Posto che ad attrarci è la bellezza, o comunque l’idea soggettiva che abbiamo di essa, sta di fatto che di solito tendiamo a prediligere ciò che ci piace; o ad allinearci a ciò che altri ritengono soddisfare i criteri del bello, anche se fosse più per convenzione che per convinzione. Dopotutto, e a costo di dire un’ovvietà, qualcosa è bello perché qualcos’altro è brutto – e viceversa. E se è vero che gli opposti si attraggono, va da sé che anche il brutto fa la sua parte. Non solo. Anche se magari si è meno propensi ad ammetterlo, in fondo dal brutto siamo sottilmente attratti, specie se l’effetto che ne deriva è una sana e catartica risata.
Questo breve preambolo, che aprirebbe a un discorso ben più ampio e complesso, in realtà ci serve da gancio per parlare di film da una prospettiva diversa: una sorta di elogio della bruttezza e del suo potenziale terapeutico, diciamo. Capita infatti che anche un brutto film possa produrre un soddisfacimento inaspettato, arrivando a rimettere in discussione i canonici parametri del gusto e facendoci stare bene con noi stessi e con gli altri.
È successo per esempio con un film talmente brutto da essere diventato nell’arco di una quindicina d’anni un vero e proprio fenomeno di cultura popolare. Mi riferisco a The Room, di e con Tommy Wiseau, pellicola del 2003 riconosciuta da molti – a dispetto delle intenzioni originali del regista – come uno dei film peggiori di sempre, eppure oggetto di un culto inarrestabile. Un fenomeno inaspettato e alimentato ancora di più dal successo e dall’ottima reputazione che sta ottenendo un altro film, al contrario diretto e interpretato da un personaggio apprezzato e poliedrico come James Franco. Si intitola The Disaster Artist e di The Room racconta genesi, lavorazione e retroscena.
La storia del cinema – si sa – pullula di film brutti e di registi scadenti. La maggior parte dei film brutti è tale perché non rispetta i criteri del bello, soggettivi o oggettivi che siano. Poi, però, ci sono film brutti che non solo non rispettano, ma addirittura sovvertono in modo radicale l’idea del bello, generando un cortocircuito capace di suscitare reazioni imprevedibili e incontrollate attraverso un cocktail involontario di coefficienti antitetici, come la pessima recitazione degli attori, scene paradossali e grottesche trattate seriamente e con convinzione e orrendi effetti speciali fai da te. Gli Americani questa sensazione l’hanno chiamata so bad, it’s so good!
Uno degli antesignani inconsapevoli di filone, nato su internet negli anni 2000, è Ed Wood, “il peggior regista di tutti i tempi” secondo schiere di critici, autore tra gli anni ’50 e ’70 di una ventina di pellicole realizzate con budget irrisori e mezzi di fortuna, come il fanta-horror Plan 9 from Outer Space (1959, il suo titolo più famoso) e Glen or Glenda (1953). Se Tommy Wiseau e The Room devono la loro rinnovata consacrazione nell’immaginario popolare a James Franco e al successo di The Disaster Artist, anche la notorietà di Ed Wood è merito dell’interessamento di un regista un po’ più noto di lui, Tim Burton, che nel 1994 gli dedicò l’omonimo film e mise Johnny Depp a vestirne i panni. Peccato che Wood fosse già morto da diciotto anni, magari avrebbe apprezzato.
È andata meglio a Wiseau, che, vivo e vegeto, grazie al tour promozionale di The Disaster Artist si sta godendo i frutti della transizione dall’underground al mainstream con effetti mediatici del tutto imprevisti, dall’essere ospite a programmi di punta della tv americana come il Jimmy Kimmel Live al finire – di riflesso – candidato ai Golden Globe nella rosa dei migliori film. In realtà The Disaster Artist è solo la punta di un iceberg cresciuto a dismisura grazie, prima di tutto, a un graduale ma inarrestabile passaparola in rete lungo quindici anni, che ha fatto diventare Quarto potere dei film brutti uno dei film più scaricati di sempre e ha consacrato l’emancipazione dei film so bad, it’s so good! al di fuori della nicchia di fedelissimi internauti che ne hanno decretato e tenuto viva la popolarità.
Per chi fosse curioso di familiarizzare con queste pellicole, ci sono alcuni titoli fondamentali con cui cominciare. Innanzitutto Agguato alle Hawaii (Hard Ticket to Hawaii, 1987) di Andy Sidaris, un assurdo action esotico con protagonista il Ron ‘Ridge’ Moss di Beautiful alle prese con pitoni immortali, frisbee taglienti, tombini dispettosi, criminali da strapazzo e bikini. Un altro film d’azione incredibile è Gymkata (1985), diretto da Robert Clouse. Tratto da un romanzo di Dan Tyler Moore e girato in Jugoslavia, vede il campione olimpionico Kurt Thomas combattere contro un esercito di nemici sfruttando le proprie doti di ginnasta acrobatico. L’esito è piuttosto straniante.
Sempre nell’ambito del cinema action c’è Miami Connection (Woo-sang Park, 1987), in cui la trama alla Guerrieri della notte si sposa con il ninja-movie; Samurai Cop (Amir Shervan, 1991), protagonista un poliziotto addestrato in Giappone, reclutato dal dipartimento di Los Angeles; e l’allucinante Mr. No Legs (Ricou Browning, 1978), il cui personaggio principale è un tizio realmente privo di gambe che fa a botte come se non ci fosse un domani.
E poi, ancora, Birdemic: Shock and Terror! (James Nguyen, 2010), se vi sentite abbastanza pratici col genere da voler sperimentare corvi mutanti in grado di far esplodere automobili. Pellicola particolarmente divertente, considerato che avrebbe dovuto essere un omaggio agli Uccelli di Alfred Hitchcock, con risultati decisamente meno riusciti. O, se preferite, ci sono gli elfi di Troll 2 (1990), diretto da Claudio Fragasso, che girando in trasferta negli Stati Uniti sfida la logica delle differenze linguistiche tra attori italiani e americani con dialoghi senza senso. E questo è solo uno dei tanti elementi dissonanti che hanno fatto sì che Troll 2 diventasse col tempo un vero e proprio “scult”, al centro di convention e manifestazioni pubbliche. Tanto da convincere il protagonista Michael Paul Stephenson – allora un bambino – a fare i conti col proprio passato e a realizzare un documentario (Best Worst Movie, 2009) tutto incentrato sull’eredità lasciata da questo film so bad, it’s so good!.
Che non si accusi l’Italia di non aver contribuito alla crescita di questa categoria: lupi mannari che fanno scempio di camorristi (La croce dalle sette pietre di Marco Antonio Adinolfi, 1987), band di adolescenti disperati che cercano in tutti i modi di perdere la loro verginità – e di raccontarlo attraverso la musica (Venni vidi e m’arrapaoh di Vincenzo Salviani, 1984). Insomma, anche noi possiamo dire di aver fatto il nostro. E in fin dei conti, se riusciamo ad abbandonarci alla visione di questi film senza troppi pregiudizi, potremmo pure arrivare alla conclusione che l’etichetta del so bad it’s good!, più che un filone o una tipologia, è un modo di essere, un’inclinazione. Prendere o lasciare.