“I want you to panic”. Non è un messaggio di speranza, quello che Greta Thunberg sta cercando di portare, fin dallo scorso agosto, dalle strade alle scuole passando per le istituzioni di tutto il mondo. Non è il solito invito a realizzare un idillio fatto di arcobaleni, cieli tersi in cui le rondini si apprestano a migrare e montagne sorridenti, ma qualcosa di ben più sferzante: uno sciopero, e precisamente uno sciopero per il clima. “Skolstrejk för klimatet” è scritto sul cartello da cui Thunberg non si separa mai e, oggi, in virtù di quelle parole e in nome di quella causa, centinaia di migliaia di persone si mobiliteranno nel primo, grande Sciopero Globale per il Futuro.
Domani studenti, insegnanti, medici, giornalisti, semplici cittadini si riuniranno in tutto il mondo per quella che si preannuncia come una delle manifestazioni più partecipate e significative dell’era contemporanea. In un articolo per Die Zeit Maximilian Probst riflette sulle affinità con altri grandi movimenti globali come il Sessantotto poiché ora come allora gli studenti rappresentano il cuore pulsante della mobilitazione, trascinando con sé un ceto intellettuale finora dormiente e, cosa più importante, un’attenzione mediatica senza precedenti.
Fino a poco tempo fa, infatti, sarebbe stato impensabile che una ragazza svedese di appena 16 anni, armata di un semplice cartello, potesse risvegliare tante coscienze. La caparbietà e la sincera convinzione con cui ha portato avanti la sua protesta hanno sortito gli effetti sperati. Appena sei mesi fa sedeva da sola, ogni venerdì, di fronte al Parlamento svedese. Oggi è l’ispiratrice di un movimento, Fridays For Future, apartitico, nonviolento, transnazionale, che ha riportato al centro dell’attenzione pubblica il cambiamento climatico e i rischi a cui l’umanità andrà incontro se non si interverrà immediatamente per scongiurarne gli effetti devastanti. C’è un solo modo per comprenderli: dobbiamo farci prendere dal panico.
Greta Thunberg è una ragazza con la sindrome di Asperger, un disturbo che può coinvolgere le interazioni sociali e che a lei causa un mutismo selettivo; ciò significa che parla solo quando lo ritiene strettamente necessario, e quasi sempre questo avviene quando si tratta di cambiamento climatico. Ha cominciato a interessarsene all’età di 8 anni, e a 11 è caduta in depressione per questo motivo, fino a sfiorare l’anoressia. Poi, un giorno, si è resa conto che piuttosto che restare ferma a lasciarsi divorare dalla rabbia e dalla paura avrebbe potuto sfruttare quelle sensazioni per agire e fare qualcosa di concreto. È iniziato così il suo skolstrejk för klimatet, che l’ha condotta prima alla COP24 di Katowice, poi al Forum economico di Davos e infine al Comitato economico e sociale europeo.
Greta è vegana e non viaggia in aereo per evitare l’impatto ambientale, per cui si sposta solo in treno. “È assurdo che le persone arrivino qui per discutere di cambiamenti climatici a bordo di jet privati,” ha dichiarato lo scorso 25 gennaio alla platea di Davos, riunita per il World Economic Forum. “Alcune persone sapevano esattamente cosa stavano sacrificando per continuare a realizzare inimmaginabili quantità di profitti. E credo che alcuni di voi qui presenti appartengano a quel gruppo di persone,” ha insistito. Greta non ha paura di essere esplicita e la cifra più rivoluzionaria del suo carattere consiste proprio in questo, nel non lasciarsi intimorire dalla caratura dell’interlocutore, nel rivolgersi in modo schietto e brutale, nell’affrontare con semplicità, ma senza banalizzazioni, la questione ambientale. Lo fa da una prospettiva nuova, quella di studentessa che si vede letteralmente rubare il futuro davanti agli occhi in nome di un’ingordigia capitalistica senza freni, una cieca avidità di profitto che sta trascinando l’intero pianeta verso il disastro.
“La maggior parte dei politici non vuole parlare con noi. Bene, neanche noi vogliamo parlare con loro. Vogliamo invece che parlino con gli scienziati”. Non c’è difesa o giustificazione di fronte a queste parole. Per la prima volta, i leader politici vengono messi di fronte alle loro responsabilità per aver ignorato gli effetti del cambiamento climatico. E a farlo è forse l’ultima persona che si sarebbero aspettati, una ragazza che li affronta a viso aperto, senza alcun timore. Chissà se qualcuno di loro avrebbe mai immaginato che un giorno sarebbero stati proprio i più giovani a metterli all’angolo. Giovani come la diciassettenne Maja Brouwer, che si è inginocchiata al consiglio comunale dell’Aja per supplicare un intervento, o la tredicenne Alexandria Villasenor, che sciopera ogni venerdì di fronte alla sede dell’Onu di New York.
Fridays For Future ha avuto il merito di sommergere il silenzio omertoso sul cambiamento climatico e rivelare la complicità ipocrita di Governi e multinazionali. Al punto che lo stesso Juncker, dopo aver ascoltato il discorso di Greta al Parlamento Europeo, ha annunciato che nella sua proposta di budget programmatico dell’Unione per il settennio 2021-2027 un quarto della somma totale verrà destinato ad azioni di contrasto al cambiamento climatico. Su un budget complessivo di circa 1.130 miliardi, questo significa poco più di 40 miliardi di euro all’anno: una cifra ancora del tutto inadeguata, ma che dimostra come si sia aperta una breccia nel modo di considerare il problema.
Certo, le risposte che arrivano dalle istituzioni comunitarie sono per ora parole, mentre il tempo stringe: il rapporto IPCC del 2018, come sappiamo, ha fissato in dodici anni la deadline entro cui implementare azioni di netta discontinuità sotto il profilo delle politiche energetiche, ambientali e climatiche per soddisfare gli obiettivi contenuti nell’Accordo di Parigi, al fine di contenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali. E al momento, nonostante una rinnovata sensibilità, sembra piuttosto improbabile che l’obiettivo venga raggiunto, soprattutto alla luce del populismo negazionista alimentato dalla dissennatezza di presidenti come Donald Trump, che ha da poco istituito un panel di scienziati per smentire il global warming, o Jair Bolsonaro, che ha sottratto alla Fondazione Nazionale degli Indigeni il controllo delle riserve dell’Amazzonia.
Anche per questo, scioperare il 15 marzo è importante; un gesto simbolico, ma non solo. Perché le proposte messe in campo dal movimento sono concrete, e saranno ribadite in migliaia di piazze in oltre 90 nazioni diverse – e le adesioni continuano ad aumentare. “Al governo italiano,“ci spiega Sarah Marder, referente di Fridays For Future per l’Italia, “chiediamo di attuare oggi stesso la transizione dal modello delle fonti fossili a quello delle energie pulite e rinnovabili, per evitare al Paese gli effetti degli sconvolgimenti climatici, il declino economico, industriale e sociale. Il settore è tecnologicamente maturo per una sostanziale transizione e raggiungere l’obiettivo Zero emissioni al 2050”. Secondo Marder serve una rivoluzione culturale, sociale, economica e politica, “Un cambio di paradigma. Dobbiamo smettere di pensare solo a noi stessi e ai nostri bisogni immediati. Dobbiamo pensare che tutto ciò che facciamo ha un impatto, e agire secondo ciò che è bene anche per gli altri e per questo mondo”.
Prendere coscienza che il nostro tempo è agli sgoccioli è la precondizione fondamentale, non limitandosi a chiedere interventi dall’alto, che pure sono necessari, ma sviluppando e consolidando a ogni livello buone pratiche ambientali, che dovrebbero coinvolgere ogni aspetto della vita quotidiana, dal singolo individuo ai corpi intermedi, dai network produttivi alle amministrazioni locali, fornendo gli strumenti atti a conseguire la sostenibilità ambientale. Tutti siamo coinvolti, nessuno escluso.