Di solito l’estate riserva ai palinsesti cinematografici italiani una sequela di blockbuster e film disimpegnati. Si tratta di una delle tante, inspiegabili, pratiche italiane che andrebbero abolite: in altri Paesi, come gli Stati Uniti, non si considera il periodo estivo come un momento di stallo, a cui destinare solo prodotti “leggeri”.
Quest’anno è toccato a Il sacrificio del cervo sacro, ultimo lavoro del regista greco Yorgos Lanthimos
, reggere il vessillo del cinema d’essai. La qualità delle opere del regista greco è “certificata” dalle molte partecipazioni ai più importanti festival europei, che gli sono valse svariate nomination a Venezia e Cannes – in quest’ultima occasione culminata con il Premio della giura del 2015 per The Lobster.È strano pensare a un regista che fa successo pur provenendo dalla Grecia, terra per anni considerata in declino e in conflitto con quell’Europa che ha celebrato per millenni il suo prodotto artistico. Nel cinema di Lanthimos la difficile situazione economica e politica del Paese d’origine non risulta mai esplicitata: il regista preferisce seguire un percorso personale, costruito sul racconto di vicende private. Eppure, nei paesaggi scabri, negli interni svuotati dalla presenza dell’essere umano, nelle fredde interazioni fra personaggi, si intuisce quel non-detto che rappresenta la cifra della violenza taciuta sullo sfondo. L’ambientazione de Il sacrificio è americana, un cambiamento dettato dal salto di qualità della produzione che – come nel precedente The Lobster – vede impegnato Colin Farrell nel ruolo di interprete principale. Lanthimos, nonostante l’approdo a Hollywood, non ha smussato gli angoli più aspri del suo credo cinematografico, mettendo in scena una tragedia in continuità con la violenza psicologica dei lavori precedenti.
Sono quattro i motivi principali che si intrecciano nella poetica del regista greco. Il più vistoso riguarda le relazioni di potere: nelle sue storie c’è sempre un ordine repressivo retto da una figura maschile. È il maschio a esercitare il potere, a creare le maglie psicologiche dei suoi sottoposti che, nell’inganno ordito, non si rendono conto di interpretare il ruolo delle vittime. In Kinetta, il suo primo film rilevante, un fotografo e un poliziotto giocano a mettere in scena omicidi violenti realmente accaduti; per farlo coinvolgono alcune donne che, a furia di sottostare alle angherie dei due uomini, non distinguono più la realtà dalla finzione e tentano il suicidio anche al di fuori della messinscena. Si pongono le basi per il discorso sull’esercizio del potere che poi si amplia nei film seguenti. In Kynodontas un padre dispotico tiene suoi figli adoranti segregati in casa dalla nascita: per farlo insegna loro nozioni sbagliate di storia e geografia e modella il linguaggio, per renderlo innocuo (“pussy” diventa “una grande luce”, il “sale” è chiamato “telefono”). Così, in Alps, un uomo burbero amministra una compagnia di attori, e in The Lobster il potere viene esercitato da una società che obbliga i suoi membri ad accoppiarsi con una presunta anima gemella che rispecchi precise caratteristiche – pena la trasformazione in animale.
Il potere, per affermarsi, utilizza tre strumenti: il dominio del linguaggio, del corpo e della rappresentazione. Del linguaggio abbiamo già detto in Kynodontas, ma la manipolazione della parola si manifesta anche negli altri lavori: nelle interazioni estremamente formali fra i candidati amanti di The Lobster, nei silenzi squarciati da pochi dialoghi di Kinetta, negli pseudonimi della compagnia teatrale di Alps – ognuno infatti ha il nome di una cima alpina decisa dal capo che, per ribadire la propria centralità, si fa chiamare Monte Bianco. Allo stesso modo il corpo è oggetto di controllo: le donne di Kinetta sono vestite dagli uomini che le dominano, in Kynodontas il padre regola gli esercizi ginnici dei figli segregati (i cui corpi sono letteralmente imprigionati), in Alps gli attori si sottopongono ad allenamenti massacranti, fino a The Lobster, in cui il dominio del corpo, degli incontri, dello scambio di fluidi corporei si fa totale.
Lanthimos ci suggerisce che il potere vuole amministrare i parametri dell’espressione per mostrare una falsa rappresentazione del mondo – proprio come la sua Grecia ha dovuto scontrarsi con le leggi europee, in nome di un’adesione all’ideale ormai tramontato di un’Europa unita. La rappresentazione come menzogna è il punto in cui convergono gli sforzi di chi detiene il potere: un punto di vista ancora più forte se ad affermarlo è chi ha fatto delle immagini il proprio mestiere. In ogni film di questo regista si vive in un ordine fittizio: i falsi omicidi di Kinetta, la casa-prigione di Kynodontas, le persone decedute interpretate dagli attori di Alps, le coppie coatte e fittizie in cui si è costretti nel mondo di The Lobster.
Ne Il sacrificio troviamo questi elementi declinati in maniera diversa. All’inizio della vicenda vediamo un cardiochirurgo, interpretato da Colin Farrell, nella sua esistenza quotidiana: operazioni, sobria esistenza borghese in compagnia dei due figli e della moglie, interpretata da Nicole Kidman, le solite trasgressioni della classe media (giochi erotici che richiamano la professione medica) e rapporti con un ragazzo bizzarro che potrebbe essere il classico figlio avuto fuori dal matrimonio. Si scopre che il giovane, interpretato da Barry Keoghan, è il figlio di un paziente deceduto sotto i ferri, e che il chirurgo continua a frequentarlo perché si sente in colpa per quella morte. Da questo senso di colpa si scatena la tragedia che mescola elementi surreali a momenti di violenza psicologica. Da una parte le visite del ragazzo si fanno sempre più insistenti – arriva persino a sedurre la figlia adolescente di Farrell – e dall’altra una misteriosa malattia colpisce i membri della famiglia, che perdono l’uso delle gambe.
A questo punto, si attua il congegno narrativo della tragedia greca – d’altronde il film è una riscrittura contemporanea del classico di Euripide Ifigenia in Aulide: il ragazzo comunica che sulla famiglia grava il peso della vendetta. Poiché il chirurgo ha ucciso suo padre, adesso dovrà togliere la vita di un membro della sua famiglia, altrimenti li vedrà morire tutti lentamente. Se i padri nei precedenti film di Lanthimos rappresentavano la Legge, poiché modellavano il mondo a proprio piacimento, in questo caso il meccanismo si capovolge. In prima battuta Farrell interpreta il classico maschio bianco borghese perfettamente a suo agio nel ruolo di pater familias, ma ben presto l’aura di rispettabilità si sfalda e ci troviamo di fronte a un uomo roso dal senso di colpa e incapace di scegliere cosa è bene per la sua famiglia.
La figura di Farrell – che, arrivato ai quarant’anni, fra i baffi improbabili di True Detective e la barba socratica di questo film, sembra giocare con la mezza età – inizialmente si mantiene fra il fascinoso e il grottesco, sentimento involontario insito nella formalità borghese. Quando si palesa il destino tragico, il maschio dominante perde il controllo, paralizzato dalla necessità di prendere una decisione. La maledizione del Padre ne Il sacrificio sta nel dover rinunciare al proprio dominio: è obbligato a sottostare alla legge delle parola di un altro, non ha potere di guarigione sui corpi dei suoi cari, è costretto a squarciare nel modo più crudele – l’omicidio – la recita dell’idillio borghese. Allo stesso modo, non potrà lavare il senso di colpa, perché le sue mani saranno sempre macchiate dal sangue della violenza. Messa di fronte al proprio destino, la moglie si comporta in maniera matura, decidendo di affrontare la tragedia con razionalità, mentre lui non riesce ad agire in alcun modo. Così, dopo tanti film in cui la donna è vittima, si attua anche nel cinema di Lanthimos la rivalsa della figura femminile.
Questo è l’elemento di novità de Il sacrificio del cervo sacro: la rovinosa caduta morale e sostanziale del potere maschile, a fronte di una maggiore dignità espressa nelle figure della moglie e dei figli. Lanthimos sembra dirci che i tempi sono cambiati: neppure appellarci all’ordine patriarcale ci salverà dal nostro destino caotico. Allo stesso modo, nel campo della politica, il braccio di ferro fra Grecia e Europa si risolve in maniera simile: una Grecia declassata sperimenta nuovi modelli comunitari, mentre l’Unione Europea si ostina a mantenere una rispettabilità di faccia che denota la sua profonda crisi ideologica. Tanto vale smettere di recitare la commedia usurata del potere, e abbandonarsi al cambio di paradigma che, assieme ai traumi, porta anche tante nuove potenzialità.