In molti si chiedono che corso avrebbe preso la storia dell’uomo se Adolf Hitler fosse stato ammesso all’Accademia di Belle Arti di Vienna. Lui stesso diceva di sé di essere un artista, molto più che un politico, e che una volta conclusa la missione in Polonia sarebbe tornato sui suoi dipinti. Cercando su Google le immagini che testimoniano questa lunga parentesi della sua vita, apparentemente in contrasto con tutto ciò che è venuto dopo, si trovano paesaggi idilliaci, castelli, fiori, montagne innevate, laghi. La natura è la protagonista del suo immaginario pittorico, una collezione di cartoline bucoliche che raccontano la Germania più pura e incontaminata. Potrebbe sembrare una contraddizione con lo spirito del nazismo, una dottrina che ha industrializzato la morte, usando la tecnologia come mezzo di annientamento dell’uomo, tutto l’opposto di ciò che punta a evocare un castello serafico e immerso nel verde tra i fiori selvatici della foresta. The Zone of Interest, il film di Jonathan Glazer plurinominato agli Oscar, Cannes e Golden Globes, dimostra che non lo è. Il film, infatti, sembra un dipinto di Hitler: il lago, l’idillio familiare, il grande rispetto per la natura che si trasforma quasi in ossessione per la disposizione di certi fiori e per la cura dell’orto; il tutto in perfetta convivenza con un luogo che, per il male fuori dal comune che ha ospitato, non è difficile definire “contro natura”, ossia Auschwitz.
Da quando ho scoperto che il meteo dell’iPhone offre anche una mappa sulla qualità dell’aria la mia vita ha preso una piega angosciosa. Guardare il meteo, azione quotidiana e automatica, significa trovare molto spesso una macchia viola che corrisponde alla legenda “Qualità dell’aria estremamente scarsa”. Una nuvola che sovrasta lo spazio in cui abitiamo, come un fantasma che ci insegue ovunque. Per ragioni molto diverse, questa sensazione di soffocamento l’ho provata durante tutta la visione di The Zone of Interest. Se nella pianura padana a invadere il cielo di scorie e a rendere l’aria irrespirabile sono perlopiù allevamenti intensivi e fabbriche, in questo film è l’attività scientifica e industriale volta allo sterminio di milioni di ebrei nei campi di concentramento a oscurare il cielo.
La nube tossica che schiaccia gli abitanti del villaggio attorno ad Auschwitz, inquinando l’atmosfera bucolica e naturalisticamente intatta, è una presenza costante: entra nei polmoni, negli occhi, fa da colonna sonora al sonno dei protagonisti, colora il cielo di nero al mattino e di rosso la sera, con un rumore perenne che si mescola alle urla delle persone massacrate durante il giorno e cremate nella notte. Persone che, sorprendentemente, non vediamo mai, scelta narrativa che rende il film così efficace nella sua messa in scena dell’orrore.
Il racconto cinematografico dell’olocausto è un elemento fondativo della cultura occidentale del Novecento, non solo perché esistono documentazioni audiovisive di ciò che avvenne durante la Shoah, elemento che rafforza in termini iconografici il racconto di questa tragedia. Abbiamo imparato a riconoscere i suoni e le immagini del nazismo tramite decine di film, in un vortice di rappresentazione che ha toccato qualsiasi declinazione estetica, dal bianco e nero di Schindler’s list alla fantasia di Tren de vie, passando per le rivisitazioni postmoderne di Quentin Tarantino in Bastardi senza gloria o ai più recenti tentativi italiani di emulazione tarantiniana come Freaks Out di Mainetti.
L’intensità di raffigurazione è così estesa da aver in alcuni casi aggiunto delle connotazioni comiche a un fatto che è senza dubbio tra i più tragici della storia dell’umanità: La caduta – Gli ultimi giorni di Hitler, film del 2004 con protagonista Bruno Ganz, è diventato un meme. Il video del discorso finale di Hitler è stato riproposto con sottotitoli sempre diversi che ne parodiavano i toni e la gravità. Non ci può essere un giudizio di valore rispetto a questo fenomeno inevitabile che non risparmia nessuna traccia audiovisiva a disposizione del presente – tranne, ovviamente, nelle sue declinazioni antisemite. E dal momento che l’ironia è uno strumento interpretativo della realtà che funziona anche come mezzo di metabolizzazione di tragedie, specialmente quando abbiamo a disposizione così tanti frammenti di immagini e suoni legati a un tema, il fatto che esistano delle reinterpretazioni della Shoah così variegate rende sempre più difficile trovare dei punti di vista inediti attraverso cui raccontarla. Motivo per cui la storia di The Zone of Interest è così d’impatto: è un cambio di focus rispetto alla descrizione cinematografica e letteraria di cui abbiamo fruito fino a oggi.
È chiaro che un film sulla vita privata e domestica di Rudolf Höss, comandante del campo di concentramento di Auschwitz e responsabile dell’utilizzo di mezzi come il gas Zyklon B per ottimizzare lo sterminio, rimandi al concetto di “banalità del male” teorizzato da Hannah Arendt. La responsabilità collettiva e la diluizione fordista dell’impresa che fu il genocidio degli ebrei da parte dei nazisti passa, come spiega la filosofa nel suo famoso testo, attraverso le piccole cose: l’uomo che ha costruito le rotaie per il treno che deportava uomini e donne ai campi di concentramento è tanto responsabile quanto chi ha impiegato l’uso delle camere a gas? L’interrogativo morale di Arendt è da sempre un tema centrale nell’analisi dei processi che portano ai sistemi totalitari. In The Zone of Interest, tuttavia, quello che ho percepito, più che la banalità del male è la banalità del bene, un bene intimo e quotidiano, espresso senza ostacoli né dubbi, con piena coscienza di ciò che prendeva luogo in uno spazio connotato dal male diffuso in ogni suo centimetro.
La dimensione borghese e ordinata dentro cui si muovono i membri della famiglia Höss, attaccati alle mura oltre le quali vivono gli ebrei deportati, è una bolla perfettamente isolata. L’unico momento in cui possiamo vedere ciò che succede oltre il loro giardino curato è quando la nube dei forni inceneritori invade il cielo, sporcando la visuale pulita e asettica, o quando le ceneri vengono riversate nel fiume, disturbando le attività di pesca e gioco del comandate con i suoi figli. Tutto il male è nascosto da una prospettiva di alterità; non vederlo però, al contrario di quanto si potrebbe pensare, non significa nasconderlo.
L’assenza del protagonista dell’olocausto, ossia il popolo ebraico, è ciò che rende così forte la messa in scena di Glazer. Ciò che vediamo è il bene declinato in una forma grottesca dentro cui tutto sembra assurdo, l’affetto di una famiglia unita, l’orgoglio di una madre che va a trovare sua figlia e si complimenta per la bella vita che ha raggiunto, la leziosità di una donna che si prova allo specchio una pelliccia e un rossetto requisito a qualche deportata di cui non sappiamo nulla, i giochi in riva al lago, il dispiacere di un padre nell’apprendere di doversi staccare dalla propria famiglia per un trasferimento. Tutti questi elementi compongono un ritratto di felicità semplice e naturale, ingenua quasi, in piena dissonanza con il luogo in cui i fatti sono ambientati, ossia il campo di concentramento più importante della storia della Shoah. L’affetto e l’amore che gli Höss ripongono nel coltivare fiori e nel rendere piacevole la vita di famiglia, con i suoi rituali e i suoi momenti di tenerezza, è inversamente proporzionale alla malvagità strutturale e capillare con cui i nazisti, compresi loro, portano a termine il loro obiettivo di sterminio.
A rendere ancora più evidente questo cortocircuito tra bene e male nella raffigurazione di The Zone of Interest è l’estetica realista e scarna – oltre che il punto di vista distante da cui ci fa guardare Glazer – dentro cui il regista incornicia la vita degli Höss. I primi piani sono quasi assenti, così come la colonna sonora che interviene solo sotto forma di rumore che scandisce una divisione in capitoli resa con i colori del nazismo: il nero, all’inizio del film, il bianco a metà e il rosso alla fine, scandiscono il tempo di una rappresentazione fatta di colori tenui, quasi sbiaditi.
L’apice della distanza creata dall’ambiente chirurgico, che contrasta con i dialoghi intimi e privi di qualsiasi senso di orrore o rimorso nei confronti di ciò che vive e muore al di là del muro di casa, lo vediamo alla fine, in un brusco ritorno al presente nella realtà di Auschwitz al giorno d’oggi. Un museo, tenuto pulito e curato dal personale, dentro cui si ripropone quel senso di indifferenza e automatismo dettato dall’abitudine al contatto con il male. Una montagna di scarpe appartenute a uomini e donne morti in quel posto meno di cento anni fa diventa paesaggio, il senso del singolo svanisce nella moltitudine della massa.
Come ha scritto Richard Brody in una recensione sul New Yorker, The Zone of Interest trasforma gli orrori dell’Olocausto in Scene da un matrimonio. E in questa trasformazione il male diventa ancora più vivido, proprio perché messo accanto – in modo invisibile ma incombente – alla quotidianità del bene, espresso nelle sue banalità più comuni, una festa di compleanno, un regalo, dei giocattoli, una piscina dentro cui festeggiare al sole, azioni umane che, svolte in quel momento e in quel luogo, rendono i protagonisti disumani. Ma la nuvola del disastro incombe sull’idillio, si avvicina e travolge i protagonisti. Loro non sanno che quel sistema infernale, così come la loro vita di tutti i giorni, verrà spazzato via e condannato dalla storia, noi spettatori sì. Ciò tuttavia non rende più sopportabile l’atrocità messa in scena da Jonathan Glazer, che con The Zone of Interest ci rimette davanti agli occhi un ritratto doloroso e indimenticabile, ma anche un monito: l’indifferenza asettica nei confronti della sofferenza di un altro popolo, per quanto questo viva oltre a un muro, non può rimanere confinata, prima o poi esonda, come il corso di un fiume o come una nuvola che si sposta nel cielo. E anche se non la vogliamo vedere, distratti dalla cartolina dentro cui scegliamo di vivere, quella nube tossica che abbiamo prodotto più o meno coscientemente c’è.