“The Florida Project” mostra come per molti il sogno americano non esiste e non esisterà mai - THE VISION
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C’è un’opera scritta nel 1933 del drammaturgo austroungarico Ödön von Horváth che si intitola Glaube Liebe Hoffnung, Fede speranza carità, le virtù teologali. La Fede è associata alla croce, simbolo della Cristianità; la Speranza all’ancora, a cui l’essere umano si aggrappa nella vita di tutti i giorni; la Carità al cuore, simbolo rappresentativo dell’amore, che permette all’essere umano di realizzare il Regno dei Cieli in questo mondo. Nella drammaturgia di von Horváth, proprio come nell’epoca in cui scriveva, regnavano recessione e disoccupazione. Elisabeth, la protagonista, è una giovane donna, piena di speranza e decisa a costruirsi una vita, ma è costretta a lottare in ogni modo con il sistema che la circonda, e gli altri esseri umani che ne incarnano le regole e i valori, così come le deformità. Così tutti i suoi tentativi per farcela tracciano intorno a lei una spirale che la stringe sempre di più, fino alla rovina.

A causa di vecchi debiti e di un nuovo lavoro come rappresentante, per il quale ha bisogno di una costosa licenza per il commercio ambulante, cerca infatti di ottenere un prestito. Ha bisogno di denaro per poter lavorare, e ha bisogno di un lavoro per poter guadagnare denaro. Così, si rivolge all’Istituto di Anatomia, offrendo il proprio corpo in vendita già in vita. Quando il tentativo fallisce, il preparatore dell’istituto, commosso, decide di prestarle il denaro necessario. Poco dopo, però, scopre che Elisabeth ha usato quei soldi per pagare una multa ricevuta per aver esercitato il commercio senza la licenza. La denuncia per truffa e lei viene condannata a 14 giorni di carcere. Più tardi, un giovane poliziotto si innamora di lei, ma lei gli nasconde la sua pena. Quando lui le chiede di sposarlo, sembra che una nuova vita possa essere possibile. Ma un giorno il suo passato riaffiora, e il poliziotto si trova costretto a scegliere tra lei e la propria carriera.  Così, dato che siamo a teatro e non in un film di Hollywood: la lascia. Di nuovo sola, senza lavoro, senza denaro e senza nessuno accanto, Elisabeth non trova più alcun senso nella propria esistenza. Tenta il suicidio gettandosi in un canale, viene salvata, ma i tentativi di rianimazione hanno solo un effetto temporaneo. Abbandonata dalla fede, dall’amore e dalla speranza, Elizabeth muore.

Sto parlando di questa pièce teatrale, vecchia di quasi un secolo ma brutalmente ancora attuale, perché come tematiche si avvicina incredibilmente a The Florida Project, film del 2017 di Sean Baker  – anche regista di Anora –, scritto insieme a Chris Bergoch e disponibile in streaming su MUBI all’interno della rassegna Fai il tuo gioco: indie statunitensi contemporanei, con un notevole cast composto tra gli altri da Bria Vinaite al suo esordio cinematografico nei panni di Halley, giovane madre single; la pazzesca Brooklynn Prince, che interpreta la figlia di sei anni Moonee; e ultimo ma non certo ultimo Willem Dafoe, il manager del motel “Magic Castle Inn & Suite” (dov’è stato girato il film, che esiste davvero sulla Highway 192, in Florida) e che per questo film ha ricevuto a ragione una cascata di nomination come miglior attore non protagonista.

La trama si concentra sulle avventure estive di una bambina di sei anni, Moonie appunto, che vive a sei miglia da Disney World con la madre single e disoccupata che vive in questo motel economico ma estremamente decoroso e curato, proprio grazie a Bobby, al suo impegno indefesso e alla sua pazienza zen, che sembrano nascondere un passato di dolore, a cui però, per qualche motivo, questo solido personaggio maschile ha deciso di resistere, da cui è riuscito a non farsi cambiare in peggio, come una sorta di morbo. La lotta di Halley per cavarsela in qualche modo, riuscire a racimolare i soldi ogni settimana e per garantire a se stessa e a sua figlia la stanza del motel, si svolge in un ambiente surreale, dominato dalla vicinanza di Disney World, che durante la fase di progettazione era appunto stato chiamato in codice “The Florida Project”. Nel corso di tutta la storia c’è quindi questa costante tensione tra questa realtà costosissima (i biglietti costano diverse centinaia di dollari, per non parlare del soggiorno in loco), favolosa, scintillante, che sogna ogni bambino anche solo per sentito dire, a soli pochi chilometri di distanza da una realtà completamente agli antipodi, “reale” appunto, fatta di vita quotidiana di persone che in vacanza non ci potranno mai andare, fatta di residenti locali, e di bambini, che come ovunque nel mondo, ricchi o poveri che siano sempre bambini sono, accomunati dalle stesse caratteristiche, dagli stessi sogni, e dalla stessa apparentemente innata capacità di fantasticare, di giocare, e di essere felici, anche quando tutto intorno cade a pezzi: Moonee e i suoi amici, Scooty e Jancey esplorano il mondo che li circonda con gioia, come abbiamo fatto tutti, inconsapevoli delle difficoltà che gli adulti intorno a loro devono affrontare. Moonee è la più spavalda, e si comporta come una specie di capetta, a cui gli altri chiedono dove andare. Domanda del tutto evocativa, dato che appare chiaro ma non stucchevole, quanto sia grande il suo portato esistenziale: “Where we are going?”, sembrano chiedersi non solo i bambini, ma tutti coloro che vivono al Magic Castel, vicino al quale una grande insegna pubblicitaria, tipica delle Highways americane e dello sprawl urbano e grafico, scandisce lo slogan: “Stay in the future today”. Ma ben lungi dalle velleità innovativo-tecnologiche da Silicon Valley, che si trova all’altro capo degli States, il presente di chi lo guarda tutti giorni sarà esattamente uguale al futuro, e cioè una lotta reiterata per stare a galla. “Just come on”, risponde Moonie, seguimi e basta, vieni con me.

Il sogno americano si sgretola (nonostante gli sforzi di Bobby, che come tutti fa quel che può, e mentre cerca di ripararlo il secchio di vernice gli cade dalla scala rischiando di ammazzare qualcuno e macchiando tutto il pavimento) in una periferia degradata, un’illusione che si infrange tra le architetture colorate e decadenti della Florida. Mano a mano che il film si dipana si muove sempre di più, un giro alla volta, tra la spensieratezza dell’infanzia e la brutalità della realtà adulta, componendo un affresco toccante e disturbante al tempo stesso dell’America più povera, quella che nessuno vuole vedere, quella in cui quando ci finiscono i turisti diretti al parco divertimenti si mettono a piangere dalla delusione, dalla paura e dallo sconforto, davanti a chi lì ci vive, senza freni, senza pudore.

Al Magic Castle si incrociano storie di emarginazione e sopravvivenza, di famiglie che pagano settimana per settimana, cercando di sfuggire alla miseria. Bobby, che all’inizio sembra burbero e spietato come chiunque detenga un po’ di potere, si dimostra sempre più giusto e compassionevole, cerca di fare il suo lavoro al massimo, di mantenere ordine, decoro e una sicurezza molto più simile a “protezione” in un luogo che di sicuro non ha niente, e che non è stato pensato per accogliere famiglie, non è stato progettato per viverci a lungo. Bobby ha un occhio attento per tutti, difende i bambini dai pedofili così come dalle macchine, così i grandi uccelli Lynchiani che a un certo punto si fissano sulla strada, così come cerca di difendere Halley da se stessa, e dalla vita che la stritola, anche se è costretto a chiederle i soldi per stare lì, come a tutti gli altri, perché quello è il suo lavoro e non può fare eccezioni, non importa quanto saranno gravi le conseguenze. Perché tra bisognosi non ci si può salvare, non è come in Pretty Woman, al massimo si può provare a stare a galla insieme, ed è proprio quando Halley perde l’appoggio della sua amica che inizia ad andare a fondo.

Moonee e i suoi amici esplorano questo universo decadente con l’ingenuità di chi non conosce ancora la disperazione. Giocano tra i campi non curati, sugli alberi, tra le mucche e le casette colorate abbandonate, si intrattengono con giocattoli di plastica da pochi soldi, immaginano di avere una casa tutta per loro, compiono piccoli atti vandalici, fino ad appiccare un incendio. “Non vuoi vedere la casa che brucia?”, dice Halley a Moonee, senza sapere che è stata lei ad appiccare l’incendio insieme agli altri. “Non sei eccitata? È molto meglio della TV”. Il fuoco diventa uno spettacolo, un surrogato del parco divertimenti che non potranno mai permettersi. Halley le scatta anche una foto davanti alle fiamme, simbolo della loro vita che va in fumo, proprio come quelle casette che nessuno ha acquistato. “Sai perché questo è il mio albero preferito?” chiede Moonee alla sua amica Jancey mentre ci stanno sedute sopra, indicando il tronco ormai orizzontale ma ancora in crescita. “Perché è crollato, ma continua a crescere”.

Sean Baker costruisce il film attraverso questa doppia prospettiva: da un lato, l’ottimismo ostinato dell’infanzia, dall’altro la dura realtà di una madre sola che combatte con le unghie e con i denti per non sprofondare del tutto. Halley è arrabbiata, è feroce come un animale in trappola, perché si trova incastrata in un sistema che non le lascia via d’uscita, proprio come Elisabeth di Glaube Liebe Hoffnung. La sua ribellione non è eroica, ma disperata, e porta solo a ulteriore emarginazione, a ulteriori danni e punizioni, anche da parte dei suoi simili. Nessuno la ama, solo Bobby, forse come un padre, ma anche lui fa quello che può. Alla fine, il sistema interviene nel peggiore dei modi. Nel modo in cui come un retro pensiero tutti temevano che accadesse. I servizi sociali arrivano a prendere Moonee, l’unica cosa che Halley ha, l’unica cosa che la rende felice, che la fa ridere, l’unica cosa per cui Halley vive ancora. E la bambina, per la prima volta nel film, piange proprio come una bambina. Fugge da Jency, la sua migliore amica, e insieme a lei scappa dalla polizia e dagli assistenti sociali, verso Disney World, in cui entrano confondendosi tra la folla. Moonee e Jency corrono mano nella mano verso l’iconico castello delle favole, verso il sogno americano che per loro non esiste e non esisterà mai. Un finale sospeso tra illusione e speranza, che proprio come i bambini all’inizio ci lascia con una domanda senza risposta: dove andranno queste bambine? E dove stiamo andando noi, mentre accade tutto questo? Just come on.


“The Florida Project” è disponibile in streaming su MUBI. Iscriviti qui per guardarlo gratis e ottieni 30 giorni di prova. 

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