La scuola italiana produce giovani frustrati e disillusi. Ci serve una rivoluzione totale.
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Le scuole, i luoghi in cui gli studenti passano la maggior parte del loro tempo, sono edifici anonimi, prefabbricati dai soffitti bassi, o antichi e cupi, spesso fatiscenti, a cui si cerca di rimediare adornando le pareti con disegni e cartine geografiche. Gli studenti sono perennemente sotto il controllo degli insegnanti, privati di spazi aperti in cui potersi muovere in pausa o prendere anche solo una boccata d’aria, sono costretti a rimanere seduti per circa sei ore al giorno rovinandosi la postura su sedie da cui non vedono l’ora di scappare e assumendo abitudini del corpo sbagliate, difficili poi da rivedere e che in futuro diventeranno problemi cronici. A volte subiscono atti di bullismo da parte dei compagni o umiliazioni pubbliche che vengono dagli insegnanti stessi, la maggior parte di loro a scuola percepisce un profondo senso di solitudine. La campanella che segna l’orario di uscita sancisce la loro libertà e la riappropriazione di se stessi. Inchiodati nelle aule per così tante ore, gli studenti ascoltano lezioni per cui spesso non nutrono alcun interesse (e non hanno tutti i torti), e che, probabilmente buona parte di loro non ricorderà più subito dopo l’interrogazione, se va bene.

Questo è il quadro che emerge dal nuovo risultato dell’indagine OCSE-PISA 2018, che attesta inoltre che gli studenti non sono in grado di interpretare un testo, e sono pochissimi quelli che leggono. Questo determina preoccupazioni non solo a livello di cultura personale, ma anche sociale, poiché l’incapacità di comprendere un testo determina una certa resistenza nell’assorbire il valore delle notizie. Così, i ragazzi si ritrovano a trascorrere la maggior parte delle loro giornate in luoghi decadenti, senza peraltro imparare a conoscere il mondo, o magari a costruirne uno nuovo. A che cosa serve allora andare a scuola? È questo il senso più profondo della crisi della scuola, di cui ormai si parla da anni. La scuola è in crisi perché i suoi metodi e i suoi obiettivi non sono più adeguati alle nuove esigenze degli studenti. La scuola è diventata inappropriata alle trasformazioni della società, che ha altre passioni e inquietudini, e si interfaccia con una nuova percezione della realtà. La scuola che conosciamo sembra essersi fatta troppo vecchia e non riuscire a tenere il passo: la sua incapacità di ripensarsi, e a trasformarsi è probabilmente il motivo principale della sua crisi.

A dimostrarlo è stata la politica degli ultimi anni, che ha solo cercato di mettere delle toppe in una struttura che trema dalle fondamenta. Le ultime strategie politiche hanno incentivato esclusivamente il controllo e il giudizio sui ragazzi. Tutto questo, perché sembra emergere un unico principio: non importa quale fase della vita lo studente stia affrontando, che cosa stia subendo, quali siano le sue preoccupazioni; uno studente deve sempre rendere ed essere competitivo, così come un lavoratore. La scuola diventa così un luogo di coercizione, in cui lo studente non possa essere se stesso, ma può solo ascoltare e rimanere seduto.

Gli insegnanti, in questa corsa disperata della scuola di stare dietro a trasformazioni da cui non vorrebbe però essere toccata, sono stati costretti a diventare burocrati e controllori. Perdono tempo dietro a scartoffie, questionari, progetti e bandi, test da sottoporre, tutto per rendere la vecchia scuola ancora competitiva. In questo senso, possiamo dire che la scuola a volte somiglia più a un ufficio di vecchio stampo, che non a un luogo in cui dovrebbe circolare la conoscenza. Si è infatti dimenticato ciò che ha reso la scuola superiore a ogni lavoro: essa è un’occasione. Le origini della scuola pubblica risiedono nella decisione politica di dare a tutti i cittadini, almeno idealmente, le stesse opportunità, a prescindere da qualsiasi estrazione sociale, perché solo la cultura rende davvero liberi e padroni di sé. Ma una scuola così obsoleta rende gli studenti ottusi, impreparati al mondo e fa sì che chi può permetterselo vada a cercare istituti di qualità superiore, pagandoli a caro prezzo

Una trasformazione della scuola è necessaria e possibile. Per attuarla però bisogna imparare a guardare in modo diverso sia gli studenti che gli insegnanti. I bambini e i ragazzi non sono teste vuote da infarcire di nozioni e disciplina; perché siano responsabili è indispensabile che siano accompagnati in un processo che li renda autonomi. È necessario che diventino liberi di essere ciò che vogliono, assecondando le proprie inclinazioni e i propri talenti, se la scuola deve avere un compito è proprio quello di prepararli al mondo, per imparare nozioni, quelle più funzionali al percorso scelto, ci sarà sempre tempo, quello che conta è la forma mentis. Lo aveva già capito Maria Montessori, che fondò un intero metodo pedagogico sull’autonomia del bambino, purtroppo mai realmente integrato nella scuola pubblica italiana. Secondo il suo metodo, la scuola non è che un ambiente che incoraggia l’azione spontanea del bambino e dello studente, affinché impari rispettando il proprio ritmo personale. La scuola è così intesa non come una gabbia di contenimento, ma come un habitat, un nido in cui l’individuo deve sentirsi al sicuro, senza alcun timore, in modo da potersi esprimere al meglio ed evolvere.

Sulla scia dell’entusiasmo avviato dalla pedagogia montessoriana nacque anche un altro genere di scuola alternativa, che ancora oggi prospera in tutto il mondo. Si tratta della scuola Waldorf, basata sul metodo pedagogico di Rudolf Steiner, che ha incarnato proprio il principio secondo cui la scuola sia un’opportunità e non una costrizione. La prima scuola Waldorf, detta anche “steineriana”, nasce a Stoccarda nel 1919, quando il proprietario della fabbrica di sigarette Waldorf Astoria, Emil Molt, affida a Steiner la direzione di una scuola per i figli dei suoi operai. Il metodo steineriano si fonda sull’indipendenza e la creatività dei suoi studenti. In modo particolare, una delle caratteristiche della scuola steineriana è quella del “gioco libero”: tutti gli studenti, dai bambini più piccoli fino ai liceali, hanno diritto a momenti della giornata in cui possono godere dello spazio aperto come preferiscono. Il gioco libero è un pilastro fondamentale di questa pedagogia, perché gli studenti hanno la possibilità di correre, socializzare, scoprire essi stessi i loro limiti e l’ambiente che li circonda. Sia nel metodo steineriano che in quello di Montessori non si prevede alcun controllo sullo studente, ma lo si lascia libero, affinché possa prendere contezza di sé, acquisire sicurezza nelle proprie capacità e divenire allo stesso tempo responsabile.

Non è un caso se il partito nazista tentò di arrestare la diffusione delle scuole steineriane: i loro principi contribuivano a creare una società libera e consapevole, erano troppo lontani da quelli promulgati dal Nazionalsocialismo, che faceva leva su un popolo insoddisfatto, rancoroso e reso ottuso da anni di umiliazioni e vessazioni attuate dalle istituzioni su di lui. E ancora Mussolini, che all’inizio sembrò appoggiare le Case dei Bambini montessoriane, assorbendone la fama internazionale, decise poi di chiuderle tutte, tanto che Maria Montessori fu costretta a fuggire dal Paese. E ancora oggi, assistiamo al paradosso per cui le scuole montessoriane sono molto più diffuse in Nord Europa che non in Italia.

Il loro ruolo degli insegnanti, in queste pedagogie alternative che vedono l’allievo come primo maestro di se stesso, è quello di guidare, senza dare giudizi o inculcare alcun precetto o pregiudizio, seguendo la loro stessa vocazione nell’insegnamento. Gli insegnanti si riappropriano così del loro ruolo di divulgatori di conoscenza, insegnando a pensare, senza somministrare test inutili, più simili agli show televisivi che a un momento di reale crescita personale, a cui dare risposte preconfezionate, che altro non fanno che uniformare le coscienze.

L’impresa di riformare la scuola è complessa ma possibile, è già stata tentata e in alcuni casi, se non ostacolata da chi desiderava essere circondato da persone instupidite più facili da opprimere, è riuscita, portando a risultati di grande qualità. Il più grave rischio che stiamo correndo è di lasciare che gli insegnanti si riducano a diventare tecnocrati e gli studenti eterni minori, che necessitano di controllo continuo e che perdono la loro capacità a pensare e inventare. Martha C. Nussbaum, filosofa e insegnante statunitense, all’inizio del suo libro Non per profitto, descrive la crisi dell’istruzione come “una crisi che passa inosservata, che lavora in silenzio, come un cancro; una crisi destinata a essere, in prospettiva, ben più dannosa per il futuro della democrazia”. Se trascurata ancora, la crisi, secondo Nussbaum, condurrà a “generazioni di docili macchine anziché cittadini a pieno titolo, in grado di pensare da sé”. E sembrerebbe che questo sia proprio ciò che desidera la nostra classe dirigente. Per questo sarà solo a partire da una rivoluzione interna alla scuola, che si riusciranno a dare risposte ai bisogni delle nuove generazioni.

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