Nel 2015, lo stato dell’Indiana ha condannato a 20 anni di reclusione la giovane Purvi Patel per feticidio e abbandono di minore. La colpa di Patel era quella di aver avuto un aborto spontaneo intorno alla ventiquattresima settimana di gestazione. L’aborto della giovane donna era avvenuto nel bagno di casa sua e la ragazza, presa dal panico, aveva buttato i resti del feto nella spazzatura. Secondo l’accusa, Patel si era autoindotta l’interruzione di gravidanza acquistando delle pillole abortive su internet – nonostante l’esame tossicologico avesse escluso questa possibilità – e aveva poi abbandonato il feto, nato vivo. Il 22 luglio 2016 la giuria ha stabilito in appello che Patel aveva avuto un aborto spontaneo e l’ha assolta dall’accusa di feticidio, ma non da quella di abbandono di minore, per la quale è stata condannata a 18 mesi di reclusione, per non essersi rivolta prontamente a un medico che avrebbe potuto salvare il feto. Sempre in Indiana nel 2013 un’altra donna, Bei Bei Shuai, era stata indagata per feticidio dopo la morte del feto in seguito a un tentativo di suicidio. Assolta da questa accusa dopo un lungo processo, Shuai si è dichiarata colpevole per “criminal recklessness”, che corrisponde più o meno alla nostra colpa cosciente.
In America, 38 Stati su 50 prevedono nel proprio ordinamento il reato di “feticidio”, del quale possono essere accusate non solo le donne che abortiscono illegalmente ma anche coloro che provocano la morte del feto in maniera colposa, ad esempio tentando il suicidio (come nel caso di Shuai) o assumendo stupefacenti. In Italia non esiste questo reato (anche se la legge 194 del 1978 punisce chi procura l’aborto senza il consenso della donna) ma questi casi ci fanno riflettere su un argomento spesso ignorato nel vasto dibattito sui diritti riproduttivi, ovvero quello degli aborti terapeutici, per salute materna, o spontanei. Sebbene siamo abituati a considerare questi eventi come degli “incidenti di percorso” o “cose che succedono”, in realtà a subire le influenze della politica sono anche gli aborti non scelti – formula con la quale, per brevità, indicherò gli esiti di gravidanza che ho appena citato.
La psichiatra Alessandra Piontelli nel suo saggio Il culto del feto, edito da Raffaello Cortina Editore, ha ricostruito la storia del concetto di feto dall’antichità ai giorni nostri, notando come, se un tempo l’idea di “feto” era praticamente irrilevante nella società – anche a causa degli alti tassi di mortalità nel parto o perinatale – oggi ha assunto una dimensione sempre più importante e soprattutto visibile. Questo cambiamento è dipeso da più fattori. Negli ultimi vent’anni infatti la tecnologia ha contribuito a rendere sempre più evidente la presenza dell’embrione sin dalle primissime fasi della gestazione o, addirittura, prima ancora, nel caso della crioconservazione degli ovuli fecondati. Grazie ad apparecchi ecografici sempre più sofisticati, il feto è diventato nel nostro immaginario sempre più simile a un bambino, mentre documentari e racconti delle gravidanze delle celebrities hanno contribuito a enfatizzare il culto del feto.
Anche a causa di questa concezione “fetocentrica”, un tema come l’aborto spontaneo è diventato un tabù. Contrariamente a un’interruzione volontaria di gravidanza, l’aborto non scelto non prevede la volontà della donna di porre fine alla gestazione, e può colpire anche chi un figlio lo desidera con tutto il cuore. La reticenza a parlare di aborto non scelto nel discorso pubblico non fa altro che accrescere lo stigma e il senso di isolamento e di colpa che può sperimentare una donna che ne ha avuto uno. Nella seconda stagione di Fleabag, la pluripremiata serie scritta, diretta e interpretata da Phoebe Waller-Bridge, c’è una scena in cui la sorella della protagonista ha un aborto spontaneo al ristorante. Il tema è affrontato con lo humour da dark comedy che caratterizza la serie e, quando Fleabag cerca di aiutare Claire, la sorella le urla: “Giù le mani dal mio aborto. È mio, mio!”. “Ci sono così tante cose al mondo di cui le persone non parlano, e molte di esse sono esperienze delle donne. È la triste verità”, ha detto in proposito Waller-Bridge in un’intervista a Glamour. Questa scena è un raro esempio di rappresentazione mediatica di un aborto spontaneo, che si distingue ancor di più per l’approccio non convenzionale adottato dalla showrunner.
Anche dal punto di vista delle filosofie femministe, il tema dell’aborto spontaneo è stato poco trattato. Secondo la filosofa Alison Reiheld, l’aborto non scelto è un “evento liminale”, che sta da qualche parte in mezzo alle coppie oppositive con cui categorizziamo la riproduzione, come “genitore” e “non genitore”, “vita” e “morte”, “aborto” e “gravidanza”. Tuttavia, come dimostrano le leggi americane sul feticidio e la questione dell’obiezione di coscienza in caso di aborto terapeutico nel nostro Paese, questo evento così indeterminato, che “esiste ma non esiste”, viene pesantemente condizionato dalla legge e dalla politica. Anzi, secondo Reiheld è proprio questa incertezza a renderlo così vulnerabile.
In più, come fa notare la teorica del femminismo Victoria Browne su Radical Philosophy, l’aborto non scelto non ha lo stesso valore per tutte le donne – esattamente come la gravidanza. Se in generale siamo portati a considerare la gravidanza un evento felice se non proprio sacro, in alcuni specifici casi la consideriamo una sventura, come nel caso in cui a restare incinta sia un’adolescente, una donna disabile o molto povera (basta pensare a come viene vista la gravidanza delle donne rom nel nostro Paese). Allo stesso modo, se un aborto spontaneo è considerato in linea di massima un evento spiacevole, in casi come quelli appena citati pensiamo: “Meglio che sia andata a finire così”. Questo perché l’aborto non scelto càpita e basta, e non prevede la scelta cosciente della donna – scelta che in quei casi verrebbe messa sicuramente in discussione. Quindi anche di fronte a eventi di questo tipo i diritti riproduttivi non sono affatto neutrali, ma anzi vengono messi in discussione in modo diverso da persona a persona.
Come ci spiega Elisabetta Canitano, ginecologa femminista dell’associazione Vita di donna, “Se una donna rompe il sacco amniotico dopo le 24 settimane, in generale si tenta di far maturare il feto e di farlo sopravvivere. Ma se il feto non è viable, cioè non è in grado di sopravvivere al di fuori dell’utero, il risultato non sarà una nascita, ma un aborto. In maniera irrazionale, alcuni ospedali non praticano quell’aborto per la salute della madre perché considerano il feto vivo se è presente il battito”. La presenza del battito fetale non è però garanzia di sopravvivenza. “Si comportano così perché sanno che a un certo punto interverrà un aborto spontaneo. Ma se questo non succede e quindi il feto viene lasciato nell’utero, si può incorrere in una setticemia, come è successo a Valentina Milluzzo, per la quale i dottori si appellarono all’obiezione di coscienza”, continua Canitano. “Molti credono che la condizione di obiezione li autorizzi anche a evitare l’aborto per cure materne. C’è una falsa narrazione da parte di coloro che pensano che tutto sommato sia preferibile la morte di una donna a un aborto, perché la donna muore per cause naturali, mentre nell’aborto c’è la responsabilità di qualcuno”.
Tra aborto volontario e spontaneo infatti c’è un confine che sembra essere netto, ma che in realtà non lo è: secondo la retorica anti-choice, che prolifera anche al di là degli ambienti ultracattolici, una donna non vuole mai davvero abortire, anche quando sceglie con piena coscienza di andare in ospedale a fare un ivg. Lo fa, ma sotto sotto non lo vuole fare, è addolorata o lo sarà in futuro. Da tempo la retorica pro life infatti ha abbandonato i toni accusatori e violenti dell’equazione tra aborto e omicidio, spostandosi su un terreno meno rischioso, ovvero sulla retorica del dolore e della perdita. Si insiste sull’idea che l’interruzione di gravidanza sia sempre e in ogni caso dannosa fisicamente e psicologicamente non solo per il feto ma anche per la madre.
I casi eclatanti di Purvi Patel e di Bei Bei Shuai sono la prova della fragilità su cui poggia il discorso dell’aborto non scelto, che al pari di tutto quello che riguarda la salute riproduttiva delle donne sembra dover per forza essere oggetto di giudizio pubblico. Se e quando restano incinte, come conducono la gravidanza, se decidono di interromperla, se non vogliono figli, se vogliono affidarsi a una tecnica di riproduzione assistita, come scelgono di partorire e persino se hanno un aborto spontaneo: tutto deve passare dal giudizio della società intera, che sembra dover decidere per le donne tutto quello che accade intorno al loro corpo. Come fa notare Victoria Browne: “Quello che è in gioco è il terreno in cui ‘scelto’ e ‘non scelto’ continuano ad avere un significato soggettivo […], ma il loro significato politico viene sussunto da discorsi di potere su quale sia il comportamento corretto e responsabile e, seguendo questa logica, soprattutto su chi abbia sufficienti indizi di colpevolezza”.
Proprio per la natura liminale dell’aborto non scelto, l’unica cosa che possono fare le donne è parlare pubblicamente dei propri aborti spontanei e delle proprie gravidanze non arrivate a compimento. Se saranno loro a condurre il discorso pubblico sull’argomento, nessuno potrà appropriarsene per portare avanti battaglie ideologiche contro la libertà di scelta. E, soprattutto, avranno il potere di sottrarlo al dominio della vergogna, che fa sentire le donne sole e in colpa per qualcosa che è davvero capitato e basta.