Di Vittorio Gassman ci sono rimasti impressi in primo luogo un corpo, un volto e una voce: un corpo imponente, monumentale; un volto che è stato una maschera e ha saputo dare espressione agli italiani e ai loro mutamenti; una voce che sapeva quando essere solenne e quando leggera. Il suo lungo percorso artistico è stato caratterizzato dalla capacità di muoversi con disinvoltura tra la commedia e il dramma, in un modo che non rappresentava mai un alternarsi di gioia e dolore, ma era allegria e amarezza allo stesso tempo. Gassman sapeva compierne una sintesi in un solo gesto, che conteneva lo sberleffo e l’intima consapevolezza della miseria dei personaggi che interpretava.
Vittorio Gassman nacque nel 1922 vicino a Genova, ma presto si trasferì in Calabria e poi a Roma, dove frequentò l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. A quattordici anni perse il padre, un padre idealizzato che Vittorio cercò nel teatro, trovando nel rapporto drammaturgico padre-figlio la relazione umana più interessante da indagare. Durante un’intervista radiofonica, quando gli venne chiesto come avesse capito che avrebbe fatto l’attore, rispose: “A quattordici anni persi mio padre. Il giorno della sua morte mi chiusi in bagno. E lì, davanti allo specchio mi guardavo piangere. Osservavo curioso l’espressione del mio dolore”. La sua carriera iniziò negli anni della seconda guerra mondiale per poi protrarsi fino agli anni Novanta, dapprima dedicandosi solo al teatro ma presto anche al cinema: si trattava di film da lui definiti “orribili” dai quali usciva insoddisfatto e imbarazzato, come se si trattasse di una forma di corruzione. Il primo vero successo cinematografico fu Riso amaro, una pellicola neorealista diretta da Giuseppe de Santis in cui Gassman interpretava un ladruncolo ricercato dalla polizia.
A cambiare il corso della sua vita, così come quello della storia del cinema, fu Mario Monicelli, che incontrandolo in Via Veneto, dove si aggirava con l’amico scrittore Ennio Flaiano, lo ingaggiò per il suo primo ruolo comico: Peppe er Pantera, pugile balbuziente che appare ne I soliti ignoti. Gassman venne così iniziato alla commedia all’italiana, genere di cui diventò protagonista indiscusso al fianco di Ugo Tognazzi, Alberto Sordi, Nino Manfredi e Marcello Mastroianni. Era il 1958, il Paese stava cambiando: Gassman diede un volto all’Italia spensierata, facendosi testimone e interprete di un modo particolare di essere uomo e di essere italiano. I suoi personaggi divennero modelli: eroi o antieroi, in ogni caso esempi con cui ogni italiano ebbe qualcosa da spartire, qualcosa da invidiare o disprezzare. E adesione e repulsione coesistevano confusamente nello spettatore che finiva per amare lui, Vittorio, l’uomo dietro alla maschera, che si era fatto presenza domestica con Il mattatore, il programma televisivo in onda sul primo canale nazionale nel 1959 articolato in dieci puntate tematiche.
Gassman entrò nell’intimità delle case con uno spettacolo misto dove diede prova di un talento eclettico e un piglio ironico in grado di conquistare tanto il pubblico quanto gli addetti ai lavori. Presto fu notato anche oltreoceano, richiesto e amato da Hollywood. Sul New York Times avrebbero scritto: “Recita con sensibilità e tensione interiore; la sua faccia, nonostante i lineamenti classici, è infinitamente mobile ed espressiva”. Di quella faccia si innamorò anche Dino Risi, regista della commedia all’italiana per eccellenza, che diresse Gassman per ben quindici film, istituendo uno degli sposalizi artistici più preziosi della storia del cinema. Indimenticabile Il sorpasso, road movie manifesto dell’Italia del boom economico, dove a Gassman venne affidato un ruolo scritto pensando ad Alberto Sordi. Bruno Cortona, quarantenne sfacciato e truffaldino mai veramente diventato adulto, invade il Ferragosto del mite e timido Roberto, studente di giurisprudenza interpretato da Jean-Louis Trintignant. Nelle risate avide di Cortona, nel suo dimenarsi per le spiagge su cui l’Italia ballava spensierata il suo recente arricchimento, si scorge sempre anche ciò che la risata nasconde e cioè la malinconia di chi sospetta che nel vivere sia sempre contenuto anche il male di vivere, la colpa di farlo codardamente, in maniera approssimativa e irresponsabile. Questa mancanza di serietà morale, così stereotipata sul cliché italiano, raggiungerà il grottesco ne I mostri e I nuovi mostri, film a puntate dove Gassman, spesso insieme a Ugo Tognazzi, suo collega e amico, interpreta uomini repellenti ma reali, mostri quotidiani, in mezzo a noi, che talvolta rappresentano proprio noi stessi.
Si raccontò la corruzione culturale e sociale come truffa e come inganno, in chiave comica, sottintendendo sempre un fondo drammatico, anche nel film del 1971 In nome del popolo italiano. La pellicola di Risi, con soggetto e sceneggiatura di Age e Scarpelli, anticipò con una lucidità sorprendente il tema della questione morale, ovvero il giro losco di clientelismi, affari illeciti e oscure mediazioni che univa industriali, imprenditori e uomini di partito. Nel film, Ugo Tognazzi interpreta un magistrato inquirente severo e ostinato che sospetta che il disonesto imprenditore Lorenzo Santenocito, interpretato brillantemente da Gassman, sia colpevole dell’omicidio di una giovane prostituta. Lo svolgersi della trama rivela, più che la colpa dell’imprenditore, la frustrazione del magistrato che vede sgretolarsi un sistema di valori dove inizia a mancare non solo il decoro e il rispetto delle regole, ma prima di tutto l’onestà di uomini che dimenticano di essere cittadini e membri di una comunità per soddisfare interessi e capricci personali.
Lo stesso senso di sconfitta generazionale emerge anche nel film del 1974 C’eravamo tanto amati, diretto da Ettore Scola, nel quale tre amici un tempo partigiani uniti dalla fede negli ideali della liberazione, assistono e partecipano alla progressiva decadenza morale di un Paese che si è piegato al conformismo e all’individualismo. “Il futuro è passato e non ce ne siamo nemmeno accorti”, dirà Gianni, il personaggio interpretato da Gassman, agli amici riuniti al tavolo della trattoria che frequentano fin da quando erano giovani. E nell’incapacità di ammettere le colpe della propria generazione, emerge ancor più nitida la malinconia che spesso i registi e gli sceneggiatori affidarono al talento di Gassman, unico nel sapersi rabbuiare dopo aver riso, come fosse quello il naturale destino di ogni risata leggera.
La sua carriera proseguì fitta e spedita. Nello stesso anno l’attore romano interpretò anche il ruolo di un irriverente e divertentissimo capitano in pensione rimasto cieco e monco alla mano sinistra per via d’una granata in Profumo di donna, sempre diretto da Risi, il lungometraggio ispirato al romanzo Il buio e il miele di Giovanni Arpino – di cui verrà realizzato un remake nel 1992 con Al Pacino nelle vesti di protagonista. Negli anni Novanta poi ebbe un cameo in The Sleepers di Barry Levinson e tornò a impegnarsi nel teatro, oltre che in televisione. Ma in lui andò insidiandosi sempre di più una tristezza radicale che gli tolse la parola. “La depressione andava e veniva. Da un giorno all’altro la si vedeva nei suoi occhi. Il bagliore che accendeva il suo sguardo si velava, rendendolo spaurito, infantile. Smetteva di parlare. Di ascoltare,” racconta Francesca D’Aloja, attrice e scrittrice che lo conobbe da vicino.
Fu sempre chiaro a tutti che i personaggi spensierati, gloriosi e sfacciati che Gassman spesso interpretò erano anche pensosi, sconfitti e insicuri. E Gassman seppe dare loro dignità e credibilità forse perché di quel dolore era partecipe, non esclusivamente interprete. Quella fragilità e quel dualismo attraversavano anche la sua stessa persona. La sua personale debolezza e fragilità rimasero per lungo tempo fuori dagli schermi e dai palcoscenici, e lui seppe essere sempre impeccabile, professionale, perfezionista, nascondendo un dolore che negli ultimi anni prese il sopravvento. “Il profondo affetto che ho provato, e provo, per Vittorio Gassman è nato da quella crepa, quello spiraglio di fragilità tenuto nascosto con pervicacia, e sono certa che se fosse sceso a patti con quella parte che a torto considera debole, si sarebbe risparmiato tanta sofferenza,” continua D’Aloja.
Siamo partiti da un corpo, da un volto e da una voce, ma di Gassman rimane anche l’immagine totale, quella che si ha guardando da lontano, oggi, la sua lunga carriera e il percorso che tracciò per gli attori che sarebbero venuti. Il lascito più grande sta nella sua capacità di rappresentare gli italiani abbracciando lo spettro infinito di forme che questi nel corso del secondo Novecento di volta in volta hanno assunto. Gassman fu il ritratto mobile dei cittadini di un Paese non solo perché li decifrò con lungimiranza, ma perché permise che loro decifrassero lui, che lo scomponessero, che trovassero in lui qualcosa di loro stessi, un loro vergognoso e segreto difetto, una loro virtù mai del tutto riconosciuta da una società che spesso era ingiusta e premiava l’inganno punendo l’onestà. Ora, che siamo cambiati molto meno di quello che avremmo dovuto e forse voluto, di Vittorio Gassman rimane prima di tutto la nostalgia.