In “Vermiglio” c’è la dualità della vita e di ciò che siamo, ieri come oggi - THE VISION
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Probabilmente il segreto della bellezza di Vermiglio di Maura Delpero – vincitore del Gran premio della giuria a Venezia, rappresentante dell’Italia ai prossimi Oscar, distribuito al cinema da Lucky Red – sta nella sua normalità. Mi spiego: al di là della storia, è proprio la sensazione che ti lascia dopo la visione, questo misto di consapevolezza e meraviglia, di stupore e rassegnazione, che ti costringe a pensarci ancora. E così, anche se sei a casa, anche se sono passati giorni dalla volta in cui l’hai visto, può capitarti di ritornare con la mente a questo o a quel dettaglio, agli abbracci che i personaggi si scambiano e a quelli che, così frettolosamente, si negano; alle nottate passate nel lettone tra le coperte (ho pensato all’Orgoglio e pregiudizio di Joe Wright), alla musica ascoltata a tutto volume, alle scarpe tirate a lucido come se ogni giorno fosse domenica, alle chiacchiere in cucina e a quelle scambiate di sfuggita, quasi di corsa, prima di scuola.

Non è un dramma, Vermiglio. Nel senso che non è unicamente sulla drammaticità del racconto che punta. Cerca, invece, di tenere insieme tutto: gli aspetti più assurdi e divertenti e quelli più tragici e sconvolgenti. La storia è ambientata tra la fine della seconda guerra mondiale e l’immediato dopoguerra; si svolge in questo piccolissimo paese, Vermiglio appunto, che non assume mai una concretezza precisa: si vede qualche casa, una strada, la locanda piena e festante, ma resistono sempre una dispersione e una fumosità nella divisione effettiva degli spazi. I protagonisti appartengono tutti – quasi tutti, in realtà – alla stessa famiglia. 

C’è il padre, che è anche il maestro del paese e che è interpretato da Tommaso Ragno, che rappresenta una via di mezzo tra tante cose: tra il passato più tradizionalista e il futuro prossimo, per esempio; ma pure tra una certa idea di progresso e un instancabile provincialismo. Mentre tutti fanno colazione, lui, a capotavola, legge. Gli occhiali sul naso, i capelli in ordine e un’espressione presa, concentrata. Ragno è bravissimo. Poi c’è la madre, interpretata da Roberta Rovelli, che sembra rimanere in secondo piano per buona parte della storia e che poi, proprio quando serve, viene avanti, parla e cerca in qualche modo di farsi sentire – la sua casa è piena di libri e di buone intenzioni, eppure gli errori che si commettono non hanno niente di incredibile. Rovelli fa da ago della bilancia e lavora per sottrazione.

I figli, tra maschi e femmine, stanno sempre insieme, si guardano gli uni con gli altri, quelli più piccoli e quelli più grandi, e si vogliono un bene che sa più di amicizia che di affetto dovuto. Il sangue conta, per carità, ma conta soprattutto quel segreto che ci siamo scambiati di notte mentre tutti dormivano, tu eri alla finestra e io ti parlavo dal letto. Il volto di Vermiglio è indubbiamente quello di Martina Scrinzi, che interpreta Lucia, la figlia maggiore, e che a un certo punto – vuoi per il peso della parte di trama che la riguarda, vuoi pure per il modo in cui il suo sguardo sembra riassumere sequenze intere del film – diventa quasi la protagonista. Ma Vermiglio è fondamentalmente un film corale, e così contano anche quegli attori e quelle attrici che hanno un ruolo – per così dire – minore.

I personaggi interpretati da Carlotta Gamba e da Sara Serraiocco, per esempio, compaiono poco, ma riescono comunque a ritagliarsi il loro spazio e a essere determinanti – Serraiocco con una frase e un’occhiata: assoluta; Gamba con il suo sorriso e la sua vivacità: una specie di folletto risputato dalle favole, costantemente in bilico, con la testa che va già al tempo che passerà in città. L’elemento di rottura all’interno del racconto è rappresentato dal Pietro di Giuseppe De Domenico: scappato dalla guerra, arriva a Vermiglio e viene accolto come un salvatore, perché ha portato con sé un altro ragazzo. La sua presenza – così strana e così inattesa – spezza gli equilibri della vita quotidiana, e costringe i vari personaggi a riscriverli facendo i conti con loro stessi.

È importante, però, capire una cosa. Tutti questi passaggi o stravolgimenti succedono naturalmente; Delpero ci arriva piano piano, senza alcuna fretta. E la lentezza di cui alcuni hanno parlato non è altro che il passo di cui questa storia ha bisogno. La critica cinematografica, proprio come i gusti del pubblico, vive di periodi. E per un periodo “lentezza” è stato uno dei termini più abusati: se una cosa è lenta, è ricercata; se è lenta, non parla al grande pubblico; se è lenta, fatica. E invece non è così. Non sempre, almeno. Vermiglio, in questo senso, invita anche a una riflessione profonda di ciò che accade e, soprattutto, del tempo che serve perché accada.

La comicità involontaria della vita, con una delle figlie (la Ada di Rachele Potrich) che si infligge punizioni sempre più assurde per espiare i peccati che pensa di aver commesso (e che, invece, il prete di paese sembra quasi risparmiarle), si inserisce con una puntualità incredibile nel racconto: non è mai forzata o eccessiva. Delpero ha insomma capito come fare per trovare un andamento lineare ma non piatto, intelligente ma non forzatamente alto. La morte è una costante: torna in continuazione, sotto forme diverse, e riesce appena a intaccare la pienezza della vita – e non perché i personaggi non le diano il giusto valore, ma perché devono impegnarsi immediatamente su altro, sulla vacca che va munta, sul pollaio che va tenuto in ordine, sulle faccende quotidiane, sul prossimo figlio che nascerà. E poi Delpero sa inquadrare la complessità, intesa come insieme di punti di vista e di sfaccettature, della giovinezza: la scoperta del corpo, la passione, l’eccitazione; l’amore, le occhiate cariche di desiderio (“Mi piace come mi guardi”, dice la Virginia di Gamba ad Ada); il sesso che sancisce l’unione e la condivisione di intenti, e la curiosità spasmodica per il segreto e per ciò che non ci viene detto; la saggezza dei più piccoli, che parlano come vecchi maestri, e il senso di ribellione continua dei più grandi, che sembrano perdersi nel nulla.

Raccontando uno spicchio – letteralmente – di Italia, Delpero ha la possibilità di sfruttare la lingua, più che il linguaggio, e di intrecciare una musica precisa fatta di consonanti e vocali mangiate, di gesti, mugugni e di una cadenza che solo apparentemente suona perentoria e che in realtà conserva in sé le dinamiche proprie del gioco: ogni frase ha bisogno di essere accompagna da un’espressione, più o meno carica, più o meno aperta, per essere completata. Un po’ come se fosse la punteggiatura. La concezione stessa di maternità cambia nel corso del film, e l’impostazione quasi ciclica del tempo, con le stagioni che passano, che si mostrano con la loro forza e bellezza, tra il bianco della neve d’inverno e le sfumature più colorate della primavera, rende tutto più chiaro e accettabile – ma non banale e nemmeno prevedibile.

Religione, misticismo e ragione convivono in un unico abbraccio e si influenzano a vicenda, mostrando la propria limitatezza. Vermiglio cresce, sedimenta, sale. E c’è indubbiamente un punto narrativo più alto rispetto agli altri, ma è un momento che ha la stessa tensione sospesa di un sospiro – dura l’attimo che dura e subito dopo, semplicemente, non c’è più. Un aiuto fondamentale alla costruzione del racconto, con la sua coerenza visiva e il suo spessore, lo dà la fotografia di Mikhail Krichman: ci sono degli azzurri più azzurri di altri, e poi dei neri che non diventano mai totalmente neri e che sembrano sempre fermarsi un secondo prima, come se qualcuno li strattonasse. Le immagini sono piene. E non perché contengono una moltitudine di corpi o di oggetti. Ma perché sono in grado di offrire allo spettatore una totalità di luci e di ombre, con dei confini che non tagliano le inquadrature ma che, anzi, sanno come sostenerle e ammorbidirle.

Lo sguardo di Delpero, e quindi la sua regia, la sua scrittura e il suo modo di dirigere gli attori, è totale. E questa totalità si riflette nell’insieme di dettagli, spunti, scorci e incisi che non sono mai fini a sé stessi, perché hanno uno scopo e un ruolo precisi. È praticamente impossibile non pensare a questo oceano di cose dopo aver visto Vermiglio. E per carità: ogni ragionamento è diverso, e ogni sensibilità coglierà unicamente ciò che è pronta a cogliere. Ma è innegabile la ricchezza del film di Delpero. È come un affresco enorme, che ha una sua organicità e che allo stesso tempo si trasforma a seconda del punto da cui lo si osserva. Vermiglio può essere una storia di provincia e di guerra (essere un soldato, dice il Pietro di De Domenico, “È come se sei vivo, ma non proprio”). Ma anche di crescita e di famiglia, e di desiderio e di infanzia.

C’è la dualità della vita e di ciò che siamo – ieri come oggi, in questo esatto momento. Circondandosi di esordienti e di non attori, Delpero ha saputo dare una verità ulteriore al suo film: gli ha dato quella concretezza tipica delle parole pronunciate da chi le pensa davvero e non si limita a recitarle, e una forma più credibile, con queste facce segnate, vissute, piene di rughe, di tagli e di colori, e questi sguardi che sono gentili anche se appaiono torvi e cattivi. Probabilmente la grandezza di Vermiglio sta tutta qui: nel suo essere più cose nello stesso istante, e nel non andarsene mai dai pensieri. È un film che fa compagnia, che si affianca allo spettatore e che pone delle domande. Nella sua conclusione c’è solo una delle tantissime possibilità tra cui i personaggi possono scegliere: quello che conta e che non dice, e che proprio per questo sottolinea, è ciò che rimane, è tutto il resto. E in Vermiglio il resto è fondamentale.

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