Nonostante la crescente insofferenza manifestata negli ultimi mesi da studenti e sindacati, nel corso dell’ultima campagna elettorale di scuola e istruzione si è parlato poco o niente. Se nel migliore dei casi la relazione esistente fra il progressivo adeguamento del nostro sistema scolastico al modello aziendale (la cosiddetta “scuola-impresa”) e la povertà educativa delle fasce più deboli della popolazione è stata perlomeno riconosciuta, altrettanto spesso le origini strutturali dell’attuale crisi della scuola sono state del tutto travisate – Fratelli d’Italia ipotizzava, per esempio, di ridurre di un anno il ciclo di studi superiori, come se fosse la durata del percorso, e non la sua qualità, a determinarne il successo. Così, mentre i partiti attendono che le coperture necessarie per realizzare le (poche) proposte presentate piovano dal cielo, in alcune regioni italiane gli istituti scolastici cadono a pezzi, il diploma diventa un miraggio e, sempre più spesso, le classi si svuotano.
Secondo gli ultimi dati Eurostat, ripresi dal report Alla ricerca del tempo perduto: Un’analisi delle disuguaglianze di tempi e spazi educativi nella scuola italiana, pubblicato a settembre da Save the Children, con un tasso di abbandono scolastico del 12,7% l’Italia è il terzo Paese in Europa per numero di early school leavers, studenti e studentesse che decidono di interrompere il proprio percorso di istruzione prima di aver conseguito il diploma. Peggio di noi fanno solo Spagna (13,3%) e Romania (15,3%), a fronte di una media europea del 9,7%. A ciò si aggiunge poi il dato relativo alla cosiddetta “dispersione implicita”, ovvero la percentuale di studenti che, pur non avendo abbandonato la scuola, al termine del proprio ciclo scolastico non hanno raggiunto i livelli di apprendimento minimi per poter continuare gli studi o approcciarsi al mondo del lavoro, passata dal 7,5% del 2019 al 9,8% del 2021 (anche a causa dei problemi legati alla didattica a distanza imposta dalla pandemia).
Al di là del dato nazionale, a rendere queste cifre eccezionalmente preoccupanti è il divario esistente fra il Nord e il Sud, con punte di dispersione esplicita in Sicilia (21,1%) e in Puglia (17,6%) e un record di dispersione implicita in Campania (19,8% dei diplomati, dieci punti in più rispetto alla media nazionale). Si tratta, nella maggior parte dei casi, di persone destinate ad aggiungersi alla quota dei cosiddetti Neet (Not in Education, Employment or Training), giovani di età compresa fra i 15 e i 34 anni che non studiano, non lavorano e non sono inseriti in alcun percorso di formazione – al momento, circa uno su quattro. Per migliaia di studenti e studentesse sembra che la scuola si stia lentamente trasformando, più che in un trampolino di lancio verso il futuro, in un’esperienza da terminare il prima possibile, sempre più povera non solo di stimoli didattici in grado di catturare l’interesse di persone nate nel terzo millennio, ma anche di occasioni di crescita e arricchimento personale, al punto che smettere di frequentarla – soprattutto nei contesti socio-economici più svantaggiati, dove la qualità dell’istruzione è ancora più bassa – equivale a togliersi un peso, con buona pace del 56% di italiani che giudica il sistema scolastico attuale un discreto successo.
All’origine del fenomeno si ritrova una generale mancanza di interesse (e di lungimiranza) della politica nei confronti della scuola, un’istituzione dedicata a persone senza diritto di voto e temporaneamente improduttive da un punto di vista economico, a vantaggio delle quali, quindi, l’ipotesi di investire dei soldi passa sistematicamente in secondo piano rispetto a questioni percepite come più urgenti – come ad esempio l’aumento delle pensioni. Lo stesso approccio, d’altra parte, è stato confermato anche dall’approvazione dell’ultimo Documento di Economia e Finanza, stando al quale i fondi destinati al settore scolastico scenderanno dal 4% al 3,5% del PIL: una quota che, come nota l’economista Roberto Torrini, presumibilmente continuerà a essere assorbita soprattutto dalle risorse umane (nonostante gli stipendi degli insegnanti italiani siano fra i più bassi d’Europa) a discapito di provvedimenti come la messa in regola degli istituti, la digitalizzazione della didattica, l’acquisto di nuovi dispositivi e materiali, la costruzione di mense e palestre o, ancora, l’assunzione di nuovi insegnanti per poter garantire il tempo pieno in ogni comune d’Italia.
La mancanza di spazi e tempi da dedicare all’apprendimento rappresenta una variabile cruciale alla base delle disuguaglianze educative denunciate da Save the Children. La presenza di un servizio mensa negli istituti, per esempio, è essenziale non solo per garantire l’accesso a un’alimentazione bilanciata a chi, altrimenti, non se lo potrebbe permettere, ma anche per favorire il consolidamento delle amicizie e assicurare a studenti e studentesse la possibilità di rimanere a scuola per un tempo più ampio. Soprattutto nei contesti socio-economici più svantaggiati, dove i modelli educativi e le opportunità di svago scarseggiano, trascorrere una parte delle ore pomeridiane in un ambiente protetto e culturalmente stimolante, dedito non tanto alla trasmissione unilaterale di nozioni quanto piuttosto al confronto fra pari, importante per il potenziamento delle capacità di problem solving e per lo sviluppo delle cosiddette competenze “non cognitive”; alla valorizzazione di materie diverse da quelle tradizionalmente associate alla scuola, come la musica, l’arte o lo sport; o a riflessioni collettive su tematiche di attualità renderebbe non solo l’insegnamento più efficace, ma anche l’intera esperienza scolastica più piacevole, allontanando così il rischio di abbandono.
La presenza di mense e palestre – importanti non solo per lo svolgimento delle attività curricolari, ma anche come centri aggregativi per l’organizzazione di attività pomeridiane a prezzi accessibili, come già accaduto in alcune periferie romane – si inserisce nella questione, più ampia, relativa alla qualità degli spazi educativi nel loro complesso, insieme a fattori come la sicurezza delle infrastrutture (solo quattro scuole su dieci possiedono un certificato di agibilità), l’accessibilità degli istituti o la presenza di aule informatiche. Tutte caratteristiche nettamente più carenti al Sud, dove non a caso il tasso di dispersione scolastica raggiunge i livelli più alti. Meno del 10% delle scuole elementari e medie di Ragusa, Agrigento e Catania, per esempio, sono dotate di una mensa (a Napoli e Palermo si scende sotto il 6%), contro l’80% di Aosta, Torino e di alcune province toscane. Valori simili riguardano la possibilità di usufruire del tempo pieno – presente in oltre il 60% delle scuole nel Centro-Nord e in meno del 10% nelle province Siciliane – e la presenza di istituti forniti di una palestra – con l’eccezione della Puglia. Si tratta di una distribuzione inversamente proporzionale al benessere economico delle famiglie, per cui i minori provenienti dagli strati sociali più svantaggiati (residenti al Sud e nelle città metropolitane) sono anche quelli con meno opportunità educative e quindi i più vulnerabili al rischio di dispersione scolastica – una condizione a sua volta destinata ad alimentare la precarietà economica.
Un nodo ulteriore riguarda poi la preparazione dei docenti, relativa non tanto alla conoscenza della materia insegnata quanto piuttosto alla capacità di coinvolgere e appassionare gli studenti, instaurando con loro una relazione basata sull’empatia e sulla stima reciproca e rendendo così il momento della lezione un’occasione di arricchimento – personale e intellettuale – per ambo le parti. Che l’intero sistema scolastico, ancora oggi basato quasi esclusivamente sulla lezione frontale e sull’accumulo di conoscenze, necessiti di essere rinnovato non è una novità: altrettanto evidente è, tuttavia, la tendenza degli insegnanti più motivati a concentrarsi – per ragioni non difficili da immaginare – nelle scuole situate nei contesti più benestanti e viceversa, fenomeno che contribuisce a favorire a sua volta l’ampliamento dei divari educativi fra Nord e Sud e fra centro e periferie.
A ciò si aggiunge, infine, l’influenza del contesto: nel Meridione, infatti, le classi sono più numerose e il numero di docenti inferiore, con il risultato che le lezioni risultano più snervanti per chi insegna e meno coinvolgenti per chi vi partecipa. Riprendendo Daniela Lucangeli, docente di Psicologia dello sviluppo e presidente del Coordinamento nazionale degli insegnanti specializzati (Cnis), le emozioni provate in fase di apprendimento tendono a essere riproposte ogni volta che la persona si cimenta nello stesso compito, sia esso la lettura di un testo o un calcolo aritmetico: è altamente probabile, quindi, che un’esperienza didattica dominata da rabbia, frustrazione e senso di fallimento – emozioni frequenti nel momento in cui lo studente viene abbandonato a sé stesso – a lungo andare si rifletterà in attività percepite come insostenibili, annientando così il futuro scolastico degli studenti e il loro senso di autoefficacia.
“L’idea di fondo di chi gestisce gli stanziamenti all’istruzione è che la dispersione sia un fenomeno esclusivamente riconducibile alla scuola”, riferiscono i docenti intervistati da Save the Children. “È cruciale, invece, considerare la privazione educativa come un fenomeno dipendente anche dalle condizioni sociali, culturali ed economiche dei territori, stabilendo criteri per la distribuzione delle risorse che tengano conto di tali fattori”. Una distribuzione che, al contrario, al momento continua a escludere molte delle scuole situate nei quartieri più difficili, sintomo di un evidente scollamento fra i criteri considerati dal ministro dell’Istruzione Bianchi e la realtà delle periferie. Il contrasto alla dispersione scolastica richiede un’imprescindibile inversione di paradigma, oltre a un aumento della spesa destinata all’istruzione, al momento fra le più basse d’Europa.