Finalmente in Italia si sente l’urgenza di un dibattito serio e costruttivo sulla questione di genere, per una reale uguaglianza tra i sessi. Quasi all’unanimità si sente il bisogno di riflettere sul ruolo cui sono state relegate le donne nel corso della storia italiana. Un ruolo dettato soprattutto dal retaggio di una specificità culturale e religiosa che vede la donna come un accessorio del capofamiglia, sia il padre o il marito.
Basti pensare che fino al 5 agosto 1981, data in cui venne promulgata la legge 442, la società italiana poteva “vantare” un articolo del codice penale che recitava: “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella”.
Era infatti l’art. 587 del codice penale a consentire la riduzione della pena per chi avesse ucciso la moglie, la figlia o la sorella al fine di difendere “l’onor suo o della famiglia”.
Ma la legge n. 442 del 5/8/1981 abrogava anche un altro simpatico articolo del fu codice Rocco: il 544. Nel testo originario così disponeva: “Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”. Era l’istituto del “matrimonio riparatore”, l’estinzione cioè del reato di stupro nel caso in cui il colpevole accettasse di sposare la propria vittima, come richiesto dai parenti di costei (spesso minorenne). Una pratica che presumeva di salvare “l’onore della famiglia”, poiché la violenza carnale era considerata un reato non contro la persona abusata, quanto contro la morale.
Mi ha sempre fatto un certo effetto esaminare i passaggi temporali del processo di emancipazione femminile in Italia. Attraverso le date infatti diventano ancora più assurde le contraddizioni che questo processo ha subito. La data dell’abrogazione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore è successiva addirittura al referendum sul divorzio (1974) e alla riforma del diritto di famiglia (1975). E il motivo credo risieda proprio, come detto prima, nella considerazione della donna come accessorio della famiglia, che in Italia resta il centro di tutto. Ancora oggi. E a testimonianza di questa religiosa centralità, si erge dura e spinosa la questione dell’aborto.
Il 19 novembre, mentre l’opinione pubblica era tutta concentrata sul caso Brizzi, Don Francesco Pieri, sacerdote bolognese e docente alla Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna – un’aggravante non da poco – ha postato sulla sua pagina Facebook una boutade piuttosto insensata, prima in un post pubblico, poi ristretto nella serata di sabato ai soli amici, forse a causa delle prime reazioni: «Ha più morti innocenti sulla coscienza Totò Riina o Emma Bonino?». Questo diceva lo status che ha incassato anche il ‘mi piace’ di don Massimo Vacchetti, vice-economo della Curia e responsabile della Pastorale dello sport.
Il riferimento evidente è all’impegno politico e civile della Bonino per la legge sull’aborto, la quale ha giustamente fatto notare che quello era un insulto non solo verso di lei, ma verso tutte le donne.
Don Pieri ha anche riportato, tra i commenti, che il Concilio Vaticano II con la sua Gaudium et spes «mette l’aborto (non importa se legalizzato, ospedalizzato e mutuabile o no) in serie con “genocidio, omicidio volontario” e altri crimini orrendi (GS 27), tra cui certamente quelli di mafia, e lo definisce “abominevole delitto” (GS 51). Solo che vedo meno gente disposta a indignarsi e schierarsi per “questi” innocenti. Anche tra chi metterebbe la mano sul fuoco per il Vaticano II».
Chiunque abbia un minimo di capacità razionale considererà probabilmente queste parole alla stregua del soliloquio di un ebbro vaneggiatore incrociato in un bar di Caracas. E sarebbe un errore. Perché argomentazioni di questo genere sono estremamente diffuse nel nostro Paese, a causa della “santità” della famiglia soprattutto alimentata da quell’ingombrante massa di dogmi che regge la Chiesa Cattolica di Roma e dal conseguente pensiero democristiano, altrettanto ingombrante e pervasivo nella nostra società.
Don Francesco Pieri è infatti “un amico del Popolo della Famiglia”. Lo ha ribadito in una nota successiva al post, l’esponente del Popolo della Famiglia e già candidato sindaco a Bologna, Mirko De Carli. Per lui il prete è stato “vittima della gogna mediatica.(…) È evidente che, in un momento di disorientamento e di divisione nel mondo cattolico, si vogliano colpire le prese di posizione degli ecclesiastici che suonano meno allineate con il pensiero unico”.
Queste prese di posizione – che senza difficoltà potremmo definire medievali – forse sorprenderanno i tanti convinti che il nuovo corso di Papa Francesco stia aprendo la Chiesa di Roma verso la modernità. Ecco, anche questo sarebbe un grave errore. Come per molti altri argomenti (primo fra tutti la teoria gender), Papa Francesco non ha mai aperto un bel niente, nonostante i media nostrani si facciano in quattro per dire il contrario. Solo un anno fa, infatti, erano molti i titoloni in prima pagina traboccanti gaudio perché il Papa aveva scritto “Assolvete medici e donne che abortiscono”. Ma quanto è rivoluzionario questo Papa! E invece no. Ed è curioso notare come fra i primi a sbugiardare questa visione ci sia stato un quotidiano cattolico come Famiglia Cristiana. In una “precisazione sulla lettera apostolica” il caporedattore del giornale Alberto Bobbio scriveva: “Non c’è nessuna svolta sulla questione dell’aborto nella Lettera Apostolica “Misericordia et misera” e non è vero, come molti giornali hanno riassunto nei titoli e come si favoleggia nella comunità da “Bar sport” dei social network, che il Papa ha detto ai sacerdoti «assolvete il peccato di aborto» o anche «assolvete donne e medici». No, non è così e non cambia niente. Francesco ha voluto soltanto rimuovere un ostacolo e rimettere nelle mani di preti, di tutti i preti, la facoltà di assolvere il peccato, se c’è pentimento.”
E come se non bastasse, il Che Francesco ha ribadito la massima gravità dell’aborto proprio qualche giorno fa. In occasione dell’omelia a Casa Santa Marta del 21 novembre 2017, Sua Santissima Santità ha denunciato la perversione dell’aborto, «uccidere i bambini», che prima «era peccato» mentre «oggi si può».
Ora, se il Papa venisse considerato – come meriterebbe – uno dei tanti esponenti di una delle tante religioni presenti in questo povero mondo bisognoso di fede, non ci sarebbero problemi. Ma da noi così non è. La Cultura di questo Paese è imbevuta nelle acquasantiere, da sempre e – senza una piena rivoluzione culturale – per sempre. Proprio la storia dell’aborto è il perfetto esempio di quanto male questo faccia soprattutto ai diritti dello donne, e quindi a tutta la società.
Forse qualcuno si ricorderà del primo concorso per assumere non obiettori. Nel novembre del 2015 l’ospedale San Camillo di Roma aveva indetto, per la prima volta, un concorso per dirigenti medici riservato ai non obiettori di coscienza per contrastare la non applicazione della legge 194 sul diritto all’aborto. Finite le prove di esame, le prime assunzioni sarebbero dovute avvenire a febbraio di quest’anno. Il San Camillo è infatti il centro per l’interruzione volontaria di gravidanza più importante del Lazio, ma i ginecologi obiettori sono oltre l’80%. L’assunzione di quei due medici mirava quindi a garantire il diritto delle donne all’interruzione alla gravidanza. Quel diritto, introdotto con la legge 194 nel 1978, che è però ancora oggi largamente negato. Insomma, due assunzioni sacrosante.
Eppure, anche in quel caso, si è scatenata la controffensiva clericale, capitanata dalla Conferenza episcopale e appoggiata in maniera abbastanza subdola da Beatrice Lorenzin, la responsabile del dicastero della Sanità che forse qualcuno ricorderà per la brillante campagna per la procreazione.
La Cei ha addirittura tuonato che in questo modo non si rispetta un diritto di natura costituzionale qual è l’obiezione di coscienza”. Insomma, per la CEI il diritto delle donne non vale quanto il diritto di Dio.
Oltre a essere un’asserzione socialmente pericolosa, sono fermamente convinto che proprio questo modo di pensare sia alla base dell’italica cultura della donna, quella che la vede solo come madre, meglio se casalinga, meglio se in ciabatte e meglio se “zitta perché stiamo parlando di cose serie”.
E proprio la battaglia per l’interruzione volontaria di gravidanza è stata un’enorme vittoria per lo sviluppo culturale italiano.
Riassumendo, tutto ebbe inizio nel 1975, quando l’allora segretario del Partito Radicale Gianfranco Spadaccia, Adele Faccio ed Emma Bonino furono arrestati dopo essersi autodenunciati alle autorità di polizia per aver praticato aborti. Dopo 3 anni di durissime lotte e dibattito pubblico, nel 1978 finalmente la 194 arrivò. Confermata dal referendum del 1981.
Eppure, su pressione della Chiesa e di molti (troppi) medici cattolici praticanti che ritenevano la legge 194 un grave attacco alla propria etica personale, fu inserito l’articolo 9, quello sull’obiezione di coscienza.
Ora, quell’obiezione poteva forse avere una sua logica per quei medici, infermieri e specializzandi in ginecologia già tali al momento dell’entrata in vigore della legge. Erano entrati nella professione quando il diritto della donna all’interruzione della gravidanza non era riconosciuto. Dall’entrata in vigore della legge 194 però quel diritto faceva, e fa, parte delle prestazioni che è doveroso garantire. Ma così non è mai stato. Il Consiglio d’Europa lo scorso anno ha dichiarato che l’Italia discrimina i medici che non scelgono l’obiezione di coscienza in materia di aborto, costringendoli a “diversi tipi di svantaggi lavorativi diretti e indiretti”. In pratica, non fanno carriera.
E così, in Italia circa sette ginecologi su dieci non effettuano interruzioni volontarie di gravidanza (per fare un confronto, nel Regno Unito gli obiettori sono il 10% e in Francia il 7%). In alcune Regioni si toccano percentuali elevatissime, superiori al 90% in Basilicata, in Molise e nella provincia di Bolzano.
Ora, pensiamo per assurdo se il 70% dei medici si rifiutasse di fare trasfusioni perché la religione dei Testimoni di Geova le reputa un delitto. L’unica risposta logica è: che scelgano un altro mestiere. Per l’aborto invece, grazie all’articolo 9, la legge 194 rimane troppo spesso inapplicata per la cosiddetta “obiezione di coscienza”.
Il punto è che in questo Paese quando si parla di Diritti, e in particolare quelli legati alle donne, ci si scontra inevitabilmente con un concetto purtroppo mai chiarito in Italia: quello della Laicità dello Stato. Sembra che il fatto che nella Costituzione materialmente manchi la parola “laico” generi confusione. E questo porta a situazioni spesso assurde, come quando nel 2006 il Consiglio di Stato ha affermato che la stessa presenza di un simbolo religioso (il crocifisso) nelle aule scolastiche possa essere considerato espressione proprio del principio di laicità.
Sono convinto che se l’Italia fosse veramente uno stato laico, molte questioni legate ai diritti avrebbero già trovato una soluzione politica ragionevole. Eppure la regola vuole che il dibattito, sia quello pubblico che quello politico, finisca regolarmente per avvitarsi su se stesso.
L’uguaglianza di genere in Italia è un tema che deve investire prima di tutto la cultura, in senso tyloriano. E cioè considerando tutto l’insieme di segni, artefatti e stili di vita che gli individui condividono. È un argomento che non può essere trattato se non analizzandone tutte le concause, eliminando i chilometri di ragnatele che ricoprono i nostri costumi e la nostra mentalità. Non può e non deve essere ridotto esclusivamente alla ricerca del mostro di turno. Le molestie sul lavoro sono un fenomeno gravissimo e molto più diffuso di quanto non dimostrino le cronache, vanno prevenute, denunciate e combattute. Ma non si pensi che una volta cacciato il mostro sparisca anche il suo fetore. Quell’olezzo investe le disuguaglianze nell’accesso al lavoro tra donne e uomini, le mancanza di politiche adeguate sul fronte del welfare e il mancato rispetto delle leggi che garantiscono i diritti sessuali e riproduttivi. Tutto è infettato dal retaggio culturale che vede la donna solo come “responsabile” della cura dell’infanzia, degli anziani e della famiglia. Considerato che siamo alle porte del 2018, forse è arrivato davvero il momento di avere una Santissima obiezione di laicità.