I 6 migliori film del 2018
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La mutata modalità di fruizione dei contenuti video ha reso particolarmente difficile trovare dei film davvero interessanti da guardare al cinema o in streaming: la verità è che c’è tanta merda in giro. È come se l’industry, nel disperato tentativo di stare appresso all’esplosione seriale e ai nuovi modelli distributivi, stesse producendo una miriade di pellicole senza criterio e, soprattutto, senza passione. Di come le major americane abbiano completamente esaurito le idee abbiamo già parlato, ma il fatto è che non sono solo queste a produrre film dal dubbio gusto. Nella vertiginosa caduta di stile si inserisce a pieno diritto anche l’osannato Netflix che, solo nell’ultimo anno, ha prodotto e distribuito film veramente brutti. Dall’ultimo Extinction (veramente dobbiamo ancora riflettere sugli androidi e sui sentimenti dei robot?), passando per il costosissimo Bright (Will Smith fa il poliziotto insieme a un orco e uccide con le ciabatte delle fatine) per arrivare a The Cloverfield Paradox (epitaffio sgrammaticato sulla discutibile trilogia Cloverfield del genio J.J. Abrams), sembra che Netflix stia lottando con tutte le forze per aggiudicarsi il titolo di peggior produttrice Sci-fi al mondo. La verità è che quello che una volta era il mercato dei film che uscivano direttamente in VHS – film minori, sia per pretese che per budget – ora è il “suggeriti per te” di Netflix.

Extinction
The Cloverfield Paradox
Bright

Abbiamo ormai raffinato i gusti, abituati come siamo a centinaia di ore di costoso prodotto visivo seriale, e quando ci decidiamo a guardare un film ci aspettiamo qualcosa di più. Non tanto a livello qualitativo, quanto piuttosto a livello ideativo, di scrittura e di originalità del contenuto. Non vogliamo vedere una puntata di una serie allungata, non vogliamo vedere una clip fighetta di Vimeo per due ore, vogliamo vedere un’opera complessa, strutturata, emozionante. I bei film resistono, è solo diventato un po’ più difficile trovarli. Questi sono i migliori 5 del 2018 fino a Luglio – alcuni sono stati prodotti nel 2017, ma in Italia sono arrivati con un po’ di ritardo.

You Were Never Really Here, di Lynne Ramsay

Joe è un uomo solitario che, nella penombra delle strade, di notte, compie la sua missione di vigilante: salvare vite a giovani ragazze rapite da misteriosi associazioni per poi rivenderle come prostitute. Insomma, niente di nuovo. Diciamo che il vendicatore solitario, da Taxi Driver in poi (film che, guarda caso, verrà citato anche in seguito) ha una sua filmografia ben specifica con pellicole di altissimo livello . Eppure, qui ci sono quattro elementi che rendono questo film qualcosa di veramente speciale. Il primo è Joaquin Phoenix: siamo ormai abituati a darlo per scontato, a pensare che sia il più grande talento della sua generazione, ma ogni volta che gli viene concesso spazio, che gli si affida lo studio di un personaggio complesso, questo attore ci regala un nuovo stupore. Le sue spalle disordinate, i sospiri della sua perenne sconfitta, i denti costantemente digrignati forniscono a questo vigilante un vissuto concreto, reale. Ogni volta che deve compiere una violenza ne avvertiamo la sofferenza, il dolore, come se fosse sulla nostra pelle.

Questo anche grazie al secondo e terzo elemento, ovvero la regia di Lynne Ramsay e la fotografia di Thomas Townend. Ramsay è una regista scozzese con una cifra stilistica ben precisa, caratterizzata dalla ricerca di un perenne senso di disorientamento, da un montaggio ellittico che accosta immagini per significato, più che per esigenze narrative. È una regia violenta, cattiva, senza mezze misure. Il suo ultimo film (We need to talk about Kevin, del 2011) aveva lasciato tutti senza parole, non solo per il costante disturbo causato dalla storia, ma per il modo in cui una trama così disturbante era stata raccontata. Alla camera di quel film c’era Townend che, sempre nel 2011, ha firmato la fotografia di Attack the Block, stupenda variazione del tema invasione aliena che ha lanciato l’attore John Boyega – ora protagonista di Star Wars – nell’olimpo delle star hollywoodiane. Townend adora la notte, il buio che nasconde e che contrasta con le luci acide delle strade bagnate. Non è un caso che questa regista e questo DOP si siano trovati e innamorati: tutti e due senza mezze misure e tutti e due con una visione ben precisa del racconto cinematografico. Ultimo, ma non per importanza, elemento che porta a You Were Never Really Here un meritatissimo quinto posto è la musica di Johnny Greenwood. Di solito sentiamo le colonne sonore del chitarrista dei Radiohead nei film di Paul Thomas Anderson, ma qui Greenwood si esprime al suo meglio, creando continue dissonanze e contrappunti, accrescendo il disagio della regia, e sottolineando ogni singola struggente espressione di Phoenix.

You Were Never Really Here

A Quiet Place, di John Krasinski / The Ritual, di David Bruckner

Un quarto posto per due film dell’orrore. Non sono mai stato un amante del genere: i film mi fanno veramente paura e poi non riesco a dormire di notte, faccio gli incubi: non riesco a capire perché dovrei infliggermi una tortura di questo tipo. Ma è da un paio di anni almeno che tutte le sperimentazioni più interessanti del cinema americano partono da film horror. Molti dei registi emergenti di Hollywood hanno iniziato con piccoli film dell’orrore (Robert Eggers di TheVVitch, vincitore miglior regia al Sundance del 2015, il più recente, oppure James Wan lanciato da The Conjuring) e sono stati poi incaricati di dirigere Blockbuster miliardari. Le briglie del genere, si sa, aiutano a costruire storie che si possono permettere più libertà sul fronte creativo e visivo. Un ex aequo perché, devo dire la verità, non saprei quale scegliere tra questi due film. The Ritual racconta, per l’ennesima volta, la storia di quattro amici che si addentrano in un bosco. Ormai lo sappiamo tutti, da The Blair Witch Project in poi: non si va nei boschi la notte, ci sono i mostri. Ma i quattro amici hanno un buon motivo per intraprendere questo viaggio: un anno prima il quinto elemento del loro gruppo è stato ucciso e questo viaggio in Norvegia era proprio il sogno dell’amico morto. È qui che entra in gioco l’aspetto più interessante del film: per gran parte della pellicola non sembra di vedere un film horror, ma una riflessione sulla perdita e sul senso di colpa. Ci troviamo come in un dramma da camera in cui i personaggi vengono posti di fronte ai propri limiti umani, un dramma in cui la risoluzione non può che essere il perdono. Finché arriva un temibile mostro cornuto.

The Ritual

A Quiet Place, invece, è uno dei film più furbi visti in circolazione ultimamente. Molto meno intimista del precedente, qui i mostri hanno un super udito e quindi gli umani sono costretti a vivere nel più completo silenzio. Se fai un rumore sei morto. La famiglia di John Krasinki, qui al suo esordio alla regia, cerca di sopravvivere nonostante la figlia sorda e la moglie gravida. A Quiet Place è il classico film divertente da vedere, perché ti fa spaventare, ma mai in modo scontato.

A Quiet Place

Paddington 2, di Paul King

In un periodo storico di sovranismo, di odio urlato, di fobia nei confronti del diverso e dell’immigrato, non può essere un caso che un film per bambini come Paddington abbia riscosso un tale successo. Ispirato ai libri di Michael Bond, Paddington è un orsacchiotto peruviano capitato a Londra e adottato da una tipica famiglia inglese. Il semplice e diretto messaggio di Paddington è: sii gentile, educato, buono e tutto andrà per il meglio. Un buonismo forse un po’ demodé eppure, incarnato in quell’orsetto, credibile e desiderabile. Il primo film, nel 2014, stupì tutti non solo per la pregevole fattura, ma anche per l’attualità del messaggio e per l’onesto divertimento che metteva in scena.

Grazie ad effetti speciali pazzeschi, l’orso Paddington era perfettamente inserito in una Londra colorata e stramba. Gli si vuole bene dal primo minuto e ci si riscopre dolci e sensibili. Quattro anni dopo, il seguito conferma e migliora tutto quello che di buono c’era nel primo capitolo. La trama è quella della migliore comedy, con attacchi di slapstick e qualche riferimento, malcelato, all’estetica di Wes Anderson. Paddington vuole regalare a sua zia orso un libro pop up su Londra – la scena in cui il libro cartaceo prende vita permettendo a Paddington di raccontare il perché dell’amore di sua zia per la città è un capolavoro di effetti speciali e scrittura – ma si dà il caso che nasconda una mappa a un tesoro. Così come nel primo episodio la tassidermista Nicole Kidman era stata un’eccellente cattiva, in questo secondo capitolo Hugh Grant si diverte interpretando l’attore trasformista e in declino Phoenix Buchanan. Tutto funziona come un orologio svizzero, forse un po’ prevedibile, ma non meno piacevole.

Paddington 2

Ready Player One, di Steven Spielberg

Ogni tanto sento gente che critica Spielberg. Bene, mettiamo le cose in chiaro: se non ti piacciono i film di Spielberg tanto vale che ti metti ad ascoltare drammi radiofonici, perché di cinema non capisci un cazzo. Certo, come tutti gli artisti, anche lui non ha azzeccato tutte le sue opere. Ci sono film minori nella sua filmografia, ma questo solo perché tutti gli altri film sono eccelsi, superbi, incredibili. E Ready Player One si inserisce a pieno diritto nell’elenco di questi ultimi. Non so da quanto tempo non mi divertivo così tanto al cinema. E con me tutta la sala urlava, si dimenava, tifava. Il film, tratto dal libro cult di Ernest Cline, è una rivisitazione in chiave moderna e citazionista della ricerca del Sacro Graal. Un ragazzo, dal cuore puro, combatte contro le proprie paure e contro nemici agguerriti per ottenere il premio finale. È la trama di praticamente tutti i film di avventura e di un gran numero di videogiochi. Ma la semplicità narrativa non rende neanche per un istante meno divertente la visione del film. Quello che Spielberg compie, in Ready Player One, è una citazione di tutti i film di azione, gli anime e i fumetti che hanno contribuito a costruire il nostro immaginario di trenta, quaranta, cinquantenni. Ma chi ha visto solo questo nel film, ha visto poco. Spielberg dirige un film che è la summa postmoderna di tutta la cultura pop degli ultimi trent’anni e lo fa buttando anche se stesso e tutti i suoi più cari amici e maestri nel pentolone (ci sono Lucas, Zemeckis, Roger Corman, Joe Dante). Il risultato è una risposta creativa e strabiliante alla piaga dei sequel e dei remake. È un po’ come se Spielberg, in una puerile gara a chi ce l’ha più grosso, avesse voluto dire: “Bene signori di Hollywood, state rifacendo tutti i film action e fantasy degli anni ottanta? Ok. Ecco come la vedo”.

Ready Player One

First Reformed, di Paul Schrader

Sono sempre stato tra i sostenitori di Paul Schrader. C’è da dire che lo sceneggiatore di Taxi Driver ce l’ha messa veramente tutta per farci vacillare, dirigendo, negli ultimi anni, un film più brutto dell’altro (ce lo ricordiamo tutti The Canyons?). Quella di Schrader è una poetica complessa, figlia della fede cattolica che, fin dagli esordi, afferma di professare. La morale del senso di colpa, il rimpianto, la vendetta sono temi presenti in tutta la filmografia del regista quasi ottantenne. Ma, con First Reformed, tutte queste tematiche assumono un nuovo vigore. Il reverendo Toller è il curato di una chiesa turistica facente parte di una fede protestante americana. Non ha molti compiti, se non quello di stare vicino ai suoi credenti nel momento del bisogno. E proprio una di queste credenti chiede l’aiuto di Toller per il marito, depresso, guerriero ambientalista. La tematica ambientale, chiaramente contemporanea, è però semplicemente un pretesto per Schrader per tornare ai suoi temi, quelli che da Trevis Bickle in poi ha costantemente raccontato.

First Reformed

Il Toller di Ethan Hawke è un uomo divorato dal dubbio, un uomo che non riesce più a comprendere il giusto dallo sbagliato e che, in questa zona d’ombra, trova una missione folle da compiere. Sia la regia che la scrittura sono rigorose (lo splendido carrello iniziale sulla chiesa ha l’incedere funereo di un film di Bresson), asettiche, non c’è un fotogramma o una parola di troppo e si assiste alla vicenda di Toller come se guardassimo un documentario. Quello che distingue First Reformed da altri film scritti o diretti da Schrader è la speranza. Per una volta il regista cattolico sembra dirci che una soluzione c’è, un modo per vincere i propri tremendi demoni esiste e va ricercato nell’amore.

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