
Le persone attorno a noi vanno sempre di fretta. Noi stessi lo facciamo, il più delle volte: chi per evitare il vuoto, chi un appuntamento di troppo, chi perché magari non ha scelta. Il tempo è diventato una risorsa rara, ce lo ripetiamo da tanto, eppure quando ne abbiamo spesso non sappiamo che farcene. È il paradosso di decenni passati a pensare a noi stessi esclusivamente in relazione al lavoro. Già Franco Battiato, nel 1983, si chiedeva nell’album Orizzonti perduti “E tu che fai di sabato in questa città / Dove c’è gente che lavora, per avere un mese all’anno di ferie”, descrivendoci al meglio nonostante fossero ancora lontani i tempi in cui, pur continuando a lavorare solo per un mese di ferie, ci chiedessimo almeno perché, mentre lui, con la possibilità di scrivere per piacere e non per campare che aveva raggiunto, si interrogava nell’ozio, scoprendo di avere solo la voglia di “passeggiare sempre avanti / e indietro lungo il corso o in Galleria”, con una sigaretta fumata “per il gusto del tabacco”.

Nonostante mi ripeta la stessa bugia sul fumare sigarette ma abbia un talento decisamente meno marcato per la musica, anche io mi interrogo sempre più spesso su questo rapporto tra ozio e lavoro, e più ci penso e più mi sembra che sia un nodo centrale da risolvere per la nostra possibilità di immaginare nuovi presenti e scenari futuri. Non solo perché la società tutta – e ciascuno di noi in prima persona – ha prepotentemente inglobato nella sua identità una forte narrazione legata a questo falso mito, ma anche perché sia la difficoltà di stare nel proprio tempo libero, sia il grande spazio che lavorare occupa nelle nostre vite sollevano questioni e interrogativi quanto mai attuali, e che in sempre più persone percepiamo come dirimenti per ritrovare un senso all’esistenza. Si tratta di ragionare sui nostri desideri, sulle nostre passioni, sui salari, sulle promesse sociali non mantenute, sui modi di stare in relazione con gli altri e sul tempo, appunto, libero e non, che abbiamo a disposizione, sulla cura, sulla vita che vorremmo o che magari non abbiamo nemmeno il coraggio di immaginare. Pensare all’ozio, al lavoro, magari anche a Milano in quanto città, apre molteplici altri rimandi e uno di questi inevitabilmente mi sembra ricondurre ai corti e anche al primo lungometraggio di Yuri Ancarani, artista e regista, a cui MUBI ha dedicato una retrospettiva disponibile in streaming e che proprio sul lavoro, sulla sua artigianalità e sull’ozio dovuto a grandi ricchezze ha incentrato alcune delle sue indagini.
Oggi i discorsi sul lavoro si sentono ovunque: nell’impatto che ha nel farci entrare in burnout, e quindi nella sua relazione con la salute mentale; nell’inadeguatezza dei salari, sempre tra i più bassi in qualunque confronto; nelle professioni che potenzialmente potrebbero essere sostituite dall’intelligenza artificiale o in quelle che saranno tra le più ricercate nel prossimo futuro. Eppure, spesso sono ridotti a grafici e numeri, privati di qualunque componente umana, o sono così imponenti, nel sistema neoliberista in cui siamo immersi, che ci fanno perdere la consapevolezza che il lavoro può essere anche altro, può riacquistare un senso profondo anche una volta slegato dall’ideologia capitalista. I film di Ancarani si muovono proprio in questa direzione, recuperando l’idea che possa anche essere un’arte, rendendo visibile ciò che di solito passa inosservato. “Per me, noi siamo quello che facciamo, quindi il nostro lavoro è fondamentale. Ci aiuta a crescere a livello pratico, ma anche mentale”, mi racconta Ancarani al telefono, mentre passeggia in un parco in cui, sottolinea, i prati stanno iniziando a essere in fiore. “Il valore del lavoro era fondamentale all’interno della famiglia contadina da cui arrivo, ognuno aveva un suo compito. Sentivo ripetere continuamente frasi su come lavorare nobiliti l’uomo, proprie di quella dimensione e le ho fatte mie. Sono stato tra i primi a uscire da quel mondo ma per rimanerne rispettoso, anche dei valori trasmessi da mia nonna, li ho indagati nelle mie opere, esplorando cosa sia una vita senza il lavoro e senza la noia. È stato un tributo, sono diventato un lavoratore”.

Nato a Ravenna nel 1972, dove è cresciuto fino ai diciannove anni prima di trasferirsi a Milano, Ancarani ha esposto i suoi video al Museo d’arte contemporanea del castello di Rivoli, alla Kunsthalle Basel di Basilea, al PAC – Padiglione d’arte contemporanea di Milano, tra gli altri, e alcuni dei suoi corti e lungometraggi sono stati proiettati al MoMa di New York, alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia o candidati al David di Donatello per il miglior documentario. Il suo nome, Yuri, contiene due origini, come ha spiegato: una russa, che significa “contadino” ed è maschile, e una giapponese, femminile che significa “giglio”. Mi sembra un connubio perfetto per descrivere le sue opere, in cui la fisicità e l’artigianalità del lavoro sono catturate attraverso immagini che sembrano impalpabili nel loro muoversi tra cinema e memoria. Nel sua prima trilogia, intitolata La malattia del ferro e realizzata tra il 2010 e il 2012, Ancarani esplora il rapporto tra l’essere umano e la macchina, una relazione a dir poco contemporanea: Il capo segue i movimenti di un capocantiere che dirige, come un direttore d’orchestra, gli scavi in una cava di marmo del Monte Bettogli a Carrara; Piattaforma Luna mostra invece un gruppo di sommozzatori del sito di estrazione del gas “Luna A” a Crotone che lavorano in fondo al mare e vivono all’interno di una camera iperbarica; mentre Da Vinci ci immerge in un’operazione medica all’ospedale Cisanello di Pisa, svolta manovrando i bracci robotici di un sistema chirurgico. “È come se avessi voluto esplorare, seguire, tre direzioni diverse: andando in alto, sulla vetta delle Alpi Apuane, con il film Il Capo; in basso, nel profondo dei mari, con Piattaforma Luna, e dentro, all’interno del corpo umano, con Da Vinci”, mi spiega Ancarani che, ridendo, aggiunge: “Quest’ultimo è l’unico da cui non riesco a staccarmi, quando mi capita di riguardarlo. Dagli altri posso entrare e uscire. A volte mi chiedo come sia riuscito a realizzarlo”.

A La malattia del ferro fa poi seguire la trilogia Le radici della violenza, in cui oltre ai corti San Vittore – girato nell’omonimo carcere, dove i bambini fanno visita ai genitori detenuti – e San Giorgio – ambientato in una banca svizzera per studiare i protocolli del caveau – è presente San Siro. Il corto, dedicato all’omonimo stadio milanese, rappresenta in modo efficace l’interesse del regista per i mestieri fondamentali che sostengono la società moderna. Le riprese trasformano le operazioni quotidiane di manutenzione – come la gestione dei cavi di cablaggio per la diretta televisiva o la riverniciatura dell’area di rigore – in una straordinaria sinfonia visiva, lasciando fuori dall’inquadratura i tifosi, di cui ascoltiamo solo le voci e i cori montare come un presagio. Sta qui la violenza, le sue radici: in uno spazio che si fa espressione degli istinti più atavici, che nella sua essenza si basa sull’opposizione a qualcosa, sul me contro te. Anzi, noi contro voi. Ed è proprio attraverso la sottrazione che Ancarani ribalta in qualche modo la realtà: lavori e lavoratori invisibili passano in primo piano, con la più semplice gestualità, mentre gli elementi che consideriamo fondanti del mondo o di determinati spazi diventano appena da immaginare. “Sono film sensoriali, dove ho deciso che la priorità assoluta è l’immagine. In un momento storico in cui, anche a causa della facilità con cui ognuno sui social esprime la propria opinione, la parola perde sempre più di significato, cerco di sostituire questo nuovo verbo facendo del suono la mia sceneggiatura. Ti fa fantasticare sulle cose che nelle inquadrature non vedi, creando una sensazione quasi tattile”, mi racconta Ancarani. “A me interessano le contraddizioni, la ricerca del sublime. Le immagini che riescono a contenere al contempo la bellezza e la disperazione”.

Sarà sempre a causa di quelle connessioni personali che tutto ci fanno sembrare inevitabile, ma guardando la delicatezza delle immagini di Ancarani, le coreografie che compongono i gesti, mi sono tornati alla mente gli spettacoli ipnotizzanti degli enormi stormi di uccelli che nei cieli diventano un corpo unico ma molteplice, componendo forme al crepuscolo. È come se guardando le opere di Ancarani assistessimo a una danza, come se i segni e le azioni eseguiti per entrare con un macchinario in un corpo o muovere le dita per dare il tempo su come spaccare una lastra di marmo non fossero altro che l’esecuzione di uno spartito prestabilito e non una sinfonia, una ritualità, che invece si produce di volta in volta, sempre in modo nuovo, e diverso, e che ci rimanda appunto proprio a quest’idea di composizione, di assemblamento, in cui ogni elemento – il suono, il lavoratore, una mansione – mantiene il valore essenziale di essere uno e farsi moltitudine – un infinito che non potrebbe esistere senza il singolo. Un risultato che dipende anche dalle molte regole che Ancarani si dà nel realizzare le sue opere. “Mi do tanti limiti: sono regole non scritte, che conosco a memoria, così come le conoscono i miei collaboratori più stretti”, dice. “Sembrano cose da matti, tipo: se decido di posizionare la camera in un determinato luogo, qualcosa succederà sicuramente; oppure se la posiziono nel punto X, tutto quello che c’è nell’inquadratura andrà bene e dovrà restare, senza essere spostato. A un certo punto sembrava che questo modo di lavorare in modo così artigianale, piccolo, preciso, da incisore, fosse il luogo ideale per andare oltre i cortometraggi”.

Così, cercando hashtag in arabo per curiosare dall’altro lato del mondo, un giorno trova uno sceicco che si fa foto davanti a una Lamborghini, insieme a un leopardo. È da qui che nasce The Challenge, il suo primo lungometraggio, vincitore del Premio speciale della giuria, presieduta da Dario Argento, al Locarno International Film Festival del 2016. Al contrario de La malattia del ferro e le radici della violenza, questo film si allontana dal mondo del lavoro per raccontare quello opposto, quello della possibilità della sua assenza, della ricchezza infinita. The Challenge segue infatti un gruppo di facoltosi sceicchi del Qatar durante un fine settimana dedicato alla loro passione per la falconeria, tra auto di lusso, yacht nel deserto e ghepardi come animali domestici. Attraverso un’estetica ipnotica e un ritmo contemplativo, Ancarani cattura il contrasto tra modernità e tradizione, offrendoci uno sguardo unico su un mondo tanto esclusivo quanto surreale. Una realtà in cui tutto ciò che esiste viene trasformato in oro. Qualcosa che invece raramente accade quando si fa cinema o arte, purtroppo, ma che non sembra particolarmente limitare Ancarani. “Io non penso mai ai soldi quando devo realizzare un film”, confessa. “Se decido di realizzare un nuovo progetto i soldi arriveranno e se non ne arriveranno quanti ne ritengo giusti, ma meno, farà parte di quella serie di limiti che utilizzo per realizzare le mie opere, trasformandoli in un’opportunità. La mancanza di investimenti mi porterà a semplificare il lavoro e renderlo più leggero”. E aggiunge: “D’altronde oggi viviamo in un momento in cui il valore estetico, morale, artistico di una pellicola è dato dal costo della sua produzione, ed è un’idea che tendo a rifuggire”.

Portando in superficie le dinamiche, le prassi, i suoni, i gesti, i rituali della nostra quotidianità, ormai resi invisibili dall’abitudine, e ricollegandoci con una componente fisica del lavoro, gli affreschi di Ancarani – per ciò che mostrano, per ciò che lasciano fuori – si fanno tramite per percepire nuovi modi di abitare il futuro, per immaginare che sì, esistono altre possibilità. Allora forse il tentativo che dovremmo attuare per provare a superare la stanchezza e la disillusione nei confronti del lavoro, la difficoltà nel concepire che il tempo libero, il tempo dell’ozio, può essere un tempo di meraviglia, di scoperta, di conoscenza del mondo e di sé, potremmo condensarlo nella stessa postura con cui Ancarani si pone nei confronti del mondo e delle prime volte – per tornare al titolo della rassegna con cui MUBI ha scelto di esplorare i talenti più interessanti del nuovo cinema italiano: imparare a rendere, cioè, ogni volta una prima volta.
La rassegna “Le prime volte: Yuri Ancarani” è disponibile in streaming su MUBI. Iscriviti qui per guardarla gratis e ottieni 30 giorni di prova.
