse, sottolineando, inoltre, come molti commentatori abbiano fatto una netta distinzione tra rifugiati meritevoli e non meritevoli, “profughi veri” e “profughi finti”.
Infatti, diversi giornalisti di testate occidentali, dalla CNN alla BBC, hanno giustificato un simile comportamento da parte degli Stati dell’Ue in quanto le persone ucraine “somigliano agli europei” – a differenza di coloro che provengono dagli Stati del continente africano, dal sud dell’Asia o dall’Afghanistan e dall’Iraq. Il giornalista e fumettista keniano Patrick Gathara ha commentato questo approccio parlando proprio di come la narrazione mediatica sulle persone rifugiate ucraine, contrapposte alle altre di nazionalità diverse, riveli il razzismo occidentale: “[…]L’occidente sembra nutrire profonde preoccupazioni riguardo la precarietà della sua civiltà e aver bisogno di essere rassicurato di continuo dal paragone con l’Africa. All’Africa possiamo aggiungere l’Iraq, l’Afghanistan e gran parte del sud globale”. Infatti, per questi giornalisti e commentatori è stato importante sottolineare come le persone rifugiate ucraine fossero “persone normali come noi” con una vita normale prima dello sconvolgimento dovuto alla guerra – come se questo non fosse qualcosa di comune a ogni persona che, per cause di forza maggiore, è costretta ad andarsene dal suo Paese. Tale approccio è stato perfino denunciato dalla Foreign Press Association Africa (FPAA), che ha pubblicato un comunicato in cui sono stati condannati i doppi standard.
“L’accoglienza è di tutti e per tutti”, scrive Fatou Diako, presidente di Associazione “Articolo 21” Campania. Ed è così che dovrebbe essere, non solo tramite un’organizzazione degli Stati che si attivino insieme, come accade oggi, in situazioni di emergenza, ma anche tramite uno stravolgimento delle regole discriminatorie che governano la libertà di movimento – che puntualmente penalizzano le persone provenienti dal sud globale. Invece ci ritroviamo in un contesto in cui da un lato ci si dice pronti ad accogliere rifugiati dall’Ucraina, dall’altro: la Grecia è coinvolta nell’ennesimo respingimento illegale nel Mar Egeo – l’ultimo caso riguarda le autorità greche che avrebbero buttato due giovani direttamente in mare, senza salvagente, per respingerli verso la Turchia; le persone rifugiate in Libia continuano a protestare per essere evacuate, date le condizioni di massima vulnerabilità in cui vivono e le violenze delle milizie – che, tra le altre cose, l’Italia finanzia per fermare le partenze; la Danimarca decide contro ogni evidenza che la Siria è un “Paese sicuro” e quindi priva del permesso di soggiorno le persone rifugiate a cui in precedenza era stata concessa la protezione internazionale. Si pensi, infine, anche al razzismo subito dai ragazzi e dalle ragazze non bianche alle frontiere dell’Ucraina, ai quali è stato riservato un trattamento differente e discriminatorio rispetto ai profughi bianchi.
Come scrive Judith Sunderland di Human Rights Watch: “Per decenni, l’Ue si è concentrata ossessivamente sul tentativo di sigillare le sue frontiere esterne esternalizzando la responsabilità a Paesi al di fuori dell’Ue e attraverso respingimenti illegali e violenti. Un numero impressionante di persone provenienti da Asia, Africa e Medio Oriente muoiono ogni anno nel tentativo di raggiungere i confini dell’Europa”.
La compassione selettiva, quindi, ha tutti i connotati di un conservatorismo nazionalistico che si fonda profondamente su una discriminazione strutturale e sistemica applicata ai tipi di migrazione. È giunto il momento che l’Unione europea cambi i modi in cui le sue politiche in materia di migrazione e asilo penalizzano in modo sproporzionato le persone di altre etnie e origine.