Ultimamente ho sentito dire da qualcuno che i film di Woody Allen sono maschilisti, in particolare perché propongono un’immagine femminile di “donna svampita”. Ma se non è un segreto che la qualità della produzione artistica del regista sia andata progressivamente abbassandosi col passare del tempo, tipizzandosi sempre più e appiattendosi al canovaccio della commedia à la Woody Allen è anche vero che questo regista, umanamente molto discusso, ha creato nel corso della sua carriera immensi capolavori, che hanno raccontato l’identità di una particolare epoca culturale, e che poi hanno influenzato a livello globale le nuove generazioni di creativi e creative a disagio nel mondo, offrendogli un vero e proprio modello di sguardo a cui aderire. Un’operazione poetica simile a quella fatta successivamente in Italia da Nanni Moretti. Chi di noi non si è identificata almeno una volta in Annie Hall? In Mary Wilkie o in Tracy (anche senza avere come compagno un intellettuale di dieci anni più vecchio), per citare tre tra i personaggi più famosi?
Alla fine degli anni Settanta, Allen aveva una visione più aperta di quella di molti altri registi e sceneggiatori che l’hanno seguito e la capacità di fotografare un mondo e un ambiente culturale ben preciso, senza falsi moralismi, paternalismo o censure. Allen stesso si mette in scena, recitando la parte del creativo sulla quarantina in crisi esistenziale, a tutti gli effetti un inetto nevrotico. Prendere o lasciare. Il suo personaggio contribuisce a creare e a diffondere nel grande pubblico lo stereotipo dell’ebreo newyorkese colto, cinico ed estremamente brillante, che sconta tutto il peso della sua intelligenza, con cui è molto difficile non empatizzare, soprattutto quando si è giovani, e si fa delle proprie idiosincrasie un vanto (quando poi col passare del tempo si scoprono essere semplici limiti e armature).
In realtà da vantarsi non c’è nulla e, mettendo in scena l’Isaac Davis di turno, Allen in realtà muove una profondissima critica, tuttora valida, al maschio bianco, etero, cisgender e appartenente all’élite culturale che lui stesso impersona. Il meccanismo che entra in gioco e che rischia di non essere compreso a fondo dagli spettatori, portati a identificarsi facilmente senza poi fare il passaggio successivo di disvelamento e di consapevolezza delle criticità del personaggio, è lo stesso della saga del ragionier Fantozzi e di certi film di Monicelli e della commedia all’Italiana. La critica sarà anche sottile, però è chiara, ed è portata avanti di volta in volta dalla controparte femminile.
Il personaggio maschile puntualmente interpretato da Allen, che siamo portati a credere sia il protagonista, in realtà non è il protagonista, ma solo il narratore della storia. Il punto di vista che influenza il mondo con il suo sguardo. In un film come Io e Annie (il cui titolo originale non a caso è semplicemente Annie Hall, cosa che non lascia alcuno spazio all’io maschile di Alvy Singer, ennesimo alter ego di Allen), la protagonista, è chiaramente Annie. È Annie che da insicura si trasforma in una donna indipendente, certa delle proprie capacità, da musa ad artista. Anche Alvy ha le sue stesse debolezze, ma a differenza di lei – che ha il coraggio di ammetterle – viene schiacciato dal peso di dover aderire a uno stereotipo machista pur essendo un intellettuale mingherlino, senza senso pratico e in costante disagio nel mondo.
Attraverso la narrazione di questi personaggi maschili deboli, Allen muove una critica profonda alla visione del maschio americano forte e vincente, che va a inserirsi in un solco tracciato da molti narratori che l’anno preceduto, tra cui J. D. Salinger, John Cheever, Richard Yates, ma anche in diversa misura Raymond Carver e Francis Scott Fitzgerald. Viene mostrata in tutta la sua chiarezza la frattura psicologica che questo stereotipo compie sugli uomini che non riescono o non vogliono riconoscervisi, rivendicando la possibilità di un’alternativa, di una figura maschile sensibile – ipersensibile magari – debole come ogni essere umano avrebbe il diritto di essere, e bisognosa d’amore, bisogno che quando non viene ascoltato porta alla nevrosi e allo squilibrio mentale.
Oggi sembra che i ruoli si siano invertiti e la donna, come reazione a secoli di narrazioni vittimiste, debba sempre essere rappresentata come forte, sicura di sé, padrona delle proprie azioni, consapevole, resistente, ostinata ed energica. Pena il non essere abbastanza. Questa narrazione steroidea, nata in risposta a un secolo di male gaze nel cinema, oggettificazione e mercificazione mediatica, rischia però di risultare altrettanto tossica. Trasmettendo un ideale difficile da raggiungere e rischiando di colpevolizzare quelle donne che a volte, semplicemente, non ce la fanno.
Il personaggio della svampita oggi infastidisce anche perché ci è stato somministrato in mille modi diversi, e anche le donne sono comprensibilmente stanche di doversi immedesimare nella maggior parte dei casi in personaggi maschili (cosa che ha portato a tutta una serie di nevrosi femminili parallele a quelle maschili). Il fatto che la narrazione mainstream stia finalmente cambiando, aprendosi a personaggi femminili complessi è un segnale senz’ombra di dubbio positivo, ma questo non deve contribuire ad appiattire le possibilità del racconto e soprattutto la stratificazione che può nascere da una lettura a più livelli data dall’ironia.
Le svampite però non sono tutte manic pixie dream girl. Quando si pensa alla svampita viene subito in mente Pola Debevoise (forse parodia di De Beauvoir?), il personaggio interpretato da Marilyn Monroe in Come sposare un milionario, che per apparire più bella e andare incontro ai canoni di bellezza istituiti dallo sguardo maschile si ostina a non mettere gli occhiali pur essendo drammaticamente miope, creando così una serie infinita di siparietti comici. Eppure anche in questa storica commedia del cinema classico americano gli stereotipi vengono messi in scena e sfruttati abilmente con un occhio consapevole dei loro limiti, facendo sempre uso di un’ironia smaliziata che, ancora una volta, pur seguendo una trama figlia della sua epoca, fa sorridere perché a ben vedere prende in giro tutti i ruoli imposti dalla stessa società di cui parla, e nonostante l’happy ending non ne risparmia nessuno – cosa che succede anche in Quando la moglie è in vacanza, diretto da Billy Wilder.
Un’altra classica apparente svampita fu Audrey Hepburn, ma anche in questo caso, dietro alla sua figura graziosa e romantica, oltre che a una biografia importante si nascondevano ruoli tutt’altro che subalterni. Basti pensare al personaggio di Holly Golightly in Colazione da Tiffany (scritto dal grande Truman Capote), che sembra fare la svampita o esserlo diventata, perché è quello che in fin dei conti le viene richiesto per restare a galla in società, ma che nel profondo è tutt’altro. Ma anche il personaggio più leggero di Gabrielle Simpson in Paris – When it Sizzles (anche questo titolo tradotto malamente con Insieme a Parigi) non deve ingannare. In questa commedia metanarrativa, viene messa in scena la scrittura a quattro mani della sceneggiatura di un film, le cui redini finiscono però per essere tenute dalla signorina Simpson, che si rivela molto più consapevole di sé e talentuosa del suo “mentore”, uno scrittore alcolizzato. Anche qui la musa compie un sovvertimento, diventando essa stessa la felice creatrice del mondo che viene narrato, finalmente libera.
Tornando a Woody Allen: ha trattato la figura femminile in maniera tutt’altro che scontata, ha anzi fatto delle figure femminili di molti suoi film le vere protagoniste. Stando alla teoria della narrazione e al cosiddetto “viaggio dell’eroe”, il protagonista è colui che durante la storia cambia, evolve, attraverso la risposta positiva alla chiamata che lo costringe a spostarsi dal momento esistenziale in cui si trova, affrontando di volta in volta gli ostacoli che per forza di cose incontrerà durante questa evoluzione. Possiamo dire che nei più celebri film di Allen la chiamata la ricevono sia il personaggio femminile che quello maschile, e che anzi, questa chiamata è un incrocio perfetto. Il femminile la pone al maschile e viceversa, diventando così potenzialmente mentori l’uno dell’altro. Ma poi sistematicamente il maschile opta per un rifiuto e non riesce a cambiare, si ritira, mostrando quella ferita a monte che non riesce a guarire, mentre il femminile sì. È questo che ha fatto di personaggi come Tracy e Annie delle figure di riferimento, loro hanno la forza di cambiare, e per questo alla fine abbandonano l’uomo, che involontariamente ha innescato il loro cambiamento, liberandosi dai condizionamenti della sua visione (che è quella patriarcale).
Ci si chiede se sia giusto valutare il valore di un’opera a prescindere dalla moralità di chi l’ha concepita. Nell’Italia caciarona del volemose bene, questo iato è particolarmente evidente, e non si limita alla buona condotta morale: a partire della diffusione dell’arte su larga scala avvenuta grazie alla famosa riproducibilità tecnica, e che ha visto il suo boom nel dopoguerra anche grazie alla televisione come organo di informazione ed educazione della popolazione, gli artisti sono stati giudicati dal pubblico quasi esclusivamente per la loro simpatia. Ricordo ancora uno dei miei nonni che non ascoltava Celentano perché “gli stava antipatico”, mentre l’altro nonno lo adorava. Così se sei uno stronzo puoi anche essere un artista geniale, ma stronzo sei e stronzo rimani. Basti pensare a Paolo Villaggio o allo stesso Celentano, che non sono mai stati troppo simpatici al pubblico, o a Moretti, allo stesso modo protagonista di decine di romanzati quanto sgradevoli aneddoti sul suo conto, che di quella antipatia – limite brandito come punto di forza – ha fatto così come Allen, un vero e proprio topos narrativo, regalandola al suo alter ego cinematografico.
Sicuramente è più influenzata l’arte dalla vita rispetto al contrario. Ma l’arte, non dovrebbe mai essere messa sotto processo, per evitare di creare riflessioni grottesche come quelle mosse ad esempio contro Nabokov in seguito alla pubblicazione di Lolita o a Balthus. Nel caso in cui sia l’artista stesso a prendere spunto senza mezze misure dalla sua vita, è più difficile scindere questi due aspetti, ma non si possono processare opere e artisti per partito preso e personali risposte emotive, senza fare lo sforzo di assumere nei loro confronti uno sguardo il più possibile oggettivo e filologico.
Forse Woody Allen negli ultimi anni è diventato la brutta copia di se stesso, finendo col proporre in Basta che funzioni un personaggio femminile a dir poco molto bidimensionale, ma non per questo possiamo far scontare alle grandi opere del passato le critiche per i limiti di quelle del presente, così come non possiamo giudicare la sua arte in base agli scandali personali di cui è stato protagonista. Film come Annie Hall, Manhattan, Hanna e le sue sorelle, per citarne solo alcuni, non possono essere dimenticati, anche perché in tempi in cui non era affatto scontato Allen ha raccontato personaggi femminili tutt’altro che stereotipati e ancora profondamente attuali, e di questo dovremo dargliene sempre atto.