Era il 17 maggio 1972 quando due uomini entrarono al Worcester Art Museum, in Massachusetts, e ne uscirono poco dopo, di fretta, portando con sé quattro dipinti di Paul Gauguin, Pablo Picasso e un presunto Rembrandt, oggi ritenuto opera di uno dei suoi studenti. Il colpo durò circa cinque minuti. Erano armati e mascherati, per rendersi irriconoscibili. Durante la rapina tennero sotto tiro un gruppo di adolescenti in visita con la scuola e spararono a una guardia di sicurezza, che cercava di bloccarli. La polizia arrivò sul posto poco dopo, seguita da agenti dell’FBI e funzionari della dogana. Con un valore complessivo delle opere rubate pari a 2 milioni di dollari, il New York Times classificò il colpo tra “i più grandi furti d’arte dei tempi moderni”. Alcuni sostengono persino che abbia ispirato un crimine ancora più celebre avvenuto lì vicino: il colpo del 1990 all’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston, in cui vennero trafugate opere per 500 milioni di dollari, il furto più costoso nella storia degli Stati Uniti, tuttora irrisolto. Il colpo di Worcester fu orchestrato da Florian “Al” Monday, criminale di lungo corso, ma ci vollero appena dieci giorni perché la polizia arrestasse quattro persone coinvolte nel colpo, grazie soprattutto alle segnalazioni dei clienti di un bar della zona, che riferirono che i due ladri assoldati da Monday si stavano vantando della loro impresa. Nel giro di un mese, i dipinti furono recuperati intatti in una fattoria di maiali nel Rhode Island e restituiti alla galleria.


È da uno dei furti d’arte più significativi di sempre che trae ispirazione The Mastermind, il nuovo film della regista statunitense Kelly Reichardt. Presentata alla 78esima edizione del Festival di Cannes e disponibile in streaming su MUBI Italia dal 12 dicembre, oltre a essere presente al cinema, la pellicola è ambientata in un momento politico liminale, che riflette il senso di incertezza di James Blaine Mooney, interpretato da Josh O’Connor: l’ottimismo rivoluzionario degli anni ’60 svanisce mentre l’inizio del disincanto degli anni ’70 comincia a farsi sentire. Mooney, il protagonista, è l’antitesi della maggior parte dei personaggi di Reichardt. Anche se come tanti dei suoi protagonisti non sa cosa fare della sua vita e fatica a trovare una direzione, là dove gli altri tendono a essere definiti dalle loro routine meticolose e produttive, lui è definito dalla loro assenza. È un falegname disoccupato che non ha ancora soddisfatto le aspettative della propria comoda vita borghese e che si dedica segretamente a piccoli furti d’arte. Sua moglie Terri, impiegata d’ufficio, è la principale fonte di reddito della famiglia, mentre i suoi genitori gli prestano soldi senza troppe restrizioni. Mooney trascorre le giornate osservando il museo d’arte locale, studiando sia i visitatori sia le guardie. Vuole elaborare un piano per rubare una serie di dipinti di Arthur Dove, pioniere dell’astrattismo americano. Sono soldi facili, almeno all’apparenza. Almeno fino a quando, poi, tutto inizia a crollare.

O’Connor costruisce un protagonista complesso, alienato e privo di carisma criminale, lontano dall’eroe tradizionale dei film di rapina: Mooney non è brillante né simpatico, ma rappresenta un uomo borghese frustrato, insoddisfatto e incapace di soddisfare le aspettative dei genitori e della società, un anti-eroe la cui mediocrità e compiacenza diventano il suo difetto fatale. Il furto dei dipinti di Dove, poco valorizzati negli anni ’70, suggerisce che il suo gesto non sia motivato dal profitto ma dal desiderio di superare intellettualmente il padre e affermare una forma di indipendenza morale, pur rimanendo al di fuori della legge. Immerso nella sonnacchiosa atmosfera dei quartieri residenziali del New England, The Mastermind esamina quello che succede a una persona, e a chi la circonda, quando le conseguenze delle sue azioni si fanno mano a mano sempre più chiare. Mooney è un uomo abbastanza intelligente da mettersi nei guai, ma non abbastanza da uscirne. Un uomo che non è così ambizioso come crede: sceglie dipinti che conosce, quelli con cui sente di avere un legame, appunto, più che gli altri che possono valere una fortuna.


Il film si muove con lentezza deliberata: la regia e la fotografia ricostruiscono un’America anni Settanta con grande rispetto per i dettagli, evocando un realismo che sembra rubato ai documentari o al fotogiornalismo sociale: case modeste, auto d’epoca, arredamenti dimessi, toni seppia e luci attenuate. Questo minimalismo estetico non è un vezzo: è la modalità con cui Reichardt racconta come spesso la vita e le sue disillusioni non esplodano, ma si consumano in piccoli gesti, in vuoti, in silenzi, in illusioni infrante. Non c’è redenzione, né catarsi: c’è solo la consapevolezza della propria mediocrità, la sconfitta nella quotidianità.

Per tutta la pellicola, in sottofondo, in modo indiretto, radio e televisioni trasmettono notizie sulla guerra del Vietnam. “All’epoca, una delle tre emittenti principali mandava filmati della guerra, con soldati che avanzavano nella giungla”, racconta Reichardt. Secondo la cineasta, questo rispecchia l’attuale clima politico, la violenza di luoghi all’apparenza lontani irrompe nella quotidianità attraverso i media. “Ovviamente oggi c’è molto più controllo, non c’è più lo stesso tipo di accesso. Ma ieri, ad esempio, ascoltavo un podcast in cui alcuni medici riferivano il numero di bambini di Gaza che hanno subito ferite d’arma da fuoco alla testa”, continua. “Una cosa atroce. E un minuto dopo stavo andando in una galleria nel sud di Manhattan, e mi sono ritrovata seduta in una sala piena di quadri, con amici che suonavano, altre persone accovacciate per terra o sui divani ad ascoltare questa bella musica, bambini che correvano, cani che entravano e uscivano. Mi fa effetto pensare che queste due realtà coesistono. Questi orrori fanno irruzione nel nostro mondo, ma poi continuiamo a vivere la nostra vita. Sono come una spada di Damocle sospesa sopra tutte le nostre teste, un dolore condiviso”.

In unʼAmerica pre‑digitale, senza sorveglianza capillare, con pochissime protezioni e molte disuguaglianze, la rapina non è solo un gesto criminale, ma anche un atto disperato di autoaffermazione di chi si sente invisibile, inutile, perso. Sono la crisi della classe media, la disillusione generazionale, la fine del sogno americano. In questo senso, The Mastermind è meno un film sul furto e più un ritratto psicologico e sociale del fallimento umano e della fragilità delle strutture che dovrebbero sostenerci. Ogni gesto, anche piccolo o apparentemente insignificante, può generare effetti inaspettati e irreversibili, che ci costringono a confrontarci con la responsabilità, non solo morale ma esistenziale, di ogni individuo rispetto al mondo in cui vive e agli altri. La mancanza di consapevolezza o la sottovalutazione delle conseguenze non scusano le azioni, ma mettono in luce la nostra umana fragilità, sempre in bilico tra intenzione e risultato. Nonostante furti, fallimenti, errori o illusioni, la vita infatti prosegue incessantemente, indifferente ai nostri piani e alle nostre frustrazioni. Indifferente ai desideri che ciascuno di noi porta con sé.
“The Mastermind” è disponibile in streaming su MUBI. Iscriviti qui per guardarlo gratis e ottieni 30 giorni di prova.
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