“The Fall” ipnotizza e sconvolge, riflettendo sul potere trasformativo delle storie e del dolore - THE VISION

Cielo azzurro, pietra panna, luce rosa, vento caldo, stridii di rondini. Mentre cammini sui ballatoi e sulle terrazze del Mehrangarh Fort, a Jodhpur, in India, soprattutto sul versante esposto a nord-est, è impossibile non pensare a una caduta. Le mura, infatti, scendono a precipizio per circa 36 metri, verticali come la più impressionante delle pareti di roccia. Costruito nella seconda metà del 1400 il forte si alza dal deserto e dalle incrostazioni urbane della città blu, in Rajasthan, tra i luoghi più magici del mondo, in maniera folle e maestosa, tutt’ora con un’aura impossibile da dissolvere, anche con le migliori intenzioni illuministe. Il capogiro causato da quella costruzione è un’ontologia. Sotto c’è il mare di casupole dei bramini, che vivono in povertà, ricchi di fede e tradizioni, guardiani dell’acqua strappata all’avanzare del deserto. Di notte quella superficie increspata si incendia di luci e lumini, e soprattutto di musica e di latrati, che pure per qualche strano effetto acustico risalgono le mura, fino alle finestre più alte, là dove solo gli uccelli sanno come arrivare. Le rondini e gli scoiattoli invece se ne infischiano della gravità, fanno da messaggeri dal sopra al sotto, o viceversa. So tutte queste cose perché al Mehrangarh ci ho vissuto un mese, ogni giorno, ogni sera e ogni notte ipnotizzata dalla forza simbolica di questa montagna sulla montagna. Ed è proprio dal versante nord-est del palazzo che ha inizio la storia-nella-storia di The Fall, film girato da Tarsem Singh Dhandwar nel 2006 e disponibile su MUBI dal 27 settembre.

Roy Walker, interpretato da Lee Pace, paralizzato a causa di una caduta sul set del primo film in cui lavorare come stuntman, come una sorta di Sherazade racconta ogni giorno un pezzo di una storia incredibile ad Alexandria, una bambina che si trova nel suo stesso ospedale con un braccio rotto. Il potere dell’immaginazione è incredibile, tra costumi, scenografie e location mozzafiato, Dhandwar crea un’estetica potentissima. Un’atmosfera affascinante, come quella evocata dai libri che non riusciamo a smettere di leggere, impazienti di rituffarci nel loro mondo, di stare vicino ai loro personaggi, ma anche ai loro autori, narratori, in un legame intimo strettissimo, quasi fisico, carnale, per quanto tutto mentale. Non a caso è stato scoperto che mentre leggiamo si attivano i neuroni legati al movimento, come se effettivamente il nostro corpo vivesse in prima persona le esperienze raccontate dalle parole.

Questo film visionario, composto in gran parte da quelli che potremmo definire tableaux vivants, tavole, quadri, quasi come un albo illustrato di grande formato, infatti, mostra l’enorme potere che ha sulla nostra coscienza la narrazione e l’immedesimazione, come la nostra vita a ben vedere sia una storia anch’essa, e come tale un’illusione. Roy, il narratore, è un signor nessuno, un personaggio, potenzialmente senza nome, ma con un’identità in quanto attore agente, per quanto sostituto di altre figure, una specie di fantasma. E ci mostra come sia necessario per vivere assumersi un’identità, accettarne il ruolo, per quanto l’esistenza sia una grande farsa, come non smette di dimostrarsi la realtà, la vita, e soprattutto il mondo della narrazione e dell’arte, con le sue assurde e meschine dinamiche di potere. 

Pur essendo uscito nel 2006, The Fall nel corso del tempo ha mantenuto il suo status di film cult per appassionati, non solo grazie alla sua estetica di enorme impatto ma anche per la sua celebrazione meta-narrativa dell’immaginazione umana, incarnata in un racconto che trascende i confini tra realtà e fantasia. Girato in più di venti Paesi diversi nell’arco di quattro anni, il film fonde la vivida fantasia visiva di Singh con una narrazione che si snoda tra la crudeltà del reale e la bellezza dell’immaginario, ottenendo un racconto che ipnotizza e sconvolge, spingendo lo spettatore a riflettere sul potere trasformativo della storia, della memoria e del dolore. È proprio dalla condivisione della sofferenza fisica – e in maniera indiretta psicologica – che nasce il legame tra i due personaggi, che gradualmente si stringe, alimentato dalla fantasia epica di Roy e dalle intuizioni di Alexandria (che guarda caso si chiama proprio come la città famosa per aver accolto una delle biblioteche più grandi del mondo).

Roy racconta ad Alexandria una storia fantastica che vede protagonisti cinque eroi in cerca di vendetta contro un malvagio governatore. La narrazione prende vita nella mente della bambina, e noi spettatori siamo trasportati in un mondo onirico fatto di paesaggi surreali, costumi preziosi e scenari incredibili (eppure tutti reali). Tuttavia, c’è una sottile linea che separa il mondo immaginario di Alexandria dalla realtà percorsa da Roy, che distrutto da un tradimento e dalla sua condizione di paralisi, manipola la sua stessa narrazione sperando di riuscire a convincere la bambina a procurargli ciò che gli serve per tentare di suicidarsi. Emerge così il potentissimo e inquietante baratro della dualità che attraversa ben o male tutte le nostre esperienze: da un lato, l’immaginazione della bambina dà vita a un mondo di eroi, paesaggi esotici e avventure mozzafiato; dall’altro, sembra che Roy trovi la forza di andare avanti con la sua storia con un unico scopo: trasformare la magia della narrazione in uno strumento per la morte. Tutto il film si sviluppa man mano che procede come una grande metafora della lotta tra speranza e disillusione, tra vita e morte.

Come spesso accade, e come probabilmente abbiamo avuto modo di sperimentare da adolescenti, in quella fase della vita liminale tra l’infanzia e la vita adulta, l’immaginazione diventa al tempo stesso rifugio sicuro e trappola. Per Alexandria, la storia di Roy è un modo per allontanarsi dalle circostanze dolorose della sua vita quotidiana e anche dai ricordi del suo passato. Sembra che la sua immaginazione sia ancora sufficientemente elastica e nutriente per salvarla, per guarirla, spostandone pensieri ed emozioni su un altro piano. Mentre per Roy il racconto è un sottile, disperato tentativo di manipolazione, l’unica possibilità che gli resta per mettere in atto il suo desiderio autolesionista.

Questo meccanismo mette in luce una delle dorsali del film: il potere dell’immaginazione di influenzare la realtà, e per dirla con l’antropologo e storico delle religioni Ernesto De Martino, che cos’è questa se non la definizione di magia. Roy sfrutta il potenziale evocativo del racconto per trasformare indirettamente la realtà, ma Alexandria con la sua forza interiore, pura nonostante le ferite che il mondo ha già provveduto a infliggerle, finisce per trasformare a sua volta la storia stessa, e non sua, in qualcosa di profondamente diverso, semplicemente in quanto ascoltatrice attiva, persona che interroga. Alexandria prende così le redini del racconto, rifiutando di accettare la fine oscura che Roy vorrebbe imporle, trasfromandola in una complice. Alexandria lo costringe, invece, a confrontarsi con il suo dolore, a guardarlo dritto negli occhi, come si guarda un nemico prima di qualsiasi incontro di lotta o combattimento, un nemico che – va da sé – si vuole vincere. Senza quello sguardo sarebbe impossibile anche solo provarci.

La fantasia, l’immaginazione, è il primo modo che abbiamo per operare su noi stessi e sulla realtà, così come per costruire le atmosfere di cui sentiamo il bisogno, quasi come contenitori, di immagini, di emozioni, di qualità energetiche verso cui tendere, con cui vibrare in sintonia. La spontaneità con cui Alexandria si figura eroi e avventure è il riflesso del suo bisogno di sicurezza e di protezione. Questa tecnica utilizzata spesso dai bambini è qualcosa di potentissimo e che noi stessi spettatori dai muscoli visionari sempre più anchilosati potremmo rispolverare, la nostra capacità di costruire mondi, a volte più semplici, più comprensibili, un po’ meno dolorosi, da cui piano piano ripartire, ricostruirci a nostra volta, cambiare le nostre dinamiche di pensiero, la nostra attitudine, il nostro modo di agire e di leggere i reale.

Tutto questo ci ricorda che il mondo, ovvero il nostro modo di percepirlo e di farne esperienza, non è altro che una fittissima illusione, quando ce ne accorgiamo percepiamo un senso di spaesamento, un’angoscia profonda e paralizzante, come se insieme al mondo anche la nostra identità, e tutto ciò che facciamo per dargli senso e tenerlo insieme si disgregasse, con un’immensa forza centrifuga. The Fall, i suoi due protagonisti, e la storia che dipana sotto i nostri occhi, ci fa capire che invece l’unico modo per non soffrire e per cercare di vivere bene, è proprio il riconoscere e l’accettare questa illusione, abituarsi a questa idea assurda, e vivere come se si stesse iniziando un gioco, credendo fino in fondo al patto di incredulità che ci tiene al mondo. C’è una frase di Epicuro che si presta bene come sigillo a questa consapevolezza e a questo salto nel vuoto: “Arriverà un momento in cui crederai che tutto sia finito. Questo sarà l’inizio”, ecco, The Fall ci dimostra esattamente questo.


“The Fall” è disponibile in streaming su MUBI. Iscriviti qui per guardarlo gratis e ottieni 30 giorni di prova. 

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