È il 10 gennaio 1990 quando nel prime time di Rai 1 va in onda la prima puntata de I promessi sposi, uno sceneggiato diretto e interpretato da Anna Marchesini, Massimo Lopez e Tullio Solenghi come parodia dei precedenti adattamenti televisivi dell’omonimo romanzo di Alessandro Manzoni. Nella quinta puntata, quando a Milano scoppia la peste e nel Lazzaretto si assiste a morti cruente, ecco che fa la sua comparsa Wanna Marchi: “Ma quanto sono brutti i vostri mariti quando tornano dal Lazzaretto, pieni di pustole e puzzate pure, signori uomini […] Io ho inventato un prodotto importantissimo, una cremina bellissima, meravigliosa, oleosa, profumata, anzi profumatina”, esordisce Marchi mentre cerca di vendere agli appestati una soluzione miracolosa, che oltre ai bubboni avrebbe guarito anche l’acne. È lei stessa a dire che, pur non sapendo leggere né scrivere, le uniche cose che sa fare sono “cucinare e vendere”. Non fosse per i riferimenti espliciti alla peste e i costumi di metà Seicento, la sua scena, più che a una parodia, potrebbe sembrare con molta facilità una delle tante televendite di cui fu protagonista – e mai solo comparsa – nei decenni. D’altronde Vanna Marchi – il nome originale all’anagrafe – non ha mai smesso per un attimo di essere Wanna, nemmeno nella nuova, omonima, docuserie Netflix, che ne ripercorre la storia in quattro puntate.
Nata in provincia di Bologna nel 1942 da una famiglia contadina e sposatasi molto giovane, all’età di 18 anni, finendo in quello che spesso definirà un matrimonio fedifrago e violento, Wanna Marchi costruisce di sé l’immagine di una donna che conta, una che ce l’ha fatta, ricordando spesso come, soprattutto all’inizio, la sua fosse una vita improntata al bisogno di soldi. Ottenuto il diploma da estetista, per un periodo lavorò come tanatoesteta, fino a quando una signora, soddisfatta del lavoro che fece sul volto della figlia prematuramente mancata a causa di un incidente, le mise in tasca una cifra esorbitante, con cui Marchi acquistò un auto e iniziò a girare per parrucchieri e saloni di bellezza, facendosi conoscere come estetista per vivi. Tutto per lei inizia però quando con il denaro guadagnato affitta un garage come negozio. “Nel paese più brutto dell’universo: Ozzano dell’Emilia. Vendevo già cosmetici. Per me vendere è la vita, amo farlo. E non per il denaro: è una sfida”.
Fu poi tra il 1977 e il 1978 che Marchi approdò in televisione, grazie al programma Gran Bazar, condotto sull’emittente locale Telecentro dall’attore Raffaele Pisu e dalla cantante e showgirl Marisa Del Frate, già colleghi nel programma cult degli anni Sessanta L’amico del giaguaro. Era l’origine delle televendite italiane: bisogni che fino ad allora non erano stati necessari lo divennero improvvisamente, così come quelli inutili o marginali assunsero un ruolo più centrale tra gli telespettatori. Come avevamo fatto a vivere senza quella tale crema? Quanto era indispensabile quel nuovo utensile per la cucina, che probabilmente poi non verrà mai utilizzato? Se gli anni Settanta erano stati un susseguirsi di rivendicazioni politiche e sindacali, lotte e attentati terroristici, con singoli episodi che proseguirono anche nel decennio successivo, gli anni Ottanta si aprivano in Italia con un clima più rilassato ed edonistico, che segnò quello che è forse uno dei decenni più complessi e contraddittori del Novecento, mai realmente concluso, con elementi che straripano nella nostra vita ancora oggi.
Fu in questo contesto storico e sociale che Wanna Marchi iniziò ad acquisire notorietà, dopo che in realtà le sue prime televendite furono un fallimento completo. Ogni personaggio che si alternava davanti alla telecamera per vendere i propri prodotti aveva un modo caratteristico di fare, di rivolgersi agli spettatori, di muoversi: erano loro il centro della scena, mai l’oggetto da acquistare, che anzi passava in secondo piano. Nascevano così figure ibride che mescolavano gli aspetti divistici dei venditori all’imbonimento degli operatori magici che, come scrive Renato Stella, docente di Sociologia delle comunicazioni di massa all’Università di Padova, “esaltano alcuni elementi caratteriali che differenziano e ne caratterizzano lo stile secondo convenzioni che, nel marketing, vengono solitamente attribuite alla marca […] tutti segnali inconfondibili di riconoscimento che possono evocare simpatia, curiosità, stupore ma che appaiono quanto mai omogenei alla richiesta di naturalezza di comportamento richiesta ad un comune ospite di talkshow”.
Marchi fu unica nel modo di presentarsi: la prima volta che inizia a guadagnare davvero, arriva in studio senza prodotti, mettendosi a parlare della propria vita. Urla, si sbraccia, dà forma alle sue frasi ricorrenti – come “D’accordo?” e “Guerra al lardo” – acquisendo quei tratti che porteranno i giornali a definirla “teleimbonitrice”. Uno dei prodotti che la rese celebre, tra i più venduti solo per essere stato promosso da lei, era infatti lo Scioglipancia, “praticamente regalato” per la modica cifra di 100mila lire per tre confezioni. Un unguento a base di alghe e tarassaco che faceva leva sulla neonata pressione sociale del dover apparire belle e magre a tutti i costi, che poi sarebbe sfociata nella grassofobia. “Signore grasse, io non ho niente contro di voi, io non vi voglio male, io vi voglio svegliare”. A quei tempi, Marchi vendeva prodotti pseudo-miracolosi per più di 300 milioni di lire al giorno – quasi mezzo milione di euro, convertendo al valore del 1984 – eppure è singolare notare come, dopo le prime accuse di bancarotta fraudolenta e buchi nei bilanci, a decretarne il definitivo fallimento e la condanna confermata dalla Cassazione a 9 anni e 4 mesi di carcere (per bancarotta fraudolenta, truffa aggravata e associazione a delinquere), fu lo spingersi oltre, iniziando a vendere la fortuna, cioè il nulla. Quest’ultimo trucco non le riuscì a dovere, e fu smascherata. L’affermazione che una crema a base di alghe potesse far perdere diversi chili tutto sommato era invece ritenuta veritiera. D’altronde, ancora oggi, nell’epoca della body positivity, essere considerati “brutti” resta un tabù, a cui troppo spesso viene associato quello della grassezza.
L’idea di iniziare a dare letteralmente i numeri venne a Wanna Marchi e alla figlia Stefania Nobile, che da tempo ne era diventata il braccio destro, subendone successi e fallimenti, dopo aver incontrato Mario Pacheco do Nascimento a casa di Attilio Capra De Carré – imprenditore che, prima di abbandonare la nave, investì molto nelle due donne, aprendo un nuovo canale di televendite di cui erano le protagoniste. In televisione fu presentato come un “Maestro di vita”, un santone che Stefania aveva conosciuto in Brasile e che dopo una cena le aveva infilato sotto la porta dell’hotel un biglietto con le previsioni di quanto le sarebbe accaduto nei due anni successivi. Inutile dire che, stando al racconto, aveva indovinato tutto. Oggetti per attrarre la buona sorte, riti per scacciare la sfortuna e numeri del lotto.A chiamare e a comprare furono in tantissimi.
Ben presto, la fortuna non fu più il prodotto definitivo da vendere, ma solo l’amo per agganciare nuovi clienti. Alle chiamate di reclamo per i numeri del lotto non usciti, la gente si sentiva rispondere che la colpa era sua, che probabilmente aveva il malocchio, e allora gli venivano proposti rituali per poterlo togliere e così tentare nuovamente la vittoria: amuleti, cristalli e poi il “sale di Wanna Marchi”, da sciogliere in acqua, che guarda caso, però, non si scioglieva mai tutto e allora bisognava pagare altri soldi, acquistare altri talismani. “Lei vuole che sua figlia muoia? Per 20 milioni è disposta a lasciar morire sua figlia? C’è un terribile male in arrivo e lei non vuole fermarlo”. Sono centotrentadue le persone che sporserso denuncia formale, due milioni di euro la somma da risarcire, sessantadue i soggetti che si costituirono parte civile del processo. E dalla docuserie emerge chiaramente come le due donne, madre e figlia, non si siano mai pentite. In un’intervista alla Stampa dicevano: “Non abbiamo mai detto di essere innocenti. La mela l’avevamo rubata ma siamo state processate anche per aver ammazzato il contadino. Secondo la mia valutazione, rischiavamo due anni di reclusione”. E poi: “La galera ci ha insegnato tanto, rifaremmo tutto nel bene e nel male”.
Basta sentire Wanna Marchi parlare delle persone che avevano truffato. Se ogni televendita sa cogliere bisogni e linguaggi di un determinato target, chi era il loro pubblico? Persone “sfigate” ma anche “inette”, “stupide”, “sprovvedute” le descrive lei, per non assumersi la responsabilità di essersi approfittata di momenti di debolezza, economica, psicologica o familiare, di chi chiamava, soprattutto anziani o genitori in difficoltà. “Perché i coglioni meritano di essere inculati”, dirà in modo molto conciso ed esemplificativo. Erano arrivati gli anni Novanta, con la guerra, da lontano – dal massacro di Srebrenica al genocidio in Ruanda –, e da vicino con la svalutazione della Lira e la progressiva perdita di potere d’acquisto da parte degli italiani successive a Mani Pulite, ma anche gli strascichi della diffusione delle droghe pesanti, come l’eroina. Quel decennio sembrava una grande promessa, poi risultata tradita.
A guardarla oggi, dalla docuserie, l’Italia di quei giorni ci sembra al contempo prossima e distante. La vicenda di Wanna Marchi e Stefania Nobile, capitalizzatrici del potere persuasivo concesso dalla televisione, sembrava ormai far parte di un passato dimenticato, assorbito dagli eventi degli ultimi dieci, dodici anni, eppure la aggressività del linguaggio che portarono in tv si è amplificata nel tempo, così come il loro imbonimento sembrava prevedere molte delle dinamiche a cui oggi assistiamo sui social network, dove forse stiamo un po’ più attenti a non seguire chi ci dà dei “lardosi”, ma non è sempre detto. I modi saranno pure cambiati, ma la nostra capacità di illuderci, con una distanza tra la realtà e ciò che aspiriamo a essere sempre più ampia, sembra non essere stata scalfita. Così, il racconto di cosa siamo stati diventa inevitabilmente lo specchio di chi siamo ancora: “D’accordo?”.